mercoledì 25 marzo 2020

Siamo ciechi anche noi?

riflessione di fra Paolo Barani
IV DOMENICA QUARESIMA – Anno liturgico A

Codex sinopensis (VI sec.) Bibl. Naz. di Francia, Parigi


Il ciclo liturgico quaresimale ci conduce per tappe attraverso il deserto verso la Terra promessa, la memoria dell’evento pasquale e della nostra rinascita battesimale: «Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore». Così l’apostolo Paolo si rivolge ai cristiani di Efeso (cfr. II lettura: Ef 5, 8-14), così il medesimo annuncio risuona oggi anche per noi: la Parola che ci è donata nella IV Domenica di Quaresima ci raggiunge nuovamente in modo vivo, efficace, penetrante fino a discernere i sentimenti e i pensieri del cuore, è Parola di Dio! E in questo itinerario lungo il deserto simbolico ed esistenziale che stiamo vivendo, giungiamo ad una tappa che funge da oasi e da punto di svolta: una sosta, un ristoro per il nostro cammino ed una nuova luce, che imprime una direzione precisa al nostro errare …
È, questa, la Domenica lætare, che colora di rosa la tonalità scura, cupa della prova-penitenza, che invita a gioire nel Signore con le parole di apertura dell’Antifona d’ingresso: «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione». Parole che suonano paradossali, stonate, quasi uno sberleffo di fronte alla realtà che vediamo e ci portiamo dentro…eppure, se le cogliamo ed accogliamo in tutta la loro profondità e verità, capaci davvero di dare consolazione, sollievo e un indirizzo sicuro cui guardare, da seguire.
È la Domenica del cieco nato, dell’incontro di Gesù con un uomo cieco dalla nascita, che stava seduto a chiedere l’elemosina presso il Tempio di Gerusalemme (cfr. Vangelo: Gv 9, 1-41). È il passaggio dall’acqua viva donata da Gesù alla Samaritana presso il pozzo di Sicar al dono della vista fatto a quest’uomo, mendicante più di luce che di pane, il quale inizia a vedere alla piscina di Siloe; dal buio della vita, del peccato alla luce che rischiara le tenebre del nostro cuore aprendo davanti a noi un orizzonte di speranza: è la tappa della “illuminazione” mediante la fede, nell’incontro della radicale cecità umana con l’inviato del Padre, il Figlio dell’uomo, vera luce del mondo.
Gesù dunque passando, vede un uomo cieco dalla nascita, così come vede noi oggi rinchiusi in un tunnel di cui non vediamo la fine, incapaci di leggere e dare un senso a quanto sta accadendo, alla morsa che attanaglia l’umanità in questa vicenda drammatica della pandemia, che sembra aver costretto la nostra esistenza in un vicolo cieco, incapaci di scorgere uno spiraglio di luce … Ed anche a noi, come ai discepoli, sorge imperiosa – ed impellente – la domanda: «… chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Una giusta, legittima domanda, che riceve dal Maestro una risposta vera, illuminante, che indirizza lo sguardo in una direzione diversa: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Gesù si sottrae alla questione, alla discussione su quale sia la causa del male che opprime quell’uomo – come ogni uomo – e sembra quasi non curarsi del “perché”. Egli invece offre subito un’ottica differente, una chiave di lettura che schiude la mente ad una comprensione “altra”, nuova: la malattia, la sofferenza, la morte è parte dell’esistenza umana, un dato di realtà; e dunque non è da ricercarne la causa scatenante né tanto meno la colpa originante: non è una reazione, una punizione di Dio di fronte al peccato dell’uomo! Gesù spezza il nesso immediato “peccato-infermità” (tanto radicato e presente nella concezione religiosa del suo tempo, come di ogni tempo), affermando piuttosto che il dolore, che segna e accompagna la vita dell’uomo, è il “luogo” in cui si manifesta l’azione divina in termini di misericordia e di salvezza: la prova, la fragilità, la finitudine dell’esistenza umana è quella piccola porzione di terra dove viene a manifestarsi l’opera di Dio, dove il Figlio amato del Padre prende la nostra carne mortale divenendo Figlio dell’uomo e, sanando le nostre ferite, le trasforma in feritoie di luce.
La chiave che ci consegna la parola del Signore è racchiusa in quella espressione rivolta al profeta Samuele, mandato da Dio a consacrare come re d’Israele il giovane Davide, il più piccolo di tutti i suoi fratelli: «… non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (cfr. I lettura: 1 Sam 16, 1.4.6-7.10-13). Ecco la prospettiva vera e illuminante che dissipa le tenebre del cuore: Dio non si ferma all’apparenza delle cose, non guarda quello che vede l’uomo, per Lui “non conta”, è come se non lo vedesse… Non perché non se ne cura o non esiste ai suoi occhi, ma perché Egli vede oltre, dentro, fino in fondo; vede ciò che noi non vediamo, poiché siamo fermi alla superficie e cogliamo quanto ci tocca nell’immediato, facendo tremare la nostra sensibilità. E allora – in tale prospettiva – la tragedia che stiamo vivendo sulla nostra pelle e che pesa enormemente sulle nostre vite fa ancora parte della “apparenza/superficie della realtà”; lì deve ancora manifestarsi la dimensione più profonda del reale, ciò che l’opera di Dio sta per compiere e rivelare: possiamo, vogliamo accogliere una visione, una luce così diversa dal nostro intimo pensare, sentire…?! Siamo consapevoli e disponibili a riconoscere – come quell’uomo del Vangelo – che il cieco «sono io!», e solo grazie all’uomo che si chiama Gesù posso acquistare la vista? Vogliamo, desideriamo ascoltare e mettere in pratica ciò che Lui ci dice, e trovare così la luce? Aprirci alla Sua presenza, alla sua Parola e lasciarci condurre a vedere le cose in profondità, oltre l’apparenza, lieta o triste che sia, ed aprire gli occhi del cuore, confessando: «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo… Credo, Signore!».
In questa medesima direzione troviamo un’ulteriore luce che può illuminare il nostro cammino, passando dalla “apparenza/superficialità” alla realtà/verità profonda: quando noi crediamo di vederci chiaro, di capire bene tutto, di essere sicuri, nel giusto, quando diciamo: «Noi vediamo», è proprio lì che siamo doppiamente ciechi, poiché mentre crediamo di vedere, non vediamo … «il vostro peccato rimane», conclude Gesù rivolto ai farisei!
Ecco il vero, grande peccato, quello più radicato e originario: la cecità spirituale, l’illusoria, falsa pretesa di autosufficienza, che si fonda sulla presunta certezza dei nostri ragionamenti, sentimenti, comportamenti e ci impedisce di vedere invece la nostra, la mia limitatezza, fragilità, fallibilità, iniquità, la radicale cecità dell’esistenza umana. È ciò che papa Francesco chiama mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino amore alla Chiesa, ma in realtà consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale. In quest’ottica né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente, ma piuttosto si analizzano e si classificano gli altri, e si consumano le energie nel controllare, come i farisei con il cieco guarito del Vangelo (cfr. Evangelii gaudium, nn. 93-97). Si tratta di un vero e proprio “virus”, che se invadesse la Chiesa – o la nostra vita – sarebbe più disastroso di qualunque altro male fisico o addirittura morale; esso viene sanato lasciandosi ungere, toccare gli occhi da Gesù e dalla luce del suo Spirito, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa piena e sicura di sé, ma vuota di Dio.
Ritorna l’esortazione rivolta a noi da s. Paolo: «… un tempo eravate tenebra, ora siete luce … camminate perciò come figli della luce … Cercate di capire ciò che è gradito al Signore». Ecco cosa dobbiamo fare nella realtà e nel tempo presente: discernere il bene che Dio desidera per noi e da noi e cercare di compierlo. E in tale compito di discernimento, il primo e fondamentale passo è sempre quello di riconoscere che “io non so vedere”, come quel cieco nato, mendicante di luce, e come Francesco d’Assisi, che davanti al Crocifisso pregava: “O alto e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio …”.
Ciò che Dio gradisce è la sincerità nel nostro intimo ed Egli nel segreto del cuore ci insegna la sapienza. Ciò che impedisce alla Sua grazia di agire in noi non sono perciò i nostri limiti, le fragilità, le cadute varie e ripetute di tipo morale, per quanto gravi che siano…ma la mancanza di un riconoscimento sincero del nostro peccato, che ci impedisce di affidarci pienamente e totalmente a Lui, oltre ogni apparenza.
Dobbiamo come svegliarci da un lungo sonno ed aprirci a Gesù, l’inviato del Padre, la fonte della stessa luce, che ci rende capaci di vedere, di riconoscerlo come Signore, e guardare le cose, le persone, il mondo come Lui li vede.
Dobbiamo essere guariti e illuminati da Lui: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà»!

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