giovedì 24 gennaio 2019

27 gennaio 1945




Fu una mattina gelida, invernale. Aprirono i cancelli e questi cigolarono. L’alito, caldo, si fece affanno. Gli scarponi avanzarono. Gli occhi aperti e le bocche chiuse, ammutolite. Superarono i fili spinati. Tutt’intorno, silenzio e neve. Apparvero i primi internati, come fantasmi. Scheletri vestiti, deformi, curvi. Iniziò, così, l’orrore. Li videro uscire dai dormitori. Non erano uomini, erano quel che restava. Non dissero nulla. Guardarono e basta. Le bestie che avevano urlato, riso, ucciso, torturato, erano scappate. Giusto in tempo. Per questo, non si sentì sparare. I passi aumentarono. Ai numerati se ne aggiunsero altri: donne e bambini, poche, pochi. Qualche bambino sorrise. Alcune donne, senza capelli, iniziarono a piangere e anche qualche vecchio. Mentre gli uomini no. Non credevano che fosse finita. Non credevano che la Morte li avesse lasciati vivi. Entrarono nelle baracche. Qualcuno si tolse l’elmo e iniziò a grattarsi la testa. Il puzzo era umano, ma comunque stomachevole. Ne videro, così, altri, stesi su nudi e umidi tavolacci. Lo sguardo smarrito. Occhi vuoti, corpi intirizziti dal freddo e, ancor di più, dalla paura. Allora, furono portate le prime coperte. Recavano scritte in cirillico. I bambini, più coraggiosi, perché più vivi, mostrarono loro numeri tatuati sulla pelle e tesero ciotole vuote: avevano fame. Passo dopo passo il campo si riempì e andarono dappertutto. Fu così che videro… l’inimmaginabile. I forni crematori, abbandonati, ma ancora fumiganti. L’odore, ad alcuni di loro, provocò il vomito. Poco più in là, le fosse comuni. Corpi nudi, aggrovigliati. Si fermarono. Nessuno disse niente. Guardarono e videro la Morte, il Male. Qualcuno iniziò a fotografare e filmare. Tutto doveva essere documentato, a perpetua memoria. Continuarono a girovagare per i campi dello sterminio, percorrendo i viottoli, entrando nelle baracche, negli alloggi. Tutto appariva irreale, non possibile, non umano, come un incubo. Invece, quando il sole si fece alto, tutto era vero; mostruoso ma umano. Non era un sogno, era la realtà. Era stato l’Inferno sulla Terra. Le bestie avevano reso l’impossibile possibile. Quella mattina non nevicò. Per questo, sembrò primavera. Giunsero, nel frattempo, i primi autocarri. Portarono via i pochi sopravvissuti. Fragili, come foglie secche, vi salirono, uno dopo l’altro. Qualcuno, allora, iniziò ad abbozzare un sorriso, qualche altro a parlare. Le lingue furono tante, ma tutte molto umane. E queste lingue divennero milioni, perché, poi, iniziarono a raccontare quel che fu, quel che non dovrà mai più accadere. E mentre loro partivano, per sempre, altri arrivarono, in quelle stesse ore, chiamati via radio per vedere quel che il mondo non aveva voluto vedere, ma che ora doveva vedere. Qualcuno, si sedette, la testa tra le mani, la vergogna dentro il cuore. Erano giovani. Non avrebbero visto mai più nulla di simile. Molti di loro non fecero ritorno nelle loro case. Mentre, molti altri divennero padri, ma non raccontarono mai ai loro figli quel che videro, quel che piansero, quel che vomitarono. Questo videro i soldati russi ad Auschwitz il 27 gennaio 1945.


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