Giambattista
Bergamaschi
PINZIMONIO
IN VIA DE' SERVI
(divertissement
“filosofico” un po' demodé)
Gratuitamente
sfogliabile (ISSUU) o scaricabile (pdf) dai QUADERNI di
"Grazzaniseonline":
http://issuu.com/grazzaniseonline.eu/docs/pinzimonio
http://www.grazzaniseonline.eu/IMG/pdf/Pinzimonio.pdf
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Quale
presentazione potrebbe mai ambire ad essere tanto concretamente “a giorno” circa le più intime peripezie creative
di uno scrittore quanto le stesse sue premesse alle proprie opere?
Certo,
il prezzo che ogni volta s'è costretti a pagare è quello di un'inevitabile - umana e comprensibile - soggettività, tuttavia ben sapendo d'aver scongiurato, fin dove è possibile, l'assai più
grave rischio di una paurosa, spesso intenzionale e antipatica
aberranza, in un mondo che troppo spesso si alimenta di sole
chiacchiere, incluse quelle scritte.
L'obiettivo
di questa mia nuova storia è per niente
affatto pretenzioso. Molto semplicemente, chissà cosa pagherei per
sapere se almeno un lettore s'è francamente
divertito leggendola e apprezzando il lavoro letterario - espressivo e contenutistico - compiuto a tale scopo.
Con ciò rimanderei il fruitore della presente “recensione”
alla lettura integrale del racconto, tuttavia non senza avergli prima
ammannito la “Premessa” di cui sopra dicevo nonché il seguente
passaggio da una recensione colta di fresco:
"Con
complice ironia e partecipazione affettiva Bergamaschi ci racconta le
strategie messe in atto dal protagonista nel tentativo di conoscere
una giovane donna che un giorno gli è apparsa casualmente. Una
situazione che tutti possono ritrovare nel proprio vissuto ma che qui
è narrata con fresca, brillante maestria, condita come al solito di
argute ed erudite descrizioni che anziché appesantire la lettura la
rendono, al contrario, piacevole e stuzzicante"
(Franco Tessitore, www.grazzaniseonline.eu/spip.php?article3040).
PREMESSA
Qualche
settimana fa, nel pieno di un ennesimo repulisti di libri,
quaderni, riviste ed altro dimostratosi negli anni palesemente
inutile, mi sono per “caso” ritrovato fra le mani, dopo un tempo
inenarrabile, il racconto che segue.
Battuto
a macchina, trattandosi di un manufatto deliziosamente arcaico,
qualche anno dopo la mia laurea in Lettere.
Nulla
di speciale, eppure non ho avuto il cuore di cestinarlo nel bidoncino
della carta assieme a tanti dépliant pubblicitari mai considerati,
buste di bollette già pagate, contenitori in cartone per alimenti,
futili riviste di moda sfogliate in fretta e via discorrendo.
Quel
che maggiormente mi ha indotto a trascrivere l'intera storia sulla
tastiera di un pc è stato il potere di suggestione, non del tutto
sopito ad onta degli anni trascorsi, della vaneggiante temperie
emotivo-culturale che quello scritto sembrava ancora sprigionare.
*
* * * *
Anni
a cavallo tra gli ultimi '70 e i primi '80.
Allora,
dapprima per motivi di studio, successivamente scientifici,
percorrevo l'Italia in lungo e largo, saltando da un treno all'altro.
Fu
così che nel settembre del 1980 trascorsi alcuni giorni a Palermo,
partecipandovi quale relatore ad un convegno internazionale di
semiologia1,
fra specialisti tanto illustri da far sentire me, laureato di fresco,
poco più di un moscerino.
Feci
girare tra i presenti i 22 Arcani Maggiori del Tarocco di Marsiglia.
Al termine dell'esposizione, mi tornarono tutti indietro salvo il IX,
l'Eremita, che un eminente semiologo del cinema pensò bene di
intascare, a mo' d'efficace promemoria, dacché l'intera mia analisi
aveva insistito soprattutto su quel particolare atout.
Lasciai
correre.
A
quel tempo ero fermamente convinto che nulla accadesse per caso, e un
tale episodio, per molti versi trascurabile, doveva con molta
probabilità celare chissà quale recondito significato.
Parigi
val bene una messa.
La
sera del secondo giorno, mentre tutti, chi più chi meno con un
bicchiere in mano, si vagabondava tra le fastose sale arazzi e
specchi di un noto palazzo baronale del Seicento, in perfetto
sincronismo con un paio d'altri giovani relatori e una coraggiosa
laureanda - seguace segugia di un'onda culturale in quegli anni
tremendamente à la page -, ebbi una luminosa idea.
Abbandonammo
con fare felino l'edificio - mentre la crème de la crème
semio-linguistico-antropo-strutturalista, nella salda consapevolezza
del proprio conclamato potere culturale e non solo, continuò a
degustare ogni ben di Dio, non ultimi i mitici “pani
câ meusa” accompagnati da calici di ottimo Corvo Rosso del Duca di
Salaparuta - in cambio di una
boccata d'aria fresca e due più frivole chiacchiere altrove, quanto
bastò remote dal teatrino dei burattini.
Dove
finimmo?
Da
autentici incoscienti attraversammo per intero l'area del porto, fra
ombre inquietanti ben poco raccomandabili a quell'ora.
Quando
ci ripresentammo al palazzo sorprendentemente illesi e candidamente
ignari del rischio appena corso, l'agente addetto alla sorveglianza,
siculo e curioso, saputo da dove tornavamo reduci, di gitto concluse
d'aver a che fare con quattro pazzi scatenati. Ci accompagnò
comunque fino alla sala in cui i nostri più vetusti e blasonati
colleghi stavano gustandosi un'assai squisita Opera dei Pupi.
Breve:
fu lì che conobbi l'impavida semiofila poco sopra descritta.
Un
paio d'anni più tardi, ne fui invitato, ospite, in quel di Firenze.
Vi
avrei tenuto una serie di lezioni di semiologia dell'immagine presso
gli studi “Fortman”, sorta di scuola d'arte a quei tempi
soprattutto consacrata, credo, alla fotografia.
Non
so se ancora esista...
Fu
durante quel breve soggiorno che, grazie ad un amico anche lui
oriundo di San Benedetto del Tronto ma col tempo laureatosi fine
conoscitore dei più riposti meandri del capoluogo toscano, conobbi
un tale assai curioso e singolare: Mago Merlino, nome d'arte che nel
mio racconto citai non senza una qualche emozione.
*
* * * *
Dunque,
non di una storia puramente fantastica si tratta, essendo le
connessioni con l'effettiva realtà di quegli anni piuttosto
numerose.
Ciò
non toglie però che nel suo complesso resti un puro e semplice
divertissement letterario.
*
* * * *
A
quel tempo, oltre alla semiologia, mi affascinava non poco una certa
corrente contemporanea della nostra storia letteraria, cultrice della
“bella pagina”, nonché un paio di autori francesi, Alphonse
Allais
e Raymond Queneau2,
dalle
intenzioni non poco metaletterarie, più o meno
tecnico-illusionistiche.
Oggi,
li definirei semplicemente “supponenti”.
Del
primo ricordo, in particolare, due racconti, Un
drame bien parisien e
Les Templiers,
che il nostro Umberto Eco sottopose ad acuta analisi narratologica
nel fortunatissimo suo Lector
in fabula
3.
Da
non trascurare, infine, che durante quegli stessi anni nella mia
città natale parecchi giovani “rotondini” esibivano un discreto
interesse nei riguardi dell'occulto.
Io
stesso non ero del tutto insensibile alla cosa, benché nel corso
della mia esistenza abbia sempre guardato all'universo dei misteri
con leonardesco sorriso.
Proprio
come nel mio racconto...
1
G. Bergamaschi,
Tarocchi: “Litterae
laicorum” e Sistema di memoria,
in AA. VV., Per una
storia della semiotica: teoria e metodi,
Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 1980.
2Esercizi
di stile, in varie e
successive edizioni. Aggiornata quella del 1973. L'ultimissima è
del 2008.
3Bompiani,
1979.
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