venerdì 10 settembre 2010

La morte sulla strada



Fotografia di Alessandro Bianchi (2007)


Nell’arco di pochissime ore, Firenze, con drammatica evidenza, è tornata a verificare l’estrema pericolosità delle sue strade che da spazi e strumenti di una vitale geografia delle relazioni possono diventare in rapidi istanti orrendi luoghi di morte. La sofferta partecipazione dell’intera città al dolore delle famiglie di Ilaria e Lorenzo bene si spiega non solo con un lodevolissimo senso di umana solidarietà alla loro sventura, ma anche, forse, in forza del brusco risveglio di una più lucida consapevolezza circa la spaventosa fragilità delle nostre vite per le quali, nonostante le non poche campagne di sensibilizzazione, il più ovvio e il più breve dei tragitti quotidiani è esposto con incalcolabile probabilità al più tragico degli esiti. Sgomento suscita poi la puntuale verifica che siano proprio i giovani, sui quali, come ovvio, poggiano le speranze, per non dire le certezze di futuro di noi tutti, le vittime più numerose dovute a ben determinate e, purtroppo, ricorrenti tipologie di incidenti. Credo che una riflessione evangelicamente ispirata intorno ad eventi come questi debba, subito dopo avere invocato la potenza dello Spirito Santo perché trasfiguri in fede e speranza pasquale il disperante dolore dei genitori, dei famigliari e degli amici di Ilaria e di Lorenzo, interrogarsi circa la paradossale coesistenza da un lato di una generale rimozione della tema della morte, una vera e propria censura lessicale e concettuale dall’orizzonte culturale e sociale del nostro oggi, dall’altro di una sostanziale squalificazione circa il valore e la consistenza tanto preziosa quanto fragile della vita, che si vorrebbe ormai messa definitivamente al riparo da ogni rischio dalla nostra pervasiva potenza tecnologica e che invece, forse proprio per il carattere radicalmente ambiguo della stessa tecnologia, esige un supplemento di cura e di attenzione in forza del suo ineliminabile statuto di dono, la vita, tutt’altro che irrevocabile e scontato. Mi sembra infatti che una interpretazione sempre più tecnologica dell’esistenza –ridotta a pura meccanica biologica possibilmente sempre più veloce ed “efficiente”- da un lato finisca per svilire il carattere misterioso della vita stessa –il suo senso profondo, che include i due eventi altrettanto interrogativi quali la nascita e la morte-, dall’altro alimenti la delirante e illusoria pretesa di poter gestire il dono, potenziandone quasi all’infinito le risorse e le capacità solo mediante un uso spregiudicato ed altrettanto tecnico del corpo, della psiche e di tutto il “benessere” materiale (quando esista davvero) che ci circonda. Così non esiste più una linea di demarcazione netta e consapevole fra il nostro corpo e tutti gli “accessori” che dal telefonino al computer, dal microonde all’automobile, dallo stesso cibo “artificioso” fino al farmaco, in una unica e diffusa osmosi, estendono e confondono i nostri limiti nella pretesa di ampliarne a dismisura facoltà e velocità, ma di fatto svuotandone l’interpretazione essenziale, quella di chi sa riconoscere nella immediatezza, nella fragilità e nella gratuità dell’esserci il segno, misterioso e consolante al contempo, della vita come dono affidabile e affascinante, ma nondimeno esigente in termini di rispetto, attenzione, cura e responsabilità. Si invoca qui, insomma, non un semplice moralismo che doni tranquillità alla coscienza nella semplice attuazione di normative più severe del codice stradale e dell’educazione comportamentale in genere, ma, prima ancora, una riacquisizione spirituale, culturale e antropologica del significato stesso della vita, che includa il mistero della morte non come sua smentita ma come oggettivo contrassegno di un limite che ci ricorda fra l’altro come nessuno di noi possegga la vita, ma l’abbia ricevuta appunto come dono e responsabilità nei riguardi di sé, degli altri e, ovviamente, del Creatore. Le conseguenze pratiche e davvero quotidiane di una simile prospettiva si lasciano facilmente immaginare: prestare attenzione alle modalità con cui ci spostiamo in auto o in moto o con cui ci scambiamo messaggi e risorse sono e diventano anzitutto gesti davvero eucaristici, gesti cioè con cui, in una generale intonazione di ringraziamento per il dono che è la vita, intuiamo e celebriamo il suo smisurato valore e al contempo ne custodiamo la sua autentica consistenza, così fragile e miracolosa. Una simile prospettiva, affidata ad una più integrale educazione e, in modo particolarissimo, alla testimonianza educativa dei credenti in Cristo, credo potrebbe contribuire a trasferire il tipico (e per certi versi anche positivo) gusto dei giovani per la sfida e l’avventura in una direzione autentica e vantaggiosa. Sapendo infatti della morte la loro gara sarà a custodire e a proteggere la vita mentre invece oggi pare il contrario: non sapendo della morte e non sapendo del mistero che è la vita, la sfida è semmai nell’assurda pretesa di trovarne significati inediti, clamorosi ed estremi, ma in realtà apparenti e paradossali, depotenziandone però l’autentico valore e sottovalutandone l’oggettiva fragilità. Non credo infatti basterà mai, anche se ovviamente simili provvedimenti sono importantissimi ed altamente raccomandabili, imporre limiti d’orario e controlli repressivi della velocità e dell’uso di alcool e droghe, se non si riesce a testimoniare e dunque a trasmettere –qui è finalmente peculiare il nostro compito di cristiani- una lettura davvero eucaristica dell’esistenza, che sappia certamente riconoscere la positività della tecnica, ma riposizionando sempre il primato dovuto al nostro cuore che usa e sa servirsi di tutti i saperi in ordine all’interezza della vita, senza mai escluderne quel limite dei limiti che è la morte stessa. Ilaria, uccisa anche dai ritmi forsennati del nostro quotidiano schiavo di tecnologie che impongono tempi veloci e prestazioni efficienti ma sempre più a dismisura dell’umano, e Lorenzo, vittima di persone che avranno assunto alcool e droghe forse proprio per controbilanciare nel nulla il ritmo folle e “tirato” del giorno, mi paiono reclamare molto più che misure repressive e tantomeno logiche vendicative, reclamano semmai quella che è una tipica forma cristiana di cambiamento anche culturale: la nostra conversione.


Bernardo, monaco dell’Abbazia di San Miniato al Monte


Firenze, 8 giugno 2010

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