mercoledì 18 aprile 2012

Peripato Tuscany

di Subhaga Gaetano Failla


Lasciamo tracce 
allo sguardo del vento 
Frasi di sabbia


Ulivi, ciliegi e altre palme

Proprio adesso. Stavo guardando la torre di San Bernardino, e i due occhi immobili oblunghi che hanno come pupille le campane, e le tegole sull’apice trafitto da una croce in ferro, e il cielo blu e bianco di nuvole luminose, oltre bassi ulivi inselvatichiti e piante che s’azzuffano disordinate a siepe – una parete verde sconnessa, oscillante – e proprio adesso le palpebre, e sopracciglia e iride e tutto il resto si sono rivitalizzati, insomma suonano le campane. Si riempie il cielo, e il suono rimbalza sulle mura medievali alle mie spalle, contende lo spazio ai diversi cinguettii di sparsi volatili, al gracchiare di corvi che hanno affitto e condominio sulla cinta difensiva, ma l’abitudine ha fermato il tempo poiché l’unico attacco recente a queste mura è stato quello degli uccelli del vento delle piogge e degli aleggianti umori psichici che di rado si spingono fin quassù.

Una lucertola si fa quattro passi di fronte a me, seduto a una panchina in pietra che mi rinfresca le natiche, e ne avrà pure ragione lei, la bestiola rettile, ché c’è un bel sole mite e ne vale la pena, a sgranchirsi le zampe e a far pulsare la gola chiara tra fiorellini gialli e bianchi e viola, tra foglie d’ulivo cadute e qualche penna scura d’un volatile che s’alleggerisce in primavera. Ho la giacca di renna appesa al ramo d’un ciliegio e talvolta un soffio di vento fa piovere petali bianchi, e anche le formiche nere e quelle rosse si danno da fare. C’è di nuovo silenzio in questo momento, perfino i corvi fanno meno casino, sarà l’ora di pranzo forse e i pennuti s’affretteranno verso un ristorante, chissà, o verso un tavolo apparecchiato in famiglia, oppure presso amici, e poi oggi è la Domenica delle Palme, primo aprile duemiladodici, e si conviene festeggiare la giornata con un pasto cerimoniale, e ho già detto a un paio d’amici che di notte sono sbarcati nelle campagne di Donoratico degli Oggetti Volanti Non Identificati, e persino il Presidente ha dichiarato di valutare bene la situazione e di evitare allarmismi, e speriamo che l’Aurelia non sia chiusa per tale emergenza se no come raggiungo martedì la scuola, e comunque oggi è anche il Pesce d’Aprile, ed è buffo pensare a Gesù sopra un asino e allo scherzo che gli hanno giocato, e al Sud ci sono le palme e anche gli ulivi e qui, sulla mia panchina in pietra, è tornato il sole, e il brandello di Toscana dove siedo e scrivo si modifica continuamente, a causa pure della mia biro che traccia segni sul quaderno a quadretti, e mi ricordo Borges nel deserto egiziano con un pugno di sabbia che scivola dalla mano.





L’ombra del cipresso e la mia

Il cipresso in Toscana è stato ucciso dallo sguardo dell’abitudine e poi sepolto dentro loculi d’innumerevoli fotografie e cartoline. Non ho voglia oggi di parlare d’un cadavere, di indossare i panni dell’anatomista e nemmeno quelli dell’archeologo di necropoli. Parlerò invece di alcune ombre.

Sulla sinistra la statua di San Martino ha le braccia aperte rivolte al fianco dell’antico duomo, un volto magro e la barba corta. Il santo è vestito da vescovo, con tanto di mitria in testa, e ai piedi riposa la spada e il mantello a ricordo di pagine infantili, di gesti dall’alto d’un cavallo. La sua ombra cade sulla ghiaia, si sfalda sui piccoli sassi che crocchiano nei passi verso l’ingresso laterale del duomo e le dimore ecclesiastiche vicine.

Sopra di me il cielo nuvoloso annuncia forse prossime piogge. Ma adesso si è aperto uno squarcio chiaro e l’ombra del cipresso in basso si spande sul cespuglio di fiori gialli, oltrepassa le sembianze d’una giovane donna catturate in un’altra statua, sfiora il cancello nero del giardino, si intrattiene per un poco accanto a una coppia di turisti (lei ha la macchina fotografica puntata e si muove come un cecchino). L’ombra si immerge dentro una siepe, giunge sulla piccola strada che conduce in piazza, bussa quasi al portone d’un vecchio palazzo color panna – un ulteriore ricordo sfocato medievale -, e l’impalpabile traccia scura che svanisce, perché il sole si è di nuovo nascosto, è disturbata ora da parole tedesche al telefonino. La mia ombra invece è seduta per metà sul muretto, l’altra parte si stacca e va giù, in un salto, al di là della parete di travertino ricoperta da un rampicante giovane con foglie tenere, verdi come la pelle d’un ranocchio, e la sagoma della testa s’appiattisce sotto nel giardino, dove la cima d’un oleandro ne solletica i capelli.

È riapparsa l’ombra del cipresso, si sposta a percorrere qualche altro passo in salita, nella stradina, senza sforzo di fiato, s’appoggia al limite basso d’una finestra chiusa.

Vastissime ombre si diffondono rapide sulla valle, ondeggiano, cambiano forma, si raggrumano, tracciano talvolta linee nette a tagliare grandi campi già rinati d’erba brillante oppure trapezi sconnessi di terra ocra o boschi scuri. La luce ha bagliori verso occidente, verso la costa tirrenica, oltre il quieto gigante vegetale, un cedro del Libano, oltre l’ombra mobile d’un suo ramo pendulo, un fantasma che gioca su un muro rosa e grigio, scrostato, sopra un altro rampicante che riveste un osservatorio celeste abbandonato, con una piccola campana appesa delimitata da una balaustra in ferro, dove tortore e colombe hanno equilibri fugaci, e il battito raro del metallo intarsia consonanze di suoni di costellazioni, d’arcipelaghi viandanti in cielo e in terra. Infine il passaggio d’un amico mi aiuta a staccare la penna dal quaderno, e l’ombra della mano vola via dal foglio.




Estrellas, papaver rhoeas et somniferum

perfetta è l’imperfezione
(Gianni Toti)

Amarcord comeun ricuore, stelle in cielo remember et la scimmia progredice, disce l’uomo che per progresso non vedrà le stelle. Etoilcorazon, estrellas, puf! magia, il child invisible per giuoco and magic star disparisci perché la scimmia d’évolution, et svanisci stelle che non vede l’uomo le ciel nocturno de l’inquinamento lumìno. L’inguine segreto di tenerezze oh tender night le stelle e papaveri rhoeas, fiore di selva, il ricordo nella curva in alto nel praaahto de respiro ooh y la corsa de printemps on the left nella curva dal lago dell’Accesa a Capanne. Oh my Lord mammà papà poppy florente aquí se puede veder les estelle di noche, étoiles e fleur di mammapapaver, flower de dream, dono di sonno, is un sueño il mio ricordo di petalipapaver somniferum disteso nella notte cum my darling sulla strada bianca le stelle sopra et l’amor che move.




Nel piccolo lago. Istruzioni per l’uso

Dicono in molti che nel piccolo lago dell’Accesa ci siano pesci mostruosi, vortici pericolosissimi e viscide piante acquatiche che s’avvinghiano alle caviglie dei nuotatori.

Ho deciso di controllare bene la situazione.

La bellezza del laghetto è tale da far abbassare istintivamente la voce. Talvolta si rimane in silenzio per meglio assaporare l’incanto del luogo.

Indosso un costume da bagno rosso a pantaloncini. Lascio i sandali e i pochi abiti sul prato che lambisce la riva, a due passi dal susino carico di frutti. Sento l’odore dell’erba cipollina sparsa nei campi, gli effluvi salubri di alti eucalipti e il ronzio di calabroni e bombi che s’aggirano lenti sopra i fiori viola dei grossi cardi spinosi.

Lego sulla testa con un elastico il mio quaderno e una penna. Potrò così nuotare senza inzuppare le pagine, e al momento giusto fermarmi e prendere appunti muovendo più rapidamente le gambe per stare a galla. Mi immergo.

L’acqua è cristallina e ricca di argilla. Libellule sfiorano la superficie o forse la mia vista mi inganna e non riconosco minuscoli angeli con ali diafane. Poi mi accorgo che le dicerie non sono infondate.

Un pesce delle dimensioni d’una grande carpa spunta in un balzo dalle profondità lacustri e s’accosta al mio viso, proprio mentre sto scrivendo del fruscio d’un canneto che oscilla lieve sulla sponda opposta alla mia e dei colli verdeggianti che mi circondano come una meraviglia edenica. Il pesce indossa una giacca grigia, una brutta camicia rosa e una orribile cravatta marrone. Davvero mostruoso. Mi rivolge la parola con tono formale:

“Buongiorno. Mi scusi, sa a che ora passa il prossimo autobus per Massa Marittima?”

“Ehm… no”, rispondo. “Non conosco gli orari degli autobus. Sono venuto qui in macchina.”

“Qui?” fa il pesce, allargando i già larghi occhi rotondi. “E come ha fatto a parcheggiare sull’acqua?”

“Ma no… Qui intendevo sul viottolo vicino.”

“Capisco. Mi può dare un passaggio?”

“Sì, certo. Tra mezz’ora, va bene?”

“Va benissimo. Mi farò trovare sulla riva dove ha lasciato i vestiti. A più tardi, allora. E grazie.”

“Prego”, rispondo. “A più tardi.”

Il pesce mostruoso svanisce in un tuffo, così come era apparso. Sto ancora pensando a quell’incontro, quando un vortice d’un tratto mi risucchia nella sua scia concentrica. Giro giro e giro, e girano gli alberi, i canneti, i cespugli, le farfalle, i prati, le rondini, il cielo azzurro con piccole nuvole bianche e un bel sole – tutto gira con me come in un caleidoscopio.

Il vortice dopo un po’ si dissolve. Mi gira ancora la testa, ma non faccio in tempo a riprendermi che alcune malefiche piante lacustri s’avvinghiano ai miei piedi per farmi il solletico. Una tortura. Non resisto. E allora rido, rido proprio tanto, una risata da sbellicarsi risuona tutto intorno. Infine mi allontano dalle piante viscide, ripongo quaderno e penna sulla testa e nuoto verso la riva di partenza. Non vorrei fare tardi all’appuntamento con il pesce mostruoso.





Spettri

Abito in una casa del Duecento con due finestre a bifora. In basso, la stradina lastricata si inerpica ripidissima da togliere il fiato, fino a giungere a una delle storiche porte d’ingresso della città. Poco più in là si innalza un magnifico e vertiginoso arco senese. Talvolta, per gioco, immagino gigantesche frecce scoccate da quell’arco verso il cielo.

Nei primi giorni trascorsi in una dimora così antica pensavo, senza alcuna originalità, alla presenza aleggiante nelle stanze di alcuni inquilini non dichiarati: i fantasmi. Ma se qualche fantasma c’era, doveva essere di indole tranquilla e benevola, perché non provavo in casa nessuna sensazione particolarmente spiacevole. Nel tempo poi, come di solito capita, dimenticai le mie fantasie metafisiche e tornai a interessarmi dei consueti quasi-fantasmi della vita quotidiana.

Una notte di qualche anno fa, durante un mio sonno infestato da sogni faticosi, mi svegliò una specie di bisbiglìo cantilenante e una luminescenza rossastra provenienti dal corridoio.

Mi alzai dal letto. Non avevo paura, forse perché ancora piuttosto stordito dal sonno spezzato. Giunsi barcollando nel corridoio. Una figura tremolante e trasparente, scalza e vestita di panni laceri, con sulle spalle una bandiera a brandelli, camminava in su e in giù e sussurrava qualcosa.

Con la temerarietà tipica di chi non è del tutto in sé, mi avvicinai alla figura e domandai con voce assonnata:

“Cosa ci fa lei qui a casa mia?”

Quel tipo – un uomo magrissimo d’età indefinibile – fermò i suoi passi e la cantilena bisbigliata e mi guardò perplesso. Infine rispose:

“Uno spettro si aggira per la Toscana.”

“Mi scusi, signor spettro”, dissi, “ma la sua citazione del famoso incipit è sbagliata. Quella giusta è Uno spettro si aggira per l’Europa.

“Mah…” borbottò lo spettro. “Io sono uno spettro comunista toscano, perciò mi sono permesso di adattare l’incipit. E poi si ricordi che il Partito Comunista Italiano è nato proprio qui in Toscana.”

“Be’, sì, ha ragione”, mormorai cortesemente. “Però io preferirei, fuor di metafora, un comunista in carne e ossa. È davvero raro ormai trovarne qualcuno, non solo in Toscana e nel resto d’Italia, ma anche in tutta Europa. Ci vorrebbe oggi, con urgenza, un nuovo comunismo, gioioso e libertario, non disincarnato e spettrale, mi scusi, come lei. Una nuova incarnazione piena di vita e di speranza. Cosa ne pensa?”

Ma lo spettro non mi ascoltava più. Si era già allontanato con la sua bandiera rossa ridotta a uno straccio, ripetendo a bassa voce quella malinconica cantilena:

“Avanti popolo, alla riscossa…”

Nessun commento: