venerdì 30 agosto 2013

Formalina di Gaetano Giuseppe Magro

recensione di Claudia Distefano (laureata in Lettere Moderne, Università di Catania)

«Ambra, per molti era una ragazza difficile.»
Altrettanto difficile è ingoiare tutto d’un fiato il periodo di ben 8 righe che segue quest’incisivo inizio del romanzo.
Mi piace molto che si cominci così, col “microscopio” puntato su una ragazza e dunque sull’ “altro da sé” rispetto all’autore. Niente diaristica narrazione in prima persona, nessun noioso ed ingombrante io.
Seconda pagina, secondo maxi periodo, questa volta esteso su ben 16 righe. Si tratta di un elenco: «amarsi solo nei week-end, […] la piscina invernale per i bambini, […] le graduatorie dei concorsi pubblici», tutto viene etichettato come appartenente a quel «mondo mediocre» che fin dall’inizio si rivela essere parola chiave e insieme scenografia dell’intera storia.
A proposito di scenografie, la prima metà del romanzo ci abitua ad osservare con attenzione asettici luoghi chiusi. C’è una sala d’attesa (con tanto di settimanali e quadri di scarso valore) e ci sono stanze da cui al massimo si può fuggire per andare a visitare la foce di un fiume morto ed inquinato.
Poi irrompe Praga. Balconcini in legno e torri in stile gotico sembrano quasi un respiro, una picconata sul muro grigio che delimita il perimetro d’azione del protagonista. Lui Ruggero Morganti (e chissà perché questa ripetizione della R), lei Ambra (R) Contimini e non è forse un caso se i luoghi esterni riguardano principalmente lei e non lui, che quando tenta di raggiungerli si ritrova a « girovagare », preda del potere decisionale di lei. Insomma un po’ un “Novecento” del Duemila, che un Baricco invisibile ha rinchiuso fra i più controllabili limiti del mondo / nave conosciuto.
Molto più a suo agio con la pupilla puntata sul microcosmo delle cellule, lui, anche se «sono guai se guardi le cose tenendovi sopra gli occhi per starvi il più vicino possibile: tutto viene enormemente ingrandito, senza possibilità di sintesi estetica.»
Perché un microscopio? Perché Ruggero Morganti è un anatomopatologo e non stupisce che nella Nota dell’autore si legga l’esplicita volontà di rendere almeno un minimo più conosciuta questa figura indebitamente nascosta della medicina moderna.
Eccolo quindi, lui e il suo linguaggio così indissolubilmente legato alla sua professione. «Affetto da uno sconfinato delirio nominale», si destreggia in periodi - anche questi interminabili - che assomigliano a scioglilingua e che confesso di aver saltato a volte a piè pari per l’incapacità di comprenderli. I monologhi sembrano alimentati da una punta di autocompiacimento, per poi tornare all’interazione con un intimorito «Ti sto annoiando, vero?». Similmente, sembra quasi trasformarsi quando si rivolge a lei con intenti dialogici. Abbassa improvvisamente i toni e in assenza di tecnicismi e terminologia scientifica, a volte si scopre tutta la difficoltà nell’indagare la sfuggevolezza di lei… come quando si abbandona all’inflazionato «Perché scrivi?».
(A proposito di dialoghi, qualche spia d’improbabilità ad esempio quando il cameriere si accontenta di «Due cappuccini e due cornetti, grazie » senza chiedere di specificarne il gusto. Tuttavia sottolinearlo sembra davvero un eccesso di “osservazione al microscopio”!)
Questa lingua, questa terminologia è forse il tratto distintivo del romanzo. E come è piacevole / raro che un autore contemporaneo ne possegga uno…
Contagioso fra l’altro, se anche la protagonista femminile finisce per acquisire un lessico scientificamente colto nelle sue lettere e nel suo romanzo (un romanzo nel romanzo). Ciò che colpisce - così come nei testi poetici dello stesso autore - è l’unione fra questa lingua “straniera”, artificiale e dall’altra parte, concetti astratti, misteri dell’esistenza.
«La poesia è il miglior strumento diagnostico a disposizione dell’uomo per tentare la biopsia di Dio e di tutte le cose misteriose», questa ed altre definizioni colpiscono per immediatezza dell’ immagine e del contenuto. Ammirevole poi che si definisca l’anatomopatologo come un critico d’arte, dedito all’interpretazione critica di cellule dalle forme più svariate: sostanzialmente delle opere d’arte…
Persino l’amore non sfugge - affatto - a quest’occhio critico che tutto classifica e analizza nella sua più oggettiva realtà. Così non sfugge il ruolo ingannatore degli ormoni nella fase del corteggiamento (spiegazioni istruttive oltre che molto interessanti), i battiti accelerati di un cuore sono descritti con chiarificatrice semplicità e lo stesso cuore è addirittura sezionato in alcune pagine che personalmente “non ho avuto il cuore” di affrontare.
A proposito di questo, è innegabile il ruolo primario ricoperto dalla “storica coppia Eros-Thanatos” a cui probabilmente avrei dovuto dedicare spazio in questo commento. Ma il commento è mio e preferisco terminarlo sottolineando le citazioni (ben 19 se non di più) riscontrate nel romanzo. Opere d’arte, canzoni e sculture si ritrovano principalmente in quei famosi luoghi chiusi di cui parlavo prima, con un picco di presenze nella stanza bizzarra dell’anatomopatologo.
Quando mi ritrovo davanti a simili abbondanze di citazioni, non posso fare a meno di ripensare – in maniera più o meno fuori luogo - alle alte stanze e saloni mirabilmente descritti dal Gabriele D’annunzio de Il piacere. Con un salto in stile e tempo, le opere citate da Magro sono quadri di Chagall e Magritte; alla classicità più fastosa, in immagini ed ostentazione, fa da contraltare un montaliano «mal di vivere cellulare».
Paragone azzardatissimo, d’accordo ma non posso fare a meno di trovare concordanze fra la storia Ruggero-Ambra e l’ossessione di Andrea Sperelli per la «stronza sofisticata» (cit. Magro) Elena Muti…
Il piacere si conclude con un’asta fra gli scatoloni di un trasloco; Ruggero trasloca disfacendo proprio quella sua stanza iper-riempita d’opere d’arte. Andrea Sperelli è l’affascinante precursore di una decadenza intuita e sfidata a duello; Ruggero è il pro-pro-pronipote della stessa decadenza divenuta “decaduta” al participio passato.
Non resta che scegliere il proprio punto di vista, scegliere cosa osservare: micro / macrocosmo, microscopio o spazi esterni.
«Era arrivato il momento di cambiare cielo, o meglio l’angolo di mondo da cui guardare quello stesso cielo.»

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