di Giuseppe Callegari
Durante il mio ultimo giro notturno con il cane, quando il silenzio amplifica anche i più piccoli rumori, mi capita spesso, anche se avrei dovuto averci fatto l’abitudine, di essere colpito e impressionato da forti urla, che sembrano lamenti. Si tratta dei maiali accatastati nei camion parcheggiati all’inizio del borgo in cui abito. Una sera ho deciso di fermarmi e uno di loro, forse il più coraggioso o desideroso di stabilire una relazione, mi ha salutato con il linguaggio universale espresso dalla sofferenza che accomuna umani e animali. Tornato a casa, mi sono addormento e ho sognato dando voce al maialino che avevo incontrato.
«Sono qui, in un grande parcheggio. Intorno a me, camion e macchine disposte ordinatamente. Poco distante, la strada, che sfocia in una grande rotatoria. C’è una lunga fila di mezzi. Procedono lentamente e, quando si fermano, osservo gli occupanti delle autovetture. Vedo una vecchia Lancia stipata di indiani, probabilmente ritornano dal lavoro nei campi. Al volante di un Suv, c’è una signora con grandi occhiali da sole. Forse, non vuole ferirsi gli occhi con la penombra della sera. Una Panda propaga musica a tutto volume, ci sono due ragazzi giovani, quello in fianco al guidatore si sta facendo una sigaretta. Credo si tratti di tabacco, non ne sono sicuro e non è importante. Arriva un furgoncino, non si accorge della fila e deve inchiodare per non calpestare la Punto che gli sta davanti. Si ferma a pochi centimetri dal lunotto, parzialmente oscurato da un adesivo con la scritta: “Io sono vegetariano.” Dentro la macchina, quattro persone: la guidatrice, bionda con un seno prosperoso incastonato da un giubbotto di pelle. Accanto a lei, una signora più anziana con un appariscente bracciale di avorio. Dietro, due bambini, che sgranocchiano patatine e urlano perché temono di arrivare tardi al fast food. Il traffico è fermo, si apre la portiera di una lussuosa Volvo, vedo due sandali su piedi nudi e poi una donna avvolta in una vaporosa pelliccia. Vuole vedere che cosa succede, ma rientra subito, forse, sente freddo. Il frastuono, intorno a me, copre ogni altro rumore, ma non si tratta del traffico, sono i miei sventurati compagni. Probabilmente hanno capito che ci stiamo avviando al patibolo. Siamo qui, in questo squallido parcheggio, stipati su un camion e rinchiusi in cellette di poche decine di centimetri, disposte le une sulle altre. Siamo stati caricati da un’ora e, poi, posteggiati, perché l’autista, domani mattina, per non perdere tempo, deve arrivare presto al macello. Loro gridano, è uno strazio sentirli, ma le persone che passano sono sorde; loro gridano, ma siamo solo un dissonante tassello di un tramonto; loro continuano a gridare, qualche finestra si apre e ci lancia indietro l’ordine di stare zitti. Io sono l’unico in silenzio. Tengo dentro di me l’angoscia e taccio perché non ho più voce. L'ho persa quando mi hanno staccato da mia madre, quando mi hanno infilato grossi aghi nel corpo, quando cercavo disperatamente una carezza e nessuno me l’ha mai data, quando ho capito che non eravamo considerati esseri viventi, ma solo merce. Sono mesi che attendo la mia fine e, adesso, in questo squallido piazzale, mi rendo conto che fra poche ore sarò consegnato al boia. Mia madre, nel poco tempo passato con lei, mi ha raccontato, che, una volta, ci appendevano a testa in giù e poi ci sgozzavano, Adesso, sono diventati molto più raffinati, usano una scossa elettrica. Ripenso alle sue parole e immagino la mia esecuzione. In fila, lungo un asettico corridoio, rischiarato da una luce bianca, siamo chiamati, a uno a uno, dentro una stanza, dove ci danno la dolce morte. Gli umani definirebbero queste parole un ossimoro, perché non può esistere la morte dolce, soprattutto, quando sono gli altri a dartela, senza il tuo consenso. I primi raggi di sole rompono il buio della notte, sento le voci degli autisti dei camion. Si raccontano la loro erotica notte passata con i corpi di turno, che coronano di uno squallido smalto il loro continuo girovagare. Il camion si muove, continuo a guardare fuori: vedo le porte delle case che cominciano ad aprirsi, gli indiani della sera prima che raccolgono meloni nei campi, una civetta morta in mezzo alla strada, un trattore che sparge diserbante in un campo da arare. Sono solo un maialino, non scrivo e non parlo, ma avrei, come condannato a morte, un ultimo desiderio. Vorrei poter dire che non mi lamento per la mia sorte, perché faccio parte di quel grande disegno della natura per il quale io devo diventare cibo per gli umani, ho solo un grande rimpianto: quello di non essere stato amato. La mia carne non ha ricevuto questo invisibile e, nello stesso tempo, immenso nutrimento. La mia sofferenza è stata incartata e impacchettata insieme allo speck, però, questo ingrediente non appare sull’etichetta. È una consapevole dimenticanza, perché è meglio far finta di niente.»
Quando mi sono risvegliato, ho accesso la luce e ho aperto Il tempo, grande scultore, il libro di Marguerite Yourcenar e, casualmente, si è aperta la pagina che recita: “Rivoltiamoci contro l'ignoranza, l'indifferenza e la crudeltà, che d'altronde non si esercitano così spesso contro l'uomo se non perché si sono fatte la mano sulle bestie. Ricordiamoci, in quanto occorre sempre ricondurre tutto a noi stessi, che ci sarebbero meno bambini martiri se ci fossero meno animali torturati, meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime di qualsiasi dittatura, se non avessimo fatto l'abitudine ai furgoni dove le bestie agonizzano senza cibo e senz'acqua dirette al macello, meno selvaggina umana stesa con un colpo di arma da fuoco se il gusto e l'abitudine di uccidere non fossero prerogativa dei cacciatori. E nell'umile misura del possibile, cambiamo (ovvero miglioriamo, se possibile) la vita…”
Durante il mio ultimo giro notturno con il cane, quando il silenzio amplifica anche i più piccoli rumori, mi capita spesso, anche se avrei dovuto averci fatto l’abitudine, di essere colpito e impressionato da forti urla, che sembrano lamenti. Si tratta dei maiali accatastati nei camion parcheggiati all’inizio del borgo in cui abito. Una sera ho deciso di fermarmi e uno di loro, forse il più coraggioso o desideroso di stabilire una relazione, mi ha salutato con il linguaggio universale espresso dalla sofferenza che accomuna umani e animali. Tornato a casa, mi sono addormento e ho sognato dando voce al maialino che avevo incontrato.
«Sono qui, in un grande parcheggio. Intorno a me, camion e macchine disposte ordinatamente. Poco distante, la strada, che sfocia in una grande rotatoria. C’è una lunga fila di mezzi. Procedono lentamente e, quando si fermano, osservo gli occupanti delle autovetture. Vedo una vecchia Lancia stipata di indiani, probabilmente ritornano dal lavoro nei campi. Al volante di un Suv, c’è una signora con grandi occhiali da sole. Forse, non vuole ferirsi gli occhi con la penombra della sera. Una Panda propaga musica a tutto volume, ci sono due ragazzi giovani, quello in fianco al guidatore si sta facendo una sigaretta. Credo si tratti di tabacco, non ne sono sicuro e non è importante. Arriva un furgoncino, non si accorge della fila e deve inchiodare per non calpestare la Punto che gli sta davanti. Si ferma a pochi centimetri dal lunotto, parzialmente oscurato da un adesivo con la scritta: “Io sono vegetariano.” Dentro la macchina, quattro persone: la guidatrice, bionda con un seno prosperoso incastonato da un giubbotto di pelle. Accanto a lei, una signora più anziana con un appariscente bracciale di avorio. Dietro, due bambini, che sgranocchiano patatine e urlano perché temono di arrivare tardi al fast food. Il traffico è fermo, si apre la portiera di una lussuosa Volvo, vedo due sandali su piedi nudi e poi una donna avvolta in una vaporosa pelliccia. Vuole vedere che cosa succede, ma rientra subito, forse, sente freddo. Il frastuono, intorno a me, copre ogni altro rumore, ma non si tratta del traffico, sono i miei sventurati compagni. Probabilmente hanno capito che ci stiamo avviando al patibolo. Siamo qui, in questo squallido parcheggio, stipati su un camion e rinchiusi in cellette di poche decine di centimetri, disposte le une sulle altre. Siamo stati caricati da un’ora e, poi, posteggiati, perché l’autista, domani mattina, per non perdere tempo, deve arrivare presto al macello. Loro gridano, è uno strazio sentirli, ma le persone che passano sono sorde; loro gridano, ma siamo solo un dissonante tassello di un tramonto; loro continuano a gridare, qualche finestra si apre e ci lancia indietro l’ordine di stare zitti. Io sono l’unico in silenzio. Tengo dentro di me l’angoscia e taccio perché non ho più voce. L'ho persa quando mi hanno staccato da mia madre, quando mi hanno infilato grossi aghi nel corpo, quando cercavo disperatamente una carezza e nessuno me l’ha mai data, quando ho capito che non eravamo considerati esseri viventi, ma solo merce. Sono mesi che attendo la mia fine e, adesso, in questo squallido piazzale, mi rendo conto che fra poche ore sarò consegnato al boia. Mia madre, nel poco tempo passato con lei, mi ha raccontato, che, una volta, ci appendevano a testa in giù e poi ci sgozzavano, Adesso, sono diventati molto più raffinati, usano una scossa elettrica. Ripenso alle sue parole e immagino la mia esecuzione. In fila, lungo un asettico corridoio, rischiarato da una luce bianca, siamo chiamati, a uno a uno, dentro una stanza, dove ci danno la dolce morte. Gli umani definirebbero queste parole un ossimoro, perché non può esistere la morte dolce, soprattutto, quando sono gli altri a dartela, senza il tuo consenso. I primi raggi di sole rompono il buio della notte, sento le voci degli autisti dei camion. Si raccontano la loro erotica notte passata con i corpi di turno, che coronano di uno squallido smalto il loro continuo girovagare. Il camion si muove, continuo a guardare fuori: vedo le porte delle case che cominciano ad aprirsi, gli indiani della sera prima che raccolgono meloni nei campi, una civetta morta in mezzo alla strada, un trattore che sparge diserbante in un campo da arare. Sono solo un maialino, non scrivo e non parlo, ma avrei, come condannato a morte, un ultimo desiderio. Vorrei poter dire che non mi lamento per la mia sorte, perché faccio parte di quel grande disegno della natura per il quale io devo diventare cibo per gli umani, ho solo un grande rimpianto: quello di non essere stato amato. La mia carne non ha ricevuto questo invisibile e, nello stesso tempo, immenso nutrimento. La mia sofferenza è stata incartata e impacchettata insieme allo speck, però, questo ingrediente non appare sull’etichetta. È una consapevole dimenticanza, perché è meglio far finta di niente.»
Quando mi sono risvegliato, ho accesso la luce e ho aperto Il tempo, grande scultore, il libro di Marguerite Yourcenar e, casualmente, si è aperta la pagina che recita: “Rivoltiamoci contro l'ignoranza, l'indifferenza e la crudeltà, che d'altronde non si esercitano così spesso contro l'uomo se non perché si sono fatte la mano sulle bestie. Ricordiamoci, in quanto occorre sempre ricondurre tutto a noi stessi, che ci sarebbero meno bambini martiri se ci fossero meno animali torturati, meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime di qualsiasi dittatura, se non avessimo fatto l'abitudine ai furgoni dove le bestie agonizzano senza cibo e senz'acqua dirette al macello, meno selvaggina umana stesa con un colpo di arma da fuoco se il gusto e l'abitudine di uccidere non fossero prerogativa dei cacciatori. E nell'umile misura del possibile, cambiamo (ovvero miglioriamo, se possibile) la vita…”
Chief Joseph
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