venerdì 23 marzo 2018

Concorso narrapoetando 2018: vincitori della sezione Narrativa/saggio

Fara Editore grazie ai giurati Angelo Leva, Francesca Ballarini, Massimo Parolini, Stefano Martello della sezione Narrativa/saggio (per la sezione Poesia v. farapoesia) del concorso narrapoetando 2018 è lieta di proclamare vincitori i primi tre classificati del Concorso con pubblicazione premio della loro opera:


Sezione Narrativa/saggio


I classificato

Storie di Nueva Tijuana
di Giovanna Passigato (Medicina, BO)



Nata e cresciuta nella Bassa veronese, Giovanna Passigato è laureata in Giurisprudenza a Bologna dove ha lavorato per lungo tempo all’Università. Ha pubblicato: Rappresentazione per le feste di Natale in una città della Pianura padana con Manni Edizioni; la raccolta di racconti Una lettera dalla nebbia (premio odaro Faranda) con Perdisa Editore; il romanzo Il viaggio del Re morto (premio Todaro Faranda, Fondazione CaRisBo) con Bononia University Press nel 2006; Il paese infinito pubblicato da Bacchilega Editore nel 2006. La presente raccolta di racconti Storie di Nueva Tijuana è stata finalista del premio Calvino 1996.


Il Café Alhambra all’inizio della notte

Qualcuno potrebbe dire che questa città ha un portamento da regina ferita; altri, che è dolce e bugiarda; altri, ancora, che lievita su sette strati, come la città perduta che sorgeva su di un mare lontano, e ogni strato corrisponde ad un desiderio – a un orrore – a una trasmutazione.
Gli strati non sono separati, ognuno incunea le sue radici – o i suoi tentacoli – nell'altro; così altrettanto spessa e aggrovigliata è la coltre che ricopre la sostanza degli uomini, il loro nucleo fiammeggiante, sotto gromme di lava indurita. Non è dato spesso di vedere, per le vie, la nudità delle anime.

Alcuni luoghi sono innocenti – altri meno. Per esempio, nonostante il nome e l'esistenza che vi si conduce, è innocente il Barrio de Sangre, crocicchio di razze, di crimini, di dolori miserabili; perché là tutte le cose sono chiare nella loro definitiva angoscia: la violenza, la sopraffazione, la morte. Ma ognuno dei novantun piani dell’elegante Torre del Vento racchiude un segreto di cui i vetri scintillanti, che non fanno trasparire alcunché, sembrano avere vergogna.
Il sottosuolo è la nostra antica patria, dove è confitta tra le ceneri la città che non esiste più, se non nei ricordi dei vecchi sopravvissuti alla catastrofe. L’antica stirpe si è quasi dissolta; dicono che però qualcuno ancora si aggiri tra gli scavi della metropolitana, timoroso della luce, o si ammassi in buie cantine dove gli inquilini scendono di tanto in tanto portando cibo in cambio di qualche briciola della conoscenza distillata nei secoli che furono. Dicono che si tratta, talora, di creature che non sono iscritte in alcun catalogo riconoscibile.
(…)

Giudizi

Per l’intensità di un racconto conturbante, dal lessico ricco e succoso che avvolge il lettore in una trama fitta di personaggi che pulsano di una storia lucida e profonda; immersi in quel luogo non-luogo che si mostra come una mappa di esistenze sospese e concrete, si arriva a conoscerlo come quasi abitandolo, negli angoli e negli anfratti, nelle ombre e negli specchi, tra lotte agonie e desideri. (Francesca Ballarini)

Storie di vita, di desideri, di pulsioni e sorprese: il Café Alhambra è luogo dove convergono vite che sono storie. Dai Racconti di Canterbury al Decameron al Bar Sport, i luoghi di socializzazione diventano spazi nei quali la narrazione consola e tiene uniti, in relazione, si fa farmaco collettivo che colma il divenire e la solitudine annientanti. Nei racconti di Nueva Tijuana si mescola un lessico ricercato, ricco, barocco, ad un altro più ordinario, di strada, con dialoghi secchi, crudi. Lo stile è nel complesso brillante e di piacevole leggibilità. Pulsioni e desideri sono quasi sempre votati, in queste storie, al fallimento, boccacceschi amori infelici, storie non a lieto fine, in cui il godimento-jouissance lacaniano, svela il termine dei desideri profondi per condurli alla propria ambigua insidiosità distruttiva. (Massimo Parolini)


II classificato

VERA
di William Protti (Santarcangelo, RN)



William Protti, nato il 13 novembre 1965 a San Marino, vive a Santarcangelo di Romagna. Appassionato di fumetti, ha ideato varie strisce e tavole a livello locale; ha disegnato la copertina di Poesie in soffitta e l’illustrazione a corredo del racconto conclusivo de Le Favole dello zio Oliviero (Ed. La Sfera Celeste, Riccione). Sua la traduzione visiva di Filastrocche piccole così (Danilo Montanari Editore, Ravenna). L'impegno in ambito culturale e artistico lo ha portato a collaborare all’impaginazione di alcuni libri, tra cui spicca Terre Splendenti – La Via Crucis di Giulio Liverani (Ed. “Il Ponte”, Rimini). Fra il 2015 e il 2016, con i racconti Un giorno di follia e La minaccia, si è classificato quarto nei concorsi Rapida.mente e Pubblica con noi indetti da Fara Editore. Nel 2017 risulta tra i vincitori del concorso Narrabilando e riceve la pubblicazione premio del romanzo breve Kronin.


Introduzione dell’Autore

I sogni, cosa sono? Non mi sogno certo di poter dare una risposta! Mi affascina però che fin dalle sue origini l’umanità abbia convissuto con questa parte di sé, delimitata da contorni meno netti rispetto a oggi, cercando di interpretarla, di comprenderne i messaggi reconditi: dai nostri più antichi progenitori, i quali sognavano un’abbondante caccia e poi la riportavano sulle pareti delle grotte realizzando vere e proprie opere d’arte (ma l’azione potrebbe essere visualizzata anche nell’ordine inverso), all’epopea di Gilgamesh, ai racconti del Vecchio Testamento… fino a tempi recenti dove si arriva a leggere il mondo onirico anche da un’angolazione scientifica.
Per quanto mi riguarda i sogni sono spesso fonte d’ispirazione: capita, infatti, che nei sogni si formi un’idea, un concetto, o un’immagine che innesca un processo creativo, ed ecco il racconto.
Non questo, curiosamente, ma tanti altri sì e sono racconti che ho steso poi con estrema facilità, quasi in maniera automatica: di certo questo significherà qualcosa.
Stavolta, l’input è arrivato dalla mia collega d’ufficio: c’eravamo messi a discutere di un altro William, ben più celebre e abile nell’arte della scrittura rispetto al sottoscritto, ovvero William Shakespeare e, in particolare, di Romeo e Giulietta.
Da quanto poc’anzi accennato, il racconto potrebbe dunque identificarsi con una storia d’amore, seppure fuori dai canoni, e scoprirete perché.
Ma chi è Vera? Il titolo, di per sé, vuol costituire un indizio; aggiungo che, solo nelle battute finali, ho intuito come risolvere la vicenda e, solo dopo la parola fine – com’è mia abitudine – mi sono preoccupato di andare a leggere l’etimologia di quel nome, scoprendo che calzava a pennello anche per motivi diversi da quelli da me pensati.
A seguire, per restare in tema, un breve racconto; un individuo qualunque, trovandosi fra le mani la più incredibile delle invenzioni, decide di realizzare il sogno dell’umanità: vivere in un mondo perfetto nel quale tutto fila finalmente per il verso giusto; ma quanto potrà mai essere destinato a durare?
In conclusione, “I sogni son desideri” ripeteva la celebre canzone del film d’animazione della Disney, Cenerentola; attenti però ai propri sogni e ai propri desideri, non si sa mai cosa potrebbe celarsi dietro l’angolo…
E, con questa frase sibillina, non mi resta che augurare a tutti: “Buonanotte e sogni d’oro!”


Giudizi

Il racconto è scritto con uno stile narrativo incalzante secondo una costruzione del periodo paratattica che permette una lettura agile. La tematica appartiene ad un contenuto classico della tradizione letteraria distopica, ricordando, nello slittamento continuo del rapporto tra le dimensioni reale ed onirica, i racconti e i romanzi di Philip K. Dick, le cui trame si muovono nell’ambiguo gioco tra simulazione e dissimulazione della realtà. (Massimo Parolini)

Ho sempre amato i sogni. Anche se non li capisco. Soprattutto se non li capisco. Mi danno la sensazione di un qualcosa di ingovernabile. Che tutto non dipenda e nn possa dipendere da me. Mi tranquillizzano circa la mia natura di essere imperfetto. (Stefano Martello)


III classificati ex aequo

Lontani dalla Luna: il racconto di Aman
di Aman Ahmadzai (Rimini)
a cura di Luca Finocchiaro



Amanullah Ahmadzai (chiamato da tutti Aman), nato in Afghanistan il 15/10/1999. Fuggito dall’Afghanistan a causa della guerra dei Talebani, entrato nella nostra comunità a Settembre del 2016. Appartenente al progetto SPRAR del Comune di Rimini (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Iscritto al corso di formazione professionale della Fondazione En.A.I.P Zavatta per Operatore impianti elettrici.
Luca Finocchiaro, nato a Tricarico in Basilicata, il 18/11/1980. Pedagogista e formatore, educatore presso la comunità “Casa Borgatti”.


Mi chiamo Aman e sono un Afgano Pashtun. Quello che state per leggere è un resoconto fedele del mio viaggio compiuto dal cuore dell’Afghanistan a quello dell’Italia. È un viaggio tra due cuori. Nella mia casa ho lasciato la mia famiglia, il mio cuore fisico e spirituale, in Italia ho incontrato la comunità, il mio cuore adottivo di giovane uomo. Perché, che ci crediate o no, un lungo cammino è come un pellegrinaggio, lasciando indietro gli affetti, si costringe il proprio cuore a viaggiare per cercarne di nuovi, magari più grandi. Ho affidato i miei ricordi ad un educatore della comunità, abbiamo trascorso ore intense a parlare del viaggio. Seguendo un filo strettamente cronologico ho riscoperto, man mano, fatti e particolari che io stesso avevo dimenticato. Le mie parole, attraverso l’educatore, sono diventate scrittura, testo e adesso la vostra lettura. Ogni volta che posso, racconto. È un bisogno che arriva all’improvviso, potrei parlare per ore e ore. È come se una parte di me fosse ancora in viaggio. Ma adesso ripercorrete il viaggio con me, ponete con attenzione i vostri piedi all’interno delle mie orme, indossate scarpe solide e comode perché il viaggio sarà lungo e complesso. Buon viaggio.
La mia famiglia da sempre è in lotta con i Talebani. I fratelli di mia madre sono poliziotti con ruoli di comando, uomini forti e coraggiosi, impegnati nel compito di contrastare le violenze che affliggono il mio paese da anni. Come tanti ragazzi della mia città, anche io ero desiderato dai Talebani, volevano convertirmi alla loro causa e farmi diventare uno di loro. I tentativi della mia famiglia di proteggermi, rifiutando la richiesta del Talebani, hanno avuto un prezzo molto alto: le percosse ricevute da mio padre che lo hanno costretto a letto per settimane, gli assalti armati alle mura della mia casa, le minacce di morte alla mia famiglia e la paura quotidiana di essere in pericolo.
Quando le minacce sono diventa promesse, e il momento del mio prelevamento forzato era alle porte, ho deciso di scappare. I Talebani volevano me e mio fratello. È stata una scelta dolorosa e rischiosa. Sono partito con mio fratello, lasciando tutto, alla ricerca di quella che ritenevo essere la felicità: l’assenza della morte davanti all’uscio di casa.
Riuscimmo a scappare perché mio padre convinse i Talebani a fornirgli del tempo, per parlare con noi e convincerci ad andare con loro. Ricordo perfettamente le lacrime di mia madre, è l’ultima immagine che ho di lei. Il primo passo è stato recarmi da casa mia a quella di mio zio materno. Qui sono stato al riparo per 10 giorni. Con mio fratello facemmo il viaggio in taxi, percorrendo per un’ora strade sconnesse e polverose, mentre mia madre avvisava e preparava mio zio del nostro arrivo e della protezione di cui avevamo bisogno. Sono rimasto al sicuro all’interno di questa grande famiglia. Per i primi 5 giorni non ho incontrato mio zio. Tutta questa famiglia ha rischiato la vita per aiutarmi, i Talebani non avrebbero esitato un attimo a ucciderli tutti, se ritenuti complici della mia fuga. La vita e la morte non si separano mai in Afghanistan. Dopo 10 giorni mi hanno fatto salire su un taxi, accertandosi che l’autista mi accompagnasse fino a Kabul. È stato il primo viaggio con la paura, che nel tempo sarebbe diventata la mia fedele compagna. Temevo di essere raggiunto e prelevato dai Talebani, o peggio ancora riconosciuto dai miei vecchi amici, ora diventati Talebani. Nessuno può capire come i Talebani sanno cambiare la testa di un giovane ragazzo, ti rieducano, ti istruiscono, ti vestono e di quello che eri prima non rimane più niente. Alcuni dicono che diano delle medicine ai ragazzi per convincerli prima. Ragazzi con cui giocavo per strada e con cui ho condiviso avventure, improvvisamente diventano ricercatori di “peccati”. Tutto quello che prima era lecito, bello, piacevole e moderno, diventa peccato, da punire con la frusta, la lama e il proiettile.
(…)


Giudizio

È un bel racconto avvincente con un incipit tra i migliori dei candidati. Si vede che non è solo un racconto di viaggio ma lo scrittore ci ha messo il cuore e ha lanciato dei messaggi che riescono a toccare le persone. Forse quello che resta è molto più di quello che viene scritto ma questo si saprà nelle ore successive alla fine della lettura. (Angelo Leva)


Etica e politica
di Giuseppe Moscati (Perugia) 
con la collaborazione di Paolo Protopapa



Giuseppe Moscati, dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane, collabora con il Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università di Perugia. Presidente della Fondazione Centro studi Aldo Capitini di Perugia e vice-presidente dell’Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini, è responsabile della Biblioteca Neoumanistica della Fondazione Cucinelli di Solomeo (PG). Redattore del quindicinale culturale Rocca, scrive per varie testate giornalistiche e riviste ed è autore di numerosi saggi e volumi, dedicati prevalentemente a questioni di etica.


Premessa

Con le riflessioni svolte in queste pagine abbiamo tentato, tra il serio e il faceto, e però con una consapevole sensibilità civica, di intessere un dialogo tra Etica e Politica. Alla prima ha dato voce Giuseppe Moscati e alla seconda Paolo Protopapa, rispettivamente alunno e professore a partire dagli antichi anni liceali. Le dialoganti si presentano nella veste metaforica di due personaggi che, entro gli ovvi e avvertiti limiti della loro fragile contemporaneità comunicativa, risentono tuttavia delle suggestioni della trattazione classica di queste tematiche.
Proprio i classici infatti – dal sommo Platone ai filosofi rinascimentali e illuministi – seppero vedere con occhio acuto e mente limpida la complessità e problematicità di un confronto esiziale sia per l’assetto pubblico di una società (Politica), sia per la pluralità e delicatezza delle relazioni intersoggettive, private e pubbliche (Etica).
Può darsi che un tale approccio non sia esente dal vizio, antico e incorreggibile, dello storicismo; che cioè il passato ed i suoi interpreti straordinari e prepotenti influenzino eccessivamente un mondo come il nostro tanto inedito quanto arduamente decifrabile. Di sicuro – ne siamo convinti – l’oggi e le prospettive prossime venture necessitano di strumenti ermeneutici e di categorie analitiche di conio affatto innovativo ed impregiudicato, pertanto il richiamo alle consolidate dottrine canoniche della politica e dell’etica non esimono nessuno dal dover ripensare il nostro mondo ab imis fundamentis. Abbiamo, proprio per tale persuasione, ideato una dialettica tra posizioni e punti di vista flessibili e – per quanto ci è stato possibile – aperti e suscettibili di integrazione, modificazione e arricchimento conoscitivo.
La nostra è in fondo una conversazione che, pur non esente da una modesta condizione professionale di ‘addetti ai lavori’, rimane pur sempre un divertissement intellettuale che, con una qualche leggerezza di eloquio, non disdegna l’ambizione (acutamente percepita) di allargare l’orizzonte dell’inclusione, la fecondità dei contributi, delle critiche e delle osservazioni che auspicabilmente ci potrebbero pervenire e che saremmo ben contenti di accogliere.
Non è molto, ma sarebbe comunque un utile e – di questi tempi – prezioso passo in avanti per togliere etica e politica dall’esilio spocchioso dei conversari dotti e di irresponsabile e diffusa indifferenza, per trasformarlo, invece, nel costume quotidiano della normale abitudine democratica al confronto. (G.M. e P.P.)

Giudizio

Abbiamo bisogno del genere saggistico. Ora. Senza troppi indugi. Per ristabilire una verità con dati e argomentazioni e per smontarla con lo stesso modus operandi.  Scritto con chiarezza esemplare e ben calibrato su un pubblico generalista. (Stefano Martello)


Altre opere votate

A casa dove di Subhaga Gaetano Failla (Follonica, 
GR)


Subhaga Gaetano Failla (Scalea, CS, 1955), insegnante, laureato in Sociologia a Urbino, vive a Follonica (GR). Ha fatto parte di gruppi teatrali. Ha pubblicato saggistica sociologica e letteraria, poesia e soprattutto narrativa breve. Tra le raccolte di racconti: La signora Irma e le nuvole (Fara 2007). Poesie in lingua inglese, tradotte in francese e tedesco in: Zen poems (MQP 2002) e Haiku for lovers (MQP 2003). Ultime pubblicazioni, tra il 2016 e il 2017: in inglese, nel volume collettivo (a cura di M. Bazzano e J. Webb) Therapy and the Counter-tradition. The Edge of Philosophy (Routledge) e nella rivista Self & Society; ne Il magazzino dei mondi 3 (Delos Books) e nella rivista WMI Speciale SF; con Fara Editore, ne La mia sfida al male, Preghiera (e…, Il coraggio del bene, Perdono: dal rancore al ricordo.

L’odore del fango


Si calò all’esterno della sfera, ingoiando grandi
boccate d’aria, scivolò nel fango, ne benedisse
l’odore. (C. S. Lewis, Lontano dal pianeta silenzioso)

Questa storia si svolge circa sessant’anni fa,  alla fine di giugno, quando l’estate sfolgora nel suo primo splendore, e la luce, giunta all’apice, comincia a scemare. È una storia meravigliosa; talvolta le narrazioni meravigliose scoprono una vena di profonda tristezza, a causa forse del ricordo di qualcosa che abbiamo perduto.

‘Sono tornato’ pensò Efrem.
Aprì gli occhi sul cielo stellato, sgusciò dal sacco a pelo disteso sulla spiaggia e urinò guardando il mare calmo, oscuro. Avvicinò la fiamma dell’accendino all’orologio da polso: le quattro. Rabbrividì un poco nel corpo seminudo e s’infilò di nuovo all’interno del sacco a pelo. Si addormentò subito.
L’aurora ridestò infine Efrem. La luce si spandeva dalle colline verso il mare. Era una buona giornata d’inizio estate. L’uomo sistemò lo zaino sulle spalle e si avviò verso la strada. Raccolse dal bordo della via un ciuffo di finocchio selvatico, profumatissimo, d’un verde lieve, e lo mangiò; la pianta rinfrescò la sua gola asciutta. Efrem si voltò un’ultima volta a guardare il mare, dove alcuni pescatori spingevano le loro barche in acqua, camminò per mezz’ora, e fu nel piccolo paese. 
Alle sette molti dei suoi abitanti erano già svegli. Le finestre venivano spalancate all’aria nuova. Voci lente provenivano dalle case, ed Efrem sentì allegria assaporando l’atmosfera familiare del risveglio e, d’un tratto, l’odore di latte bruciato straboccato da un bollitore sul fornello.
Un carabiniere sulla sua grossa bicicletta grigia osservò con professionale curiosità il viandante. Efrem lo riconobbe, sollevò la mano aperta in segno di saluto, ma senza ottenerne alcuna risposta. Il carabiniere non aveva certamente riconosciuto, sul viso d’un uomo di trentacinque anni, i lineamenti del ragazzo che aveva lasciato il paese tanti anni prima.
Era tornato, senza avvertire nessuno. Sarebbe stata una grande sorpresa per i suoi anziani genitori e per gli amici rimasti nel paese. Egli vide la strada e la casa. Attraversò il cortile con il passo attento di chi cammina sopra un territorio sacro. Sentì il profumo d’una pianta di basilico posta in un vaso sopra un davanzale. Salì le scale senza far rumore, soltanto il suo cuore faceva un gran frastuono nel petto. Bussò, e fu contento di toccare per tre volte, con le nocche della mano, il vecchio legno della porta verde.
Venne ad aprire la madre.
“Ciao mamma!” disse Efrem.
“Cosa?” rispose la vecchia donna guardandolo e, per un attimo, guardandosi attorno.
“Ciao mamma!” ripeté egli con una nuova nota implorante nella voce, poiché desiderava sciogliere l’emozione in un abbraccio.
“Cosa volete?”   
“Mamma, sono io, non mi riconosci più?”
“Andate via” disse la madre e fece per chiudere la porta.
“Mamma sono io, Efrem!” urlò egli, spingendosi verso l’uscio di casa.
La donna rimase con la mano ferma sulla porta, in un’ultima fessura lasciata aperta, da cui spuntava il suo viso spaventato. All’urlo di Efrem, accorse il marito della donna.
“Chi cercate?” chiese l’uomo, aprendo con cautela la porta.
“Ciao papà…”
L’uomo fece un sorriso amaro, voltando il capo, poi guardò l’estraneo dritto negli occhi. (…)


Giudizio
Futuro distopico incrociato che si sfila mano a mano in una ricca trama a sorpresa che tiene legato sempre più il lettore, innalzando lo stendardo del potere invincibile dei sentimenti umani, che nessun progresso reale tecnologico o fantascientifico può domare. (Francesca Ballarini)



Tra neorealismo e meridionalismo di Paolo Saggese (Torella dei Lombardi, AV)


Paolo Saggese (Torella dei Lombardi, AV, 1967), docente di Lingua e cultura greca e latina nei Licei, Dottore di ricerca in Filologia greca e latina presso l’Università di Firenze, fondatore e direttore del Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud, componente del Comitato scientifico del Centro di ricerca Guido Dorso di Avellino, Responsabile culturale del Parco Letterario Francesco De Sanctis, è autore o curatore di più di 50 volumi sulla Letteratura latina e italiana, sulla storia del ‘900, sul pensiero meridionalista, e di due fortunati romanzi brevi sulla corruzione: Lettera a un Giudice e Il processo (Magenes, Milano).


Premessa

Il merito di quel gruppo, eterogeneo nella sua composizione e altissimo nella sua ispirazione, cui si è dato il nome di “meridionalisti”, è stato quello di aver impostato su piano nazionale, come problema nazionale, la “questione meridionale”, di aver dimostrato che, se tale questione non si risolve, tutta la vita della Nazione ne resta indebolita e minacciata, e una vera, civile e moderna democrazia non può nascere in Italia.
[Manlio Rossi-Doria, Struttura e problemi dell’agricoltura meridionale (1944), in Id., Riforma agraria e azione meridionalista, Edizioni agricole, Bologna, 1956, p. 29]

La questione meridionale non è una “invenzione”, come si è affermato anni fa con leggerezza. Non per caso è ancora oggi irrisolta.
[Francesco Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza, Bari-Roma, 2013, p. 56]

Il “filo rosso”, che lega questi saggi, è sicuramente il Sud e la sua storia recente, il torno di anni, che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla conclusione della cosiddetta Prima Repubblica.
Il primo è uno studio dedicato ad un Leonardo Sciascia meno noto, per certi versi inedito, il poeta e il favolista: si tratta di un vero e proprio commento letterario ed estetico all’unica plaquette del grande scrittore siciliano, edita la prima volta nel lontano 1952, La Sicilia, il suo cuore.
Il secondo è un lavoro abbastanza sistematico dedicato al rapporto umano e ideale di due tra i meridionalisti più importanti del Novecento, Guido Dorso e Manlio Rossi-Doria, legati da una comune tensione ideale e da una solida amicizia, che si protrae oltre la morte.
L’abbinamento dei due studi non risulterà peregrino, perché nasce dalla profonda convinzione che il pensiero meridionalista e la Letteratura meridionale siano parte di un unico fenomeno culturale, di un’unica e irripetibile stagione intellettuale tesa a cogliere le contraddizioni italiane e a formulare ipotesi e proposte economiche, politiche, sociali, culturali, ideali per dare risposte all’incompiuta “rivoluzione italiana”, che è stato il nostro Risorgimento.
A questo legame profondo tra pensiero meridionalista e letteratura ho dedicato un voluminoso libro, edito nel 2015 significativamente dal Parco Letterario Francesco De Sanctis: Rocco e i suoi “fratelli”. Pensiero meridionalista e poesia in Lucania, Irpinia, Cilento (Scotellaro, Parrella, Trufelli - Stiso, La Penna, Piscopo, Iuliano - Liuccio).
La tesi di fondo è che non si può comprendere la Letteratura meridionale senza il contesto storico-sociale-culturale di riferimento e senza la tensione politica e ideale nata da quel determinato contesto.
Questa letteratura impegnata, che, attraverso il magistero di Francesco De Sanctis, di Pasquale Villari, di Giustino Fortunato, e poi di Antonio Gramsci, di Guido Dorso, di Piero Gobetti, ha maturato un proprio progetto ideale prima che letterario, o meglio letterario e ideale insieme, non può essere studiata a sé, senza la “questione italiana” in filigrana e la “questione meridionale”, che sono la stessa cosa.
Questa letteratura ci aiuta a stare lontani tanto dagli estremismi razzisti di certa “politica” della Seconda Repubblica quanto da revisionismi sterili e storicamente infondati, che nell’ultimo decennio hanno dato fiato a forme folkloristiche definite “sudiste” o “neoborboniche”.
D’altra parte, non esiste un solo Sud, come non esiste un solo Nord o un solo Centro. Nella complessità della penisola italiana si inseriscono forme diverse di “questioni” regionali, che hanno, comunque, un unico filo conduttore e producono, attraverso una sorta di eterogenesi dei fini, la “questione italiana”. Anche i saggi, che seguono, ne sono una prova e una dimostrazione: la Sicilia degli anni ’50, in cui la mafia non è ancora pienamente riconosciuta dallo Stato centrale come un nemico da sconfiggere, e che ciclicamente è stata utilizzata, nel primo secolo unitario, come strumento di una “parte” dello Stato contro un’altra “parte” dello Stato, non è l’Irpinia, una terra marginale dell’Appennino campano in genere immune da fenomeni di criminalità organizzata, ma soggetta a forme deprimenti di clientelismo, di familismo, di oppressione da parte di una poco capace classe dirigente.
Anche il rapporto con il potere è diverso. Mentre in Sicilia l’impossibilità a parlare induce il giovane Sciascia ad una forma di ermetismo montaliano, di “correlativo simbolico”, di rappresentazione della realtà in una chiave metaforica, in Irpinia il pensiero di Dorso e Rossi-Doria ha la possibilità di esprimersi in modo chiaro, esplicito, stringente. Nelle opere successive, tuttavia, Sciascia maturerà posizioni diverse e sarà un esempio straordinario di impegno contro ogni forma di criminalità organizzata fuori e dentro i partiti, fuori e dentro lo Stato.
Un altro elemento comune di questi saggi è la pratica della letteratura e della ricerca come testimonianza di una “diversità”, di un atto, che assume i tratti titanici ed “eroici”, che molti intellettuali meridionali hanno avuto nei confronti innanzitutto della stessa società in cui hanno vissuto. L’immagine di Dorso “Cassandra inascoltata”, “esiliato” in patria, ridotto al silenzio, perché non ha con chi parlare, non è molto diversa da quella di Leonardo Sciascia, di questo “Candido” alla scoperta di una Sicilia ineffabile e dolorosa. Questo è il destino comune a molti intellettuali impegnati del Sud.
Ed è questo il significato ultimo dell’intero volumetto: il destino di lotta e di sconfitta, di isolamento e di ostilità, non implica il fatalismo, la sconfitta, la rassegnazione. Perciò, l’esempio di Sciascia, Dorso e Rossi-Doria è ancora oggi valido per tutti i meridionali meridionalisti e per tutti coloro che aspirano ad un Mezzogiorno nuovo, ad un’Italia rinnovata. (…)


Giudizio
Continuiamo a proporre alternative per il futuro, morali diverse e sostanziali. E mentre lo facciamo dimentichiamo il nostro passato e ciò che semplicemente può ancora offrirci. Complesso e ben strutturato, denso e difficile come l’argomento che tratta. (Stefano Martello)



Racconti di Provincia e altre storie di Vincenzo D’Alessio (Montoro, AV)


Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Queste ultime raccolte sono riproposte in appendice a Immagine convessa. (Fara 2017), opera finalista al concorso Versi con-giurati.


Il lupo mannaro

“Le notti di luna piena non girate per le selve, non cantate serenate, nello stagno il rospo tace e la gente non lavora, l’urlo sale dalle case: il lupo ha fame, il lupo mannace.”
Con questa filastrocca i contadini allontanavano la paura del lupo mannaro. Così scriveva il nostro anonimo cronista del Settecento. Magia e civiltà camminavano insieme in quei tempi passati. Si ricorda che un un certo Uguccio de Saveriano avesse gran conto presso la gente del posto e nel contempo una bella moglie a cui non piaceva dormire sola. Uguccio stava spesso lontano da casa con gli amici cacciatori per far la pelle al lupo mannaro. Così, tutte le volte che la luna piena ritornava, si armavano d’archibugi e uscivano con cavalli e torce alla ricerca del malnato. Era una causa santa, un giusto impegno benedetto dalla madre Chiesa per «ques’immonda e sozza bestia che violentava pulzelle maritate e non disdegnava di montar bestie».
Uguccio chiudeva la propria casa e affidava la chiave al capo delle sue guardie, Giorgio Bracciovento, uomo d’armi, mercenario di Provenza.
La gente del contado non capiva perché, proprio mentre Uguccio de Saveriano, con cani, cavalli e cavalieri s’allontanava per la ricerca del lupo, gli ululati si avvertivano proprio nel paese tanto da costringere la gente a tener chiuse porte e finestre, usci sbarrati e cortili chiusi, e cani ad ululare alla lune insieme al lupo.
Un tale Nicola de Jommero, di mestiere boscaiolo, volle vederci più chiaro. Infatti, al ritorno della luna nuova, si nascose dentro la campana della chiesa del Natale poi, a notte fonda, discese camminando per strada nascondesi ogni poco. Arrivò lentamente dove era il casale di Uguccio, che in quell’anno era sindaco del contado e, appena poté, si inorcò nella stalla e qui attese. Le urla del lupo mannaro intanto si susseguivano per strada e il povero Nicola de Jommero trattenne a stento «de farsi piscio addosso». Ma fattosi coraggio uscì dalla stalla e, salendo lungo una serie di pali, si portò sul tetto a veder cosa accadesse in strada. La vide, finalmente, sotto la luce limpida e giollognola della luna , la gran bestia nera, irsuta e fiera, che correva ululando come un dannato da far venire i capelli bianchi a un uomo sano.
Ma, cosa strana, anziché camminare su quattro zampe, correva su due.
“Bah” pensò Nicola “sarà che è troppo  arrabbiato perciò corre così.”
Fatti ancora pochi passi, entrò dal portone nel cortile di casa de Saveriano e lo rinchiuse alle sue spalle.
“Strano questo lupo” pensò Nicola.
Intanto il lupo mannaro salì rapidamente le scale che portavno alla camera del sindaco Uguccio e di lì a poco né uscì il capitano Giorgio Bracciovento. Questi raggiunse la stanza della signora, moglie di Uguccio, e ivi i due giacettero per lunghe ore, mentre Nicola, poveretto, un po’ per lo spavento, parte per il lungo stare sui tetti, s’era veramente «fatto addosso».
Chiarito il dilemma, il bravo Nicola ridiscese e raggiunse la cantina dover raccontò l’accaduto agli altri amiconi che da quella sera non smisero di ridere alle spalle del ricco Uguccio.
Gira e rigira, le voci delle pettegole giunsero all’orecchio di Uguccio de Saveriano che, con gli amici, ripeté la stessa scena delle altre notti di caccia. Questa volta, però, rimase fuori dal contado in attesa degli ululati. Appena si avvertirono i primi, i cavalieri spronarono i cavalli verso il contado, così i cani, e tutti diedero addosso al “lupo mannaro”.
Questi si ritrovò subito a far le scale per recuperare la stanza da letto della signora. Uguccio li sorprese e furono guai per il mercenario. Dovette trovare mercé altrove. Ma il lupo mannaro, proimise, non l’avrebbe fatto da nessun’altra parte.

(dicembre 1990)

Giudizio
I racconti sono storie brevi gustose che danno il piacere della lettura per la storia stessa e anche per quella certa impressione di essere davanti a fatti veri, tanto sono credibili le sequenze e tanto è appropriato il linguaggio. Il linguaggio è curato e questo è molto apprezzabile per chi legge. C’è poi un'atmosfera da scoperta di carte antiche che ci riporta una vita particolare di personaggi che tiene sempre alta la curiosità. (Angelo Leva)


Sette passaporti di Giuseppe Caridi (Gallipoli/Parma)


“Sono un bancario originario di Gallipoli ma residente a Parma – dove ho studiato – per motivi di lavoro. Sono appassionato di trekking, immersioni e in generale di viaggi, oltre che di cinema, di letteratura, di sport e di fotografia. Sono stato arbitro di calcio e Istruttore di Diritto internazionale Umanitario della Croce Rossa Italiana. Dopo aver vissuto svariate esperienze mi è venuta l'ispirazione per scrivere, soprattutto ovviamente a partire dai miei viaggi... Le mie foto sono state pubblicate su riviste on line e cartacee italiane e straniere e lo scorso 2 dicembre ho vinto un Concorso Letterario (III Premio): la X Edizione del Premio Patrizia Brunetti, con un mio racconto intitolato “Afghanistan”, che fa parte dello scritto che ho inviato per Narrapoetando 2018. È stato molto gratificante perché in sede di premiazione mi è stato richiesto di descrivere più in dettaglio la mia esperienza nel paese. Ho in programma la stesura di un libro fotografico e didascalico relativo alla città di Kyoto e una guida turistica della città di Leopoli (L'viv).


Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza (Dante Alighieri, poeta e politico italiano)

Ecco qui. Un altro libro… oggi pare sia diventato una moda scrivere libri, ché infatti sono in molti a cimentarsi in questo difficile progetto. Ma in fondo è cosa buona a parer mio, perché in un mondo in cui, a quanto pare, la moltitudine delle persone non ha più tempo da dedicare a letture e attività culturali e soprattutto tende a uniformarsi a messaggi generali provenienti da media e internet, il fatto che ci sia ancora qualcuno che abbia ancora voglia di condividere le proprie opinioni è indice di quel fervore che da sempre ha accompagnato l'uomo nella sua esistenza e che fortunatamente non è ancora scomparso.
Scrivere un libro non vuol dire automaticamente essere scrittori: questa è un'abilità e un'attitudine che nasce con l'individuo e che può essere affinata e migliorata nel tempo ma non si può creare ex novo con la pratica e l'abnegazione. Lev Tolstoj e Victor Hugo hanno ricevuto in dono l'attitudine a tenere incollati alle pagine i lettori come è stata loro assegnata da madre natura l'altezza, i caratteri somatici, il colore degli occhi. L'esperienza, i consigli, la volontà hanno certo avuto il loro peso se oggi possiamo provare forti emozioni mentre leggiamo il dialogo tra Vronskij e Serpuchovskij o davanti all'eroico sacrificio di Enjolras. Ma quei due signori sono nati col dono di saper scrivere e la faccenda si conclude qui. Virginia Woolf è stata ancor più categorica del sottoscritto: si tramanda che la scrittrice inglese abbia confidato al suo diario che dopo Dante e Shakespeare il tentativo di scrivere da parte di chicchessia sia totalmente superfluo....
Però appunto anche chi scrittore non è può avvertire l'impulso, la voglia, l'esigenza di comunicare agli altri ciò che sente dentro, perché lo ritiene significativo, stimolante, in qualche modo utile. Così, senza pretese di fama o ricchezza capita che un bel giorno uno comincia a pensare, tra sé e sé: “E se anch'io mi mettessi a raccontare di…?”
È questa la genesi di SETTE PASSAPORTI, il cui titolo ho scelto proprio perché a furia di girare il mondo sto per completare il settimo dei passaporti che via via negli anni mi sono stati rilasciati. Nei sei precedenti non vi è più neanche una sola facciata libera da timbri e visti; mi auguro lo stesso destino per quello attuale- che però prevedo possa durare ancora qualche anno.
Le pagine che state per leggere non sono una guida turistica. Non ho la competenza per scriverla né, soprattutto, è stata mia intenzione redigerne una. Questo libro nasce dalla semplice voglia di raccontare i miei viaggi, così come li ho vissuti, le esperienze e gli incontri che mi hanno donato, i ricordi che porterò sempre con me, i problemi affrontati nel pianificarli e fronteggiati poi una volta arrivato nel paese, le sensazioni avvertite, le emozioni e le suggestioni assaporate. (…)

Giudizio
Sono andato a vedere su Google se esiste veramente Tinian ed esiste. Ma tu come fai a conoscere così bene quest'isola lontana? Un po’ lenta l'introduzione ma poi il racconto è bello. Lo scrittore vuole che i suoi lettori si adeguino ai suoi ritmi e lo facciamo volentieri, per la bellezza che ci trasmette, ma lo capiamo non subito. Il racconto si intreccia con le continue
riflessioni sull'uomo e questo aggiunge valore all'abilità. (Angelo Leva)


La regina del sale e altre storie di Francesco Randazzo (Ronciglione, VT)


Francesco Randazzo, laureato in Regia all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma nel 1991. È attivo in Italia e all'estero come regista e autore per importanti teatri e festival. È stato fondatore e direttore artistico della Compagnia degli Ostinati-Officina Teatro. Ha pubblicato numerosi testi teatrali, raccolte di poesie, racconti, un romanzo, ottenendo importanti riconoscimenti. Molti suoi testi teatrali sono tradotti e rappresentati in inglese, francese, spagnolo, ceco, sloveno. Si dedica parallelamente all'attività didattica, con stage, conferenze, corsi di recitazione, drammaturgia e storia dello spettacolo.

La scala

Era bello da piccoli il mondo. Tutto appariva nuovo e le scoperte erano grandi, grandi le cose, giganti gli adulti, il mondo un universo sterminato. Anche in un piccolo spazio, anche in una sola stanza, c’era racchiusa la magia reale e fantastica insieme di un meraviglioso cosmo che solo i nostri occhi bambini riuscivano a vedere. E ci pareva strano che i grandi mai se ne accorgessero, se non quando li mettevamo a parte, con l’orgoglio e l’entusiasmo di esploratori avventurosi, delle nostre scoperte; sorridevano allora i nostri viventi numi tutelari e si compiacevano della nostra vivacità, delle nostre piccole prodezze, assentivano semiseri, ammiccando l’un l’altro, con negli occhi l’espressione divertita, come a dire: “Com’é intelligente nostro figlio...”, ma subito dopo tornavano alle loro incomprensibili occupazioni, privi del nostro sguardo, quello sguardo che anche loro avevano avuto e che ora avevano smesso, come un senso in disuso. E noi via! Verso un altro piccolo mondo da scoprire, celato magari dietro l’anta di un vecchio armadio o al di là di una porta dalla maniglia altissima che era già una conquista da scalatori di vette riuscire ad aprirla. Dietro ogni cosa ce n’era un’altra, e dentro anche, ed oltre ancora, senza nessun limite se non quello che la voce di mamma ad una cert’ora sempre imponeva, l’ora di smettere perché s’andava a letto.

Ad Irene non piaceva riposare, era tempo sprecato dormire, mentre il sole del pomeriggio lustrava l’aria di giallo e il verde di verde e il vento accarezzava i colori sussurrando sotto il canto malizioso della cicala che chiama, chiama e non si sa dov’é nascosta. Il giardino, quel giardino della vecchia casa di campagna dove ogni estate s’andava a villeggiare, dalla nonna, quella donna straordinaria che quando apriva bocca incantava tutti perché apriva il libro delle storie di un’intera vita, d’innumerevoli altre vite trascorse e fino ad allora sconosciute, storie che Irene faceva sue e i personaggi delle quali divenivano compagni e protagonisti delle sue fantasiose avventure di bambina, in quel giardino dove prima, molto prima che la Fata dei Bimbi l’avesse lasciata lì anche lei, sotto il fiore rosso d’ibisco, in regalo a mamma e papà, che si erano sposati proprio perché avrebbero gradito quel dono; quel giardino era stato la prima culla della piccola Irene,  era il suo piccolo universo di fantasia, il luogo magico della scoperta e dell’invenzione.
No, no, no e no! Era proprio una sciocchezza dormire al pomeriggio con tutto quel vivissimo mondo là ad un passo, sotto la finestra, oltre lo scuro chiuso della stanza. E perché poi, non era affatto stanca lei, riposarsi di che? Uffa.
E smanie e bizze e piagnucolii, e rimbrotti e blandizie della mamma, infine il duro decisivo apparire sulla soglia del gigante papà, immune a quell’ora a qualunque furberia d’infantile seduzione che intimava sereno e severo il dovere di quell’inutile riposo.
E smanie e rivoltamenti da un lato e dall’altro del lettino, e lenzuola per aria, distese, attorcinate, tutte a coprire e poi a scoprire, e il cuscino sotto e sopra la testa, sul letto e per terra, e il respiro forzato e la noia la noia la noia e il pensiero, unico persistente ossessivo, di là, oltre, in giardino.
Quel giorno poi che aveva scoperto quella cosa. E non pensava ad altro che a quella, Irene irrequieta e vinta, quella cosa scoperta per caso accanto al muro di cinta, sotto l’edera fitta e i cespugli aggrovigliati, quell’oggetto lungo e scuro di ruggine che prometteva sogni d’altri universi, un valico prodigioso verso... Una scala!
E finalmente, il sonno, vittorioso vince la piccola che sogna, passando nello spazio della mente, d’essere proprio dove avrebbe voluto. La scala é rugginosa ed alta, e sale, sale e promette, invita. (…)



Giudizio
Racconti semplici ma avvincenti, in cui si mescola il gergo quotidiano con il riferimento dotto, fatti di vita popolare, di visioni e superstizioni che emergono sempre dal magma di un denso desiderio inconscio, tratteggiando l’immagine di un Sud in cui le trasformazioni sociali, tecniche e culturali rimangono invischiate nella carta moschicida della tradizione, del mito, della calura  della brama, tra desideri di fuga e paura della novità che sembra liquidare l’identità e le propri radici. (Massimo Parolini)



Avevo otto anni di Angela Colapinto (Bologna)


Angela Colapinto è nata a Bologna, dove lavora e vive. È laureata in Lingue e letterature straniere. Alla passione per l’arte, si affiancano la scrittura e la fotografia. Ha frequentato corsi di scrittura creativa e di sceneggiatura, partecipato a concorsi letterari e pubblicato alcuni miei racconti. Si occupa per otto ore al giorno di stipendi, materia che non ha nulla a che vedere con la scrittura. Ha ripreso in mano questa antica passione da qualche anno e ne ha fatto più di un semplice passatempo. Le capita spesso di perdersi nei suoi pensieri e di ritrovarsi a inventare storie di cui è la protagonista. Le piace giocare con la vita, con i ricordi e con le situazioni ma soprattutto con sé stessa. È fra i vincitori della edizione 2017 del concorso Come farfalle diventeremo immensità. Antologie: Racconti Bolognesi I e II (Historica ed.), Muri (ed. Fernandel), Racconti Emiliano Romagnoli I e II (Historica ed.), Capodanno bastardo (Damster ed.), Il coraggio del bene (Fara ed.), Racconti a tavola (Historica ed.).
Poteva pure goderselo

Anche dopo aver smesso di fumare, in media una volta al mese, prendeva l'accendino dal contenitore di vetro nell'ingresso, andava in bagno e si bruciava i baffi.
Diceva che quel tipo di depilazione era rapida, indolore e che spargeva per tutta casa l'odore tipico di quando si preparano le quaglie dopo una battuta di caccia.
Non sapeva cosa fosse, la caccia, ma una volta si era presa un colpo di fucile in una gamba nel tentativo di rubare dello zucchero ai tedeschi, che poi glielo avevano regalato.
Mia nonna era nata nel millenovecentoventicinque, epoca in cui i peli, anche nelle donne, erano ritenuti sensuali e le ascelle giravano libere e selvagge sia al mare che in città. La figura dell'estetista non era nemmeno lontanamente immaginata: «Ti sembra un mestiere, quello» mi ripeteva ogni volta che provavo a prendere appuntamento «quando ero giovane io, gli uomini te li pettinavano pur di guardarti le gambe!».
Ho detto provavo, perché alla fine desistevo sempre.
Mia madre, nata una ventina di anni dopo di lei, non era della stessa filosofia e si radeva in casa; io le rubavo rasoio e schiuma da barba e facevo così tacere qualsiasi rimprovero per tutti quei soldi spesi male.
Mia nonna si chiamava Hannah, con l'h davanti e anche alla fine. Ci teneva molto che il suo nome fosse scritto corretto. Era il ricordo di un amore clandestino sbocciato tra le trincee dell'Altopiano di Asiago, ai tempi della Prima Guerra Mondiale, quando suo padre aveva combattuto nella fanteria. Della vera Hannah, una volta finito il conflitto, non si avevano più avuto notizie; quando era nata mia nonna, riccia e bionda come lei, suo padre si era impuntato per darle questo nome confessandole, solo dopo essere rimasto vedovo, il perché di tanto attaccamento.
In una vecchia scatola da scarpe, conservata in un mobile del salotto, avevo trovato una fotografia in bianco e nero dei miei nonni, da giovani, in giro per il centro di Bologna. Me la ricordo ancora così, sorridente mentre gli teneva il braccio, con i capelli lunghi raccolti in una mezza coda e i ricci chiari che le cadevano sulle spalle, nascondendo il bavero del cappotto. Decisi di metterla sulla loro tomba per togliere un po' di quella tristezza che si respira nei cimiteri quando, passando da una lapide all'altra, si vedono queste immagini tutte uguali, di forma ovoidale con i contorni sfumati, di persone dall'espressione vacua. Insomma, non è che uno può essere contento di morire ma in vita qualche momento felice dovrà pure averlo avuto, e sarebbe bello ricordarselo così. Visto poi che mia nonna era stata nota, in famiglia, per il suo caratterino non troppo mansueto, preferivo che qualcuno passando per la Certosa potesse ammirare quanto fosse bella e raggiante quando sorrideva. Lei che di sorrisi, in vita, non ne aveva mai fatti molti.
Era una specie di eterno ragù, la sentivi borbottare da quando suonava la sveglia a quando andava a letto la sera: si lamentava della polvere, di non sapere cosa cucinare per pranzo, dei vicini che non la facevano riposare il pomeriggio. Poi, arrivava il momento della cena, dei programmi sbagliati in televisione, del male alle articolazioni e del letto.
«I materassi non sono più quelli di una volta!»
«Nonna ma se l'hai fatto fare tu al materassaio...»
«Emma su, non contraddirmi sempre.»
Niente, nemmeno la lana che aveva scelto lei andava bene. Ad Hannah non andava bene quasi niente, nemmeno quello che le piaceva.
C'erano due cose, però, di cui soprattutto in estate non poteva fare a meno: la birra fresca allungata con l'acqua, da qui si deduce quanto poco ci fosse di austriaco in lei, e la coca-cola.
Credo che fosse l'unica nonna del quartiere che pur di berla, concedesse a una bambina di sette anni il Burghy almeno una volta alla settimana. Anche in frigorifero era raro che mancasse. Ogni tanto alla Coop doveva saltare la scansia, per dare ai miei genitori la parvenza che non fosse diventata un'abitudine. Non tanto per me, quanto per lei, per non sentire rimproveri.
Quando uscivamo da danza, invece, un passaggio al fast-food era d'obbligo: «La bambina ha così fame che un po' di ciccia non può farle altro che bene!»
Ciccia, certo, hamburger con cheddar, bacon, ketchup, maionese, cetriolini sottaceto e cipolla. Vogliamo parlare del pane? Meglio di no, di sano in quei panini c'era solo l'idea di farina e lievito mescolati nell'impasto.
Hannah sceglieva sempre il tavolino al piano terra perché aveva l'artrosi, ordinava una coca maxi e si sedeva a sorseggiarla come se fosse un somelier.
La piaceva talmente tanto che una volta la prese pure con l'aspirina.
Era Luglio, faceva molto caldo e quel fortissimo mal di testa le stava impedendo di digerire il pranzo. Non considerò che la combinazione potesse darle fastidio e, dopo aver preso qualcosa per la testa, decise di calmare anche la sete.
Si calmò anche lei.
Quando tornai da scuola la trovai sul divano in silenzio. Era strano che non avesse nulla da ridire: nessun corri a finire compiti, ti sei macchiata di nuovo! E io lavo, stiro...
Era lì, con gli occhi fissi sulla televisione spenta.
Spenta.
Morta non era morta, respirava.
Telefonai a mio padre, che a sua volta avvertì il medico, che in pochi minuti si precipitò a casa nostra. Tutti pensarono a un ictus.
Quando il dottore iniziò a visitarla capì che non c'era nulla che non andasse in lei se non questa strana euforia che si mescolava a momenti di assoluta assenza.
«Sua nonna fa uso di tranquillanti?»
«No.»
«Mi dispiace chiederlo: beve?»
«No.»
Andai in cucina a controllare che non ci fossero tracce di un taciuto alcolismo e, appoggiati nel lavello, vidi la lattina di coca-cola, un bicchiere e il blister delle aspirine.
Mia nonna si era drogata.
Senza saperlo si era regalata forse il più bel viaggio della sua vita. Soprattutto contando che al massimo era andata al mare a Pinarella.
Non mi ricordo se il dottore le diede qualcosa per farla riprendere, di sicuro niente lavanda gastrica, tutto sommato poteva pure goderselo fino in fondo questo trip.

Giudizio
Per lo spaccato di vita raccolto in un caleidoscopio di ambienti quotidiani, attuali, conosciuti, tenendo vivido l'interesse del lettore con una narrazione fluida e brillante, tra atmosfere "visive" ed età della vita rappresentate spesso con fresca ironia. (Francesca Ballarini)



Menzione a Mi chiedo se la felicità di Massimiliano Bardotti (Castelfiorentino, FI)


Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino. Poeta e attore, ha pubblicato diverse opere di poesia fra cui: Fra le gambe della sopravvivenza e A Cieli Aperti (con Thauma), L’Abbraccio (Fara 2015) e Il Dio che ho incontrato (Nerbini 2016, presentazione di Carlo Lapucci). Sulla rivista L’Empovaldo cura la rubrica “Pane e Poesia”. Suoi testi sono stati pubblicati da Fara in: Chi scrive ha fede?, Letteratura… con i piedi, Siamo tutti un po’ matti (tra i vincitori del concorso Insanamente 2014 con il racconto “Il Rumore della Neve”). Sue poesie sono presenti nell’ultimo numero della rivista Italian Poetry Review. È ideatore e docente del laboratorio di scrittura poetica “Cut-up, La Sartoria delle Parole”. Con Giacomo Lazzeri, Sara Giomi e Giulia Tanzini (musicisti) e Genny Carusi (danzatrice e fotografa) porta avanti il progetto LaMinimaParte, musica e parola che si incontrano e diventano teatro.
Roberto


Il gluglugluglu lo adora. Quel gorgogliare dell’acqua quando esce dalla bottiglia appena stappata. Poi nemmeno beve. Ha solo bisogno di quel rumore. Una conferma, un battito del cuore del giorno che ancora non cessa di battere, che ancora rammenta di esserci.
Oggi ha stappato ventisette bottiglie senza bere un sorso.
Nadia sta per arrivare. Porterà le carte e tutto il resto, il necessario. C’è bisogno di Paolo?, aveva chiesto. Paolo è l’avvocato.
No, aveva risposto Roberto, non c’è bisogno di Paolo l’avvocato, versando l’acqua in un bicchiere.
Conversazione telefonica affrontata con dignità.
gluglugluglu
Ora Nadia sta per arrivare, lei e le sue carte da firmare. Lei e la sua “onestà intellettuale”. Di che accidenti parla?, Roberto non ne ha idea, e continua a ingrassare.
Uno strazio silenzioso.
Mangia senza emettere alcun suono. Non c’è nessuno al mondo capace di mangiare in silenzio quanto lui.
Versa acqua in un bicchiere.
gluglugluglu
Il tavolo ne è pieno.
E Nadia sta per arrivare.
Con le sue carte da firmare.
Roberto attende e guarda fuori.
Il sole dei giusti, il sole dei giusti che splende, che illumina tutte le casette appaiate.
Con le dita sfiora il vetro, apre la finestra.
Un vento dolce. Aria fresca, soffiata da un prato verdissimo che sfiora roseti lontani.
Roberto respira.
Si guarda l’enorme pancione.
Si vede che ho bisogno di occupare più spazio, dice ad alta voce, si vede che è così.
Lo ripete, stavolta alzando la voce. Si vuol far sentire dai fantasmi della casa.
Si vede che ho bisogno di occupare più spazio!
Richiude la finestra, si volta lento su sé stesso, guarda il tavolo imbandito di bicchieri colmi d’acqua.
Si avvia in cucina, apre il frigo, mangia qualcosa, stappa una bottiglia, gluglugluglu.
Controlla l’ora, nervosismo che riaffiora.
Ode il rumore di un’auto nel vialetto.


Giudizio
I racconti sono molto belli, studiati, probabilmente autobiografici vista la profondità di molte considerazioni che posso essere frutto solo di lunghe meditazioni. Il senso della morte è sempre presente a chiedere uno scatto di vita, alcune infilate sono di una lucidità fenomenale che mi lasciano affascinato e mi costringono a provare a rileggere per riprovare il piacere. (Angelo Leva)




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