recensione di Marco Scalabrino
pubblicata in www.ondaiblea.it
Sei qui da due settimane. A parte il nome e il piano in cui
abiti, so poco di te. Ho imparato a distinguere il tuo passo. Due settimane
possono bastare. Mi sento felice. Per la prima volta qualcuno è lì dove sono
anch’io. Prendi corpo nei miei sogni. E comincio a sapere di essere innamorato.
Irrimediabilmente. Ora so che forma ha un desiderio, ragazza dolce cui tutte
fanno un baffo.
Una
coppia di bambine, forse sorelle, si somigliano. Una ha circa dieci anni,
l’altra ne avrà sei o sette. Vestono colori chiari, che ne esaltano i capelli
biondi. La più piccola dice: “Ma perché, signore, stai nell’ascensore?”
Il suo
corpo sembra una pasta piatta che attenda di lievitare.
Ogni
piano sta tra altri due, ma nessuno sta con un altro. Si stanno accanto senza
vedersi, paralleli. E così tutti quelli che lo popolano, soli, lontani. Ma come
fa un piano, solo perché è sopra o sotto a un altro, a costruire qualcosa di
verticale? Come fa un piano a darsi delle arie, solo perché bucato da porte e
finestre? Come fa un piano a riprendere fiato, quando tutti lo calpestano?
Sette
sono questi piani. La sua casa li attraversa tutti.
Se la
solitudine avesse un nome, non si chiamerebbe solitudine, perché neanche un
nome potrebbe tenerle compagnia.
Per
alcuni giorni l’ascensore quasi non viene usato; qualche crisantemo, dei
gladioli e delle calle vengono depositati dentro la cabina.
Piuttosto che una recensione, la quale, a parer nostro, mal
si attaglierebbe alla portata di questo romanzo finendo col risultare riduttiva
rispetto al fitto reticolato che lo costituisce, preferiamo proporre una lettura,
una presentazione, una sorta di racconto di quest’opera, che ne possa cogliere
le molteplici dimensioni della struttura, ne possa circostanziare quante più
sapide e argute circostanze che vi sono disseminate, i cui nuclei salienti, in estrema
sintesi, abbiamo esposto nei precedenti stralci introduttivi.
Romanzo non di genere, mordace, spigliato, articolato, al
livello fondamentale del quale si sovrappongono, dal quale si diramano, nel
quale agiscono, nel tempo e nello spazio, numerose altre superfici e pertinenze.
L’Amante
ha smarrito il piacere della musica, il piacere del cibo, il piacere del vino.
Colui che l’Amante ama non solo è il problema ma anche la soluzione al problema.
L’Amante è un viaggiatore; un ascensore lo conduce in cima e poi di colpo lo
affossa.
L’Amante introduce quasi tutti i livelli, pardon, capitoli di questo romanzo. L’insistita
reiterazione (una decina di frame) fa
d’emblée pensare che questa sia
l’ennesima odissea di passioni, di sentimenti, d’amore e che l’Amante, appunto,
ne sia l’eroe. E in buona misura, vedremo, lo è; bensì non nei termini che di
primo acchito quegli stralci sembrerebbero suggerire.
In quel palazzo lì, ci ragguaglia l’Autrice quasi avesse
percepito la nostra sommessa sollecitazione, ha luogo l’azione.
Quel
palazzo lì ha sette piani. All’interno, sulla destra del cortile, c’è il
vecchio ascensore di ferro. Un ascensore anonimo di un vecchio condominio di un
vecchio quartiere, di una città che non si sa bene se vecchia o nuova. Si apre,
si chiude, sale, scende; la ruggine s’intreccia a residui di vernice strappata
dal tempo. Un ascensore di quelli che ci si può vedere la gente attraverso. Non
si dice mai che si viaggia, quando si va in ascensore, solo perché ci si sposta
in verticale invece che in orizzontale.
Ci colpiscono favorevolmente, sin dalle primissime battute,
le immagini che l’Autrice sa creare, gli esiti di tutto rispetto ai quali riesce
a pervenire, efficaci quanto alla coerenza tematica, alla icasticità, alla pregnanza
lirica. Abbiamo d’altronde contezza che lei sia dotata di un variegato e
qualificato bagaglio di studi e di letture, che vanno da Dostoevskij a Pirandello,
da Shakespeare a Ionesco, da Kafka a Sciascia,
e che altresì ha dimestichezza col repertorio di cantautori impegnati quali
Gaber e Brassens; letture, studi, ascolti che ne suffragano e accreditano il
talento, la fresca vena e la verve affabulatoria. Ne discende, in un registro
amaro, sferzante, grottesco, un’apprezzabile scorrevolezza di penna, una rodata
perizia nel fare susseguire le pagine, una scrittura concreta intrisa della
lingua parlata, la cui sintassi e punteggiatura si appoggiano talora alle trame
meno formali proprie del timbro colloquiale.
Di tali realizzazioni, oltre a quel paio delle quali ci
siamo già avvalsi (Come fa un piano a darsi delle arie, solo perché bucato da
porte e finestre?; Non si dice mai che si viaggia, quando si va in ascensore,
solo perché ci si sposta in verticale invece che in orizzontale), riportiamo alcuni
suadenti esempi: La polvere fa tanta paura perché rende visibile il tempo che
passa; Un grido svergina l’ingresso della finestra aperta; Il retro
dell’orecchio esercita un certo magnetismo per le manifestazioni di titubanza; La
notte è il luogo delle voci che si allungano in eco lontane; La coscienza è un
modo di raccogliere la colpa che sarebbe caduta per terra; Cosa succederebbe se
la vergogna fosse solo un pigmento per le guance?
I locali
della casa sono stretti. La luce che filtra dalla grata sembra rispondere a una
preghiera. Il marmo della cucina è graffiato. L’acqua genera più umido che
pulizia. Il caffè versato sul piano cottura sembra un test di Rorscharch. L’uomo
coi baffi tagliati male lancia un’occhiata all’ascensore, che non usa pressoché
mai, abitando al pianterreno.
L’uomo coi baffi tagliati male è il primo dei protagonisti a
calcare la ribalta; ne segue una rapida descrizione del modesto appartamento e se
ne precisa la collocazione rispetto ai piani dello stabile: al pianterreno,
tanto che egli l’ascensore non lo usa mai.
Non ha un nome, come del resto constateremo ogni altro protagonista
di quest’opera, ma un peccu (una
ingiuria, come nella tradizione popolare siciliana) che lo definisce, una
locuzione che lo contraddistingue. Ha, ovvero, la sua “maschera”, quella, appunto,
dell’“uomo coi baffi tagliati male”. Ciò peraltro, quantunque non sviscerandone
la psicologia, delinea un tratto emblematico dei personaggi, ribadisce l’impianto
manifestamente teatrale di questo testo. Il richiamo all’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, della quale in seno a questo
lavoro è in corso l’allestimento, ne è lampante testimonianza.
Le macchie di Rorschach, alle
quali si è appena fatto cenno (così
chiamate dal nome del loro creatore Hermann Rorschach), sono la base di uno strumento per
l’indagine della personalità che si compone di dieci tavole, su ciascuna delle
quali è riportata una macchia d’inchiostro simmetrica. Le tavole, cinque
monocromatiche, due bicolori e tre colorate, vengono sottoposte all’attenzione
del soggetto una alla volta e, per ciascuna e senza limiti di tempo imposto,
gli viene chiesto di esprimere tutto ciò cui secondo lui la tavola somiglia.
Ma non è la sola citazione colta
alla quale l’Autrice fa ricorso. Delle altre, infatti, vi si affiancano e fra
esse quella relativa al numero sette, fin troppo nota e ciò malgrado nel nostro
caso pertinente, e quell’altra, ben più avvincente, che concerne il musicista russo
Dmitrij Šostakovič.
Ricco di significati simbolici, il sette è il numero delle virtù, dei peccati capitali,
delle vite di un gatto. Le meraviglie del mondo antico e moderno sono sette, come
i re e i colli di Roma, le note e le chiavi musicali. Il Corano dice che il
mondo poggia su sette colonne; l’Apocalisse sostiene l’esistenza di sette
sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo. Biancaneve riparò dai sette
nani e, quel che per noi più vale, sette sono i piani di quel palazzo lì.
Quanto a Dmitrij Šostakovič, secondo un neurologo cinese, egli
sentiva delle musiche grazie a un frammento mobile di granata ficcato nel
cervello. Quando la scheggia tamponava la zona musicale del lobo temporale
produceva delle melodie che chiunque altro probabilmente avrebbe sentito,
magari non identiche, se avesse avuto in quel punto esatto del cervello un
frammento di granata. E Šostakovič non voleva che gli estraessero quel cosino a
disposizione del suo genio musicale.
Dei personaggi nei quali man
mano ci imbatteremo, dei principali quantomeno, appronteremo una misurata scansione:
l’ubicazione nel palazzo, l’attività, qualche prerogativa.
Uno
strato di cemento più su dell’uomo coi baffi tagliati male, al primo piano di
quel palazzo lì, è adagiato su un tavolo un libro di ricette di cucina
mediterranea dalla copertina rigida e splendente. La studentessa coi baffi
tagliati bene, dal biancore lentigginoso, le trecce che le incorniciano il
viso, i brufoli che le forano le guance, ha estratto dalla credenza il volume,
dato che intende preparare dei biscotti con pasta di mandorle.
Sono le tavolette di cioccolata a ricordarle le origini dell’epiteto
che tiene cucito addosso sin dagli anni del liceo. Una sua compagna di classe
festeggiava il compleanno … “Ma cosa ci fai con quel pezzo di cioccolata sui
baffi?!”, aveva esclamato il compagno alto, bello e antipatico. Da quella volta
lì, la studentessa coi baffi tagliati bene, non aveva più mangiato cioccolata
in pubblico e aveva deciso di tagliare i baffi regolarmente.
Guarda un po’ la cioccolata! Ma non è in quel di Modica, in
provincia di Ragusa, che fanno una cioccolata fra le più gustose e speciali
d’Italia? E non è in quel di Modica, in Sicilia, che affondano le radici della
nostra autrice?
Il giovane
uomo coi baffi tagliati (un business
manager) lascia entrare la ragazza col caschetto. Siede accanto a lei e
accende il televisore ultrapiatto. Sul primo canale danno il Gran Premio di
Formula Uno di Montecarlo.
Acquisiamo, così, un dato rilevante (e magari un interesse
sportivo dell’Autrice): corre il mese di Maggio, giacché per consuetudine, da
calendario, in primavera e in quel mese si tiene a Montecarlo il Gran Premio di
Formula Uno di Monaco.
Ci risiamo! Daccapo un individuo con “baffi”. E sono tre;
tre su tre. Ebbene, non la tiriamo più per le lunghe, pressoché tutti i soggetti
di questa vicenda, di sicuro i preminenti, siano essi uomini o donne, giovani o
maturi, hanno a che spartire con i baffi (è la caratterizzazione più accentuata
di questo lavoro). Non per nulla poc’anzi il rimando alla maschera, che ci fa
sovvenire il teatro della classicità greca e latina, nonché, più prossima a
noi, la commedia dell’arte della tradizione italiana. Una maschera simile per
tutti e, al contempo, per ciascuno di loro personalizzata, contrassegnata da
una puntuale esclusiva definizione.
Il giovane uomo coi baffi tagliati abita al sesto piano, il
penultimo del condominio; per lui, per sua stessa ammissione, non è un problema
fare sei piani di scale.
Sarà pure un giovane uomo, è da presumere che sia in ottima
forma, con l’elettrocardiogramma sotto sforzo ripiegato nel portafogli, ma sei
piani in salita non sono propriamente una passeggiata per nessuno. E allora,
perché?
È la
seconda volta che la ragazza col caschetto va a trovare il giovane uomo coi
baffi tagliati. Anche la prima volta aveva subito la compagnia del tipo
dell’ascensore, le pupille ancorate a un punto indistinto, avvolto nella sua
piccola coperta, che però non le aveva rivolto la parola. Il giovane uomo coi
baffi tagliati le ha detto poco di lui. Da tre settimane a questa parte detesta
il fatto che il suo appartamento si trovi al penultimo piano del condominio;
per fortuna nel suo caso non è un problema fare sei piani di scale.
In sordina, ecco fa l’ingresso in scena il tipo
dell’ascensore, lo strano signore in ascensore, l’uomo dell’ascensore. Apprendiamo
che egli staziona (dire vive è un azzardo) in ascensore da tre settimane.
La
posizione dell’uomo è invariata rispetto alla giornata di ieri e anche
dell’altro ieri. Riesce a stare con braccia, gambe e capo nella medesima
posizione per interminabili ore, come se il fastidio e la volontà non facessero
parte del suo mondo. La coperta, dallo stesso colore dei sacchi di juta usati
per trasportare le patate, lo fa somigliare a un vulcano. L’uomo coi baffi più
buffi del mondo, che abita al quarto piano di quel palazzo lì, quando fa i
turni di notte all’ospedale, qualche volta tornando a casa lo trova sveglio,
raggomitolato nel suo angolo, arrotolato nella coperta. E chiacchierano per un
pezzo, a bassa voce per non disturbare il palazzo che dorme.
In apparenza il più impresentabile di quella assemblea,
l’uomo dell’ascensore risulta, viceversa, essere il pezzo imprescindibile, il
perno, il cardine, benché non il protagonista, di questa pièce. Protagonista ne è, di fatto, quel vecchio palazzo lì, metafora,
nel suo agglomerato di materia inerte e vivente, della nostra società
disgregata, dell’umanità scriteriata che vi gravita, che vi brulica sopra,
sotto, di lato, di passaggio, di proposito, per sgarro, e non già quel singolo uomo.
L’intera vicenda, nondimeno, ruota attorno a quell’uomo: al
suo compito distacco, al suo volontario confino, alle origini sfocate di quell’ambaradan.
I suoi pensieri, formulati ormai a fatica, fluttuano flebili.
Non so
più distinguere un giorno dall’altro. Non saprei chiamare il venerdì o la
domenica per nome. Anche stamattina ricevo visite. Chiamano l’ascensore.
Sentirmi sollevare è così immenso. È il mio viaggio perpetuo verso lei, senza
arrivo.
Ma chi è? Cosa ci fa lì dentro? E perché ci sta? Dove
abitava? Cosa faceva prima? E che vuole intendere con la frase: “È il mio
viaggio perpetuo verso lei, senza arrivo”. E questa lei, chi è?
Please, be patient!
La donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero
impeccabili), dalle caviglie sottili, abita al quinto piano di quel palazzo lì.
Le prove de L’opera da tre soldi sono
riprese; manca una settimana allo spettacolo. Dovrà interpretare Jenny delle
Spelonche, la prostituta che ebbe il coraggio di tradire la fiducia del temibile
Mackie Messer, ma deve ancora farne una profonda conoscenza.
La donna
senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) scende le scale, Jenny
delle Spelonche in testa. Corre; non può permettersi di arrivare in ritardo al teatro.
Il palco è pronto, gli altri sono su a provare le battute. Sbircia sul copione
che tiene in mano.
Taluni personaggi, fra loro la vedova dai baffetti biondi che
abita al terzo piano, hanno un profilo più marcato di altri e su essi l’Autrice
insiste.
Riguardo alla vedova dai baffetti biondi, con un atto di
complicità, ci mette al corrente del suo penoso segreto.
Il capo
di suo marito la chiama al telefono. Le riferisce che il marito è appena stato
raccolto dal marciapiedi e che vi è arrivato dall’impalcatura dell’ottavo
piano. Dopo quelle parole non ricorda cosa sia successo. Le viene in mente che
sta per esaurirsi la scorta dei pannolini. Esce da quel palazzo lì per le
scale. In ascensore lei e il passeggino insieme non ci stanno, da quando quell’uomo
ne ha fatto la sua dimora. Per strada, alcune persone dopo aver sbirciato
all’interno del passeggino, nei pochi secondi che permettono a due passanti di
scambiare uno sguardo, la guardano con più attenzione. Forse è solo una sua
sensazione, pensa, che sgranino gli occhi. Al ritorno non se la sente di fare
le scale. Entra nel quadrato dell’ascensore che è al pianterreno. Lascia il
passeggino nel pianerottolo; prende solo il bambino. Salgono. “Si è calmato”, bisbiglia
mentre guarda all’interno delle proprie braccia. Così calmo ora, il suo
bambino, che sembra quasi non esserci. Sì, il suo piccolo si è calmato. Sì, c’è
qualcosa di più dell’aria, dentro le sue braccia. Lei ci crede, è tutto quello
che conta. Il terzo piano li accoglie. L’uomo coi baffi tagliati male si chiede
se sua cognata scoprirà mai che non ha partorito nessun bambino, né un anno fa,
come crede, né prima e né dopo. Era un grosso desiderio, che questo bambino
esistesse, prima che suo fratello morisse, ma non avevano fatto in tempo. Nella
credenza ci sono cartoni su cartoni di latte in polvere e la polvere sui
cartoni di latte in polvere. Anche se non li consuma, lei è certa di
consumarli, di preparare il latte per suo figlio, di cambiargli i pannolini, di
fargli il bagno e quindi compra tutto regolarmente.
Un ordito, fin qui, intrigante, per la singolarità della situazione
e dei personaggi, irrigiditi, questi, nelle loro solitudini, ingabbiati nei
loro egoismi, soverchiati dal loro rituale sopravvivere, che paiono avere
escluso, schiantato, azzerato, qualsivoglia pratica relazionale.
La signora con i baffi approssimativi, il consulente coi
baffi un po’ da gay, il belloccio coi baffi sottili, eccetera, ne allungano
l’elenco e stratificano una situazione che, nel suo sinuoso dipanarsi, rasenta
il paradosso.
Ma, i condomini e i non del palazzo quale atteggiamento
tengono rispetto ad essa?
L’uomo
coi baffi più buffi del mondo vorrebbe aiutare quell’uomo. Il giovane uomo coi
baffi tagliati, se la decisione dipendesse da lui, chiamerebbe le forze
dell’ordine. L’uomo coi baffi tagliati male non nutre simpatia per
l’imbacuccato, non si sente entusiasta nel rischiare di calpestare le sue feci
né di sentirne il fetido odore. La vedova coi baffetti biondi comprende
l’agonia dell’incompletezza che deve portarsi addosso, prova compassione per il
pover’uomo. La studentessa coi baffi tagliati bene non si è data il tempo di
ragionarci; quell’uomo la incuriosisce, ma vederlo le fa percepire una cronica
idea di sporcizia, cosa che capita anche al giovane uomo coi baffi tagliati. La
donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) ha lo sguardo
malinconico quando si parla dell’uomo dell’ascensore; ogni tanto si ferma a
conversare con lui. Il ragazzino senza baffi, abitando al secondo piano, usa l’ascensore
solo per salire, mentre per scendere salta giù i gradini a tre a tre; da quando
quell’uomo ha deciso di farne la sua casa, i suoi genitori gli hanno proibito
di usarlo.
Gli stessi, inoltre, l’Autrice s’ingegna a classificare in
diverse distinte categorie, di ognuna delle quali fornisce altresì l’indicazione
di massima della consistenza numerica.
Ci sono,
ad esempio, gli irritati. Gli irritati di quel palazzo lì sono coloro che
vedono nell’uomo dell’ascensore un sacco ingombrante per chi deve spostarsi tra
i piani. Costretti a contorcersi, a cacciare i piedi in qualche interstizio per
non calpestare i centimetri appartenenti all’uomo dell’ascensore, mantengono
alto il mento per ridurre al minimo le possibilità di incrociarne lo sguardo. È
la categoria che conta il maggior numero di adesioni: il giovane uomo coi baffi
tagliati, i genitori della studentessa dai baffi tagliati bene e quelli del
ragazzino senza baffi, un tale turista dalla barba nascente. Ci sono i
disponibili a usare l’ascensore nonostante tutto: aderiscono alla parete più
sgombra e tengono gli occhi fissi sull’uomo dell’ascensore, a verificare che
tutto sia sotto controllo. Nel loro petto guizza un primordiale senso di
repulsione per quell’uomo e tuttavia la sua presenza non costituisce un motivo
valido per affaticarsi per le scale. Disponibili a usare l’ascensore nonostante
tutto sono la vedova coi baffetti biondi e alcuni ospiti dei condomini ai piani
medio-alti e alti. Ci sono poi i falsi indifferenti: si tengono a debita
distanza dall’ascensore come se non si fossero mai accorti che un uomo lo
occupa. È il caso della studentessa dai baffi tagliati bene, del ragazzino
senza baffi, dell’uomo coi baffi tagliati male. E infine gli aiutanti timidi, i
quali vorrebbero fare qualcosa di concreto per quell’uomo. L’uomo coi baffi più
buffi del mondo e la donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) fanno
parte della schiera degli aiutanti timidi, che conta poche anime.
Dopo questo ampio, necessario preambolo, ci aspettiamo, si
impone, il colpo di scena, lo sbocco, la svolta che ci prepari, ci orienti
verso la conclusione. In regia, lo si avverte.
E dunque accade che, rientrando alle 4.00 del mattino,
l’uomo coi baffi più buffi del mondo noti che per la prima volta dopo diversi
giorni l’uomo dell’ascensore ha cambiato radicalmente posizione.
Sta a
pancia in giù, piegato sulle ginocchia e con la testa china fino a terra, come
se stesse pregando. Cosa sia successo non sa, ma al cospetto dei suoi occhi
qualcuno sta male. Scende al suo piano. La sua professione di infermiere gli ha
fatto sollevare tante persone sulle braccia. Solleva l’uomo fino al suo
soggiorno. Apre la porta e lo adagia sul divano. Lo separa dalla coperta per
manovrare gli arti e il busto, a cercare per lui una postura comoda e corretta,
ma fa in fretta e lo ricopre, come se non si sentisse autorizzato a vederlo
scoperto. Si affaccenda per medicare l’uomo. Avendolo trovato al sesto piano,
ha un’idea su chi possa essere il responsabile di quel che si trova sul suo
divano.
Secondo il ragazzino senza baffi, l’uomo dell’ascensore è un
affare strano, ma niente affatto cattivo. Stabilisce che andrà a parlare con
l’uomo coi baffi più buffi del mondo, della manovra del quale si è accorto
dalla sua finestra.
“È qui che lo tieni …?”, punta il pollice in direzione
dell’ascensore. “Vuoi dire … sì, è sul mio divano. Entra, se vuoi vederlo, ma
non sta molto bene”.
Finora non ci si è interrogati in che tempo è ambientata la
narrazione. Qualche indizio, sì, ma non una data precisa è trapelata. Opportuno,
un passaggio sopraggiunge a soddisfare la nostra lecita curiosità e la colloca nella
attualità, ai nostri tempi, con espliciti riferimenti alla musica house e all’i-phone e prima, non ci è sfuggito, al televisore ultrapiatto.
Essa quindi, riflettiamo, sta accadendo giusto oggi, da
qualche parte in un isolato attiguo al nostro. Non lontana da noi; non estranea
a noi.
L’Old Scottish Pub
accoglie la donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) e il suo
collega. Due boccali di birra scivolano sul tavolo.
Un gruppo
di amiche in fondo al locale, dove una musica house tiene compagnia, ridono guardando delle foto da un i-phone. Qualcuno entra. La donna senza
baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) riconosce l’uomo coi baffi più
buffi del mondo. Trova curioso che abiti sopra la sua testa e sappia così poco
sul suo conto: il nome, il cognome, il lavoro, il paraurti ammaccato dell’auto,
il pianoforte che suona di tanto in tanto. Ma, si dice, sarà colpa sua: è sempre
così indaffarata. “Sai qualcosa dell’uomo dell’ascensore?”, chiede. “Non so
cosa gli sia successo, ma adesso è a casa mia. Stamattina verso le 4.00, quando
sono rientrato, l’ascensore era bloccato al sesto piano. Sono andato a
controllare e l’ho trovato lì, quasi privo di sensi. Temo che qualcuno lo abbia
picchiato”. “Santoddio...”, fa la donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero
impeccabili). “Hai detto che era al sesto?” Si guardano. Forse formulano la
stessa ipotesi.
Il mattino successivo l’uomo dell’ascensore non si è
spostato di un centimetro. Non parla, non ride, non risponde allo stato delle
cose. Occupa lo spazio del divano. Quest’uomo, che da ultimo appuriamo essere stato
il portiere di quel palazzo lì, per delle cause ancora ignote, ha vissuto per
qualche tempo accasciato su sé stesso dentro l’ascensore. Di giorno e di notte.
Quella
era la sua nuova casa, quell’ascensore che conosceva come il palmo della sua
mano, così come conosceva il resto del condominio. Nessuno degli attuali
condomini era arrivato prima di lui in quel palazzo lì. Aveva iniziato
lavorando in portineria. Lo considerava un lavoro provvisorio all’inizio; ma
qualcosa poi gli fece cambiare idea. Decise di rimanervi, abbandonò le sue
ambizioni, tutti i suoi sogni nei cassetti li chiuse a chiave per sempre.
L’ascensore ora è desolatamente vuoto; è tornato solo l’anonimo
ascensore che era prima.
Per un mese era stato famoso, era stato sugli scudi, oggetto
di asfissiante ingerenza, meta ininterrotta di pellegrinaggio, grigio simulacro
di parossistico culto; era stato elevato a ombelico di quel circoscritto universo,
era stato il set di riflettori morbosi, schifati, pietosi, tolleranti, l’agorà
di una community (polimorfo assembramento
di figure che di norma già vi insistevano e di una nuova mutevole moltitudine) ammaliata
dal reality che insperatamente,
miracolosamente vi si trovava ad essere girato e che proiettava tutti, vecchi e
nuovi, abituali e fortuiti convenuti, trucco e parrucco, a favore di
telecamera, nell’olimpo dello star system,
anche loro finalmente divi.
Dopo un mese passato in ascensore, senza ascoltare nessuno,
senza rispondere a tutti quelli che gli hanno domandato cosa stesse a fare lì
tutto il giorno, cosa stesse a fare lì anche tutta la notte, cosa accidenti
insomma stesse a fare, adesso quell’uomo è svanito e tutti si chiedono dove sia
finito.
Solo a noi, dal nostro privilegiato osservatorio, è dato
sapere che tre di loro sono a conoscenza che egli continua a sopravvivere sdraiato
su un divano del quarto piano: l’uomo coi baffi più buffi del mondo, che lo
ospita, il ragazzino senza baffi e la donna senza baffi (ma se li avesse
sarebbero impeccabili), che se ne sono informati.
Una ipotesi si è fatta strada, per tutto ciò, fra i
condomini. In cuor loro sanno perché quell’uomo, che abitava al settimo piano di quel palazzo lì, ha cambiato
vita improvvisamente. Sanno che da quando la signora che stava al sesto piano è
morta, prima che vi si trasferisse il giovane uomo coi baffi tagliati, tutto è
cambiato. Sanno che la morte di lei sta portando via anche lui.
Il romanzo, s’è detto, è ambientato nella piena attualità,
ai nostri giorni, ma non abbiamo difficoltà alcuna ad intuire che esso, come appena sopra ribadito e come ventilato in
apertura, ha però scaturigini remote e che ha a che fare col nostro uomo, con quel qualcosa che gli fece drasticamente
cambiare idea sulla propria vita: un
amore, la ragazza dolce cui tutte fanno un baffo, che ne segnò l’esistenza.
In
silenzio l’ha sorvegliata per quarant’anni. Doveva stare al suo fianco, pronto
se lei ne avesse avuto bisogno. Ha assistito al suo matrimonio, alla nascita
dei suoi figli, alla sua malattia; ha conosciuto i suoi salti di gioia, i pugni
sull’inferriata del balcone quand’era inviperita. Ma intanto la guardava e
sentiva che non ci fosse cosa più bella. Si arrabbiava se lei si arrabbiava, era
triste se lei lo era, sorrideva se lei sorrideva. Ha sofferto con lei, ha
pianto per lei, ha inventato qualche preghiera rivolto a un Dio cui non aveva
mai rivolto un pensiero prima. Ha osservato il suo volere: l’ha toccata da
lontano, solo col pensiero, l’ha seguita con lo sguardo. Quando lei aveva cominciato
a morire, anche lui ha cominciato a morire. E ora che lei è scomparsa, non c’è
modo di rimanere.
Senza ulteriori indugi, scivoliamo così verso l’epilogo. Epilogo
che verosimilmente, tutti noi che ci stavamo affezionando a quell’uomo, che
decisamente parteggiavamo per lui, immaginiamo; che temiamo. Epilogo, in un improbabile
giorno di pioggia di tarda primavera, che per quanto finora illustrato, si
profila, con nostro sommo rincrescimento, annunciato, tragico, ineludibile.
L’uomo
coi baffi più buffi del mondo accende la luce e poggia la sacca sul divano. Poi
torna con gli occhi sul divano. È vuoto. Controlla in cucina, controlla in
tutte le stanze, si agita, si scompiglia i capelli. Dopo aver guardato in tutti
i locali della casa, sul pianerottolo, prima che giunga all’ascensore, nota nei
balconi di fronte la vedova coi baffetti biondi, ma anche la studentessa dai
baffi tagliati bene, in pigiama insieme a sua madre. A tutti i piani c’è gente
affacciata e non è comune in quel palazzo lì. Altra gente è giù in cortile. La
pioggia cade. Sentono in lontananza una sirena. L’uomo coi baffi più buffi del
mondo e la donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili) scendono
in cortile. Scorgono un angolo di coperta marrone e là, al centro, il corpo
privo di vita dell’uomo dell’ascensore. Qualcuno decide di coprirgli il volto.
L’ambulanza arriva. La morte viene confermata. Lo portano
via sulla barella. La coperta rimane al centro del cortile.
E qui si compie la parabola terrena del nostro uomo; ma non
ancora può calare il sipario.
Giacché, come nella migliore tradizione epico-drammatica, l’eroe
non si è immolato invano!
Il suo sacrificio (termine al presente in auge, come pure è
in voga: a 360 gradi) ha ottenuto la sua (ancorché misera) mercede: come
travolti da un improvviso, furibondo tsunami, per la prima volta, i condomini
di quel palazzo lì hanno avuto un trasalimento, una (effimera) avvisaglia di
riscatto.
Tutti i
condomini si accorgono di non essere mai stati così vicini. Non ne hanno avuto
il tempo o non ne hanno sentito la necessità. Eppure abitano di fronte, sopra,
sotto, di fianco. Ma ognuno si tiene ben stretta la propria solitudine; quando non
avverte più la propria solitudine è perché si sente disturbato dai vicini, non
perché li senta vicini. E ora per la prima volta non avvertono gli altri come
disturbanti, sono lì tutti per la stessa ragione. Annusano il profumo dei
capelli di qualcuno, si accertano della statura di un altro, scoprono da vicino
uno sguardo timido che da lontano era sempre apparso diverso. Una memoria, che
passa per le viscere, comincia a farsi strada in ognuno di loro. Memoria della
vicinanza, del contatto. In quel momento hanno bisogno di essere in tanti, di
essere vicini, di guardare negli altri una reazione e consolarsi davanti a un
corpo inerme. L’uomo coi baffi tagliati male impugna per il collo una bottiglia
di amaro e dei bicchierini di plastica, lo offre a tutti e dice di mandarne giù
un goccio. La studentessa coi baffi tagliati bene va a prendere un vassoio con
i suoi biscotti.
Ma il cordoglio, si sa, il riacquisito senso di solidarietà,
il festival della prima volta (Qualcuno è lì dove sono anch’io; L’uomo
dell’ascensore ha cambiato radicalmente posizione; I condomini di quel palazzo si
accorgono di non essere mai stati così vicini) durano lo spazio di un baleno e
… Amen!
Lucia Grassiccia è al suo primo libro, del quale ovviamente abbiamo
percorso il solco principale, destinando a un lettore attento quant’altro,
parimenti stimolante, questo e-book può offrire.
Lei ha creduto in questo lavoro; nelle sue 247 facciate, ha profuso
ogni sua migliore energia e ha confezionato, puntando su due stati di
alterazione sempiterni nell’animo umano: l’amore e la solitudine, un esordio,
non convenzionale, a nostro avviso assai convincente, rivelatore, la lettura
del quale ci ha coinvolti. L’autentica vocazione, lo stile che con prepotenza oggi
si sono palesati, viepiù da assecondare, da consolidare, da perfezionare,
unitamente alla giovane età, fanno plausibilmente supporre che nuove
entusiasmanti prove potranno giungere.
E allora, buon lavoro e a presto rileggerla.
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