venerdì 28 dicembre 2012

Su Cavalcando Aquiloni di Elena Tarantino


Edizioni Il Papavero, 2012
recensione di Vincenzo D'Alessio

Con il titolo Cavalcando Aquiloni, la scrittrice Elena Tarantino ha racchiuso in  circa quarantacinque pagine due  intense storie personali di donne: simili a molte donne, diverse come tante donne.
Due storie che hanno come sfondo la società maschilista che stenta a lasciare spazio alla femminilità pura e semplice. Donne che vivono in contesti difficili dove non è possibile affermare serenamente i propri sentimenti senza scontrarsi con la violenza dei maschi. Difficoltà che le due protagoniste trasmettono alla Natura che le circonda, ai libri che leggono, ai libri che scrivono, ai silenziosi messaggi lasciati sui telefonini.
La parola, spesso rumorosa, è in questi due racconti brevi l’aquilone al quale confidare le ansie, le tristezze, le latenti necessità di libertà individuale spesso rinchiuse nell’ordito famigliare, nell’impellente difesa dei figli dalla società incapace di amare la purezza rappresentata dai piccoli e dagli scrittori. Anche la poesia compare accanto alle necessità delle protagoniste, una poesia che scardina le regole e sancisce la protezione a: “ladri di un sentimento non legale, ladri di una felicità che non era dovuta” (pag. 38).

Gli scenari delle vicende sono indefiniti: il mare d’inverno accoglie paure e sofferenze ma è anche il luogo profondo del riscatto, dell’ignoto, del nascondimento desiderato avulso dalla ferocia umana:  “meravigliosamente maestoso” (pag. 5). A tratti affiora, nelle pieghe delle protagoniste, la vicenda umana della scrittrice, i luoghi semplici legati alla civiltà contadina prima che l’industrializzazione degli anni Settanta piegasse al suo volere le energie dei giovani: “Ultima di sette figli di una famiglia modesta. La madre era contadina, gran lavoratrice, tirò su i figli tra stenti e fatica nella sua amata terra” (pag. 8).
I monologhi  delle protagoniste sono frequenti nelle pagine dei due racconti  quasi ad indicare una solitudine  ricorrente nella terra meridionale, dove le donne non hanno ancora spazi liberi per dialoghi e confronti paritetici. Molte volte compaiono metafore legate alla tristezza e alla solitudine forzata per scelte familiari e giovanili. La felicità è rincorsa, desiderata e quasi mai raggiunta: “Dillo Lara, di' cosa ti tormenta, dopo ti sentirai meglio, gridalo, confidalo al mare, urla la tua malinconia, tutto il dolore, fallo”  (pag. 10). E ancora: “Cosa vuol dire amare? Vuol dire soffrire” (pag. 42).

Sopra tutte le vicende delle protagoniste dei due racconti si affaccia la consapevole difficoltà dell’infanzia: “La colpa è delle favole che ci vengono raccontate da bambine. Il 'per sempre' non esiste, dobbiamo essere consapevoli di questo” (pag. 42). Sembra quasi un rimprovero che percorre le pagine dei due racconti nei confronti delle protagoniste e delle loro  difficili vicende.  La favola che dovrebbe rendere felici i bambini nell’età più bella diviene invece l’inganno della sofferenza rispetto al mondo degli adulti abituato a consumare ogni sentimento. L’impatto, con il mondo reale,  è traumatico e non sempre superabile  se non con l’aiuto della scrittura  e il ricorso alla memoria dei momenti felici.
Gli aquiloni, nella similitudine espressa dalla Tarantino, sono i sogni bellissimi della libertà piena, goduta fino in fondo, che dovrebbe fare invidia anche alla fine dell’esistenza: “C’è gente che muore senza aver mai conosciuto il vero amore, è questo il dramma di un’esistenza vuota” (pag. 41). I due racconti brevi che formano questa prova d’Autore, vedono le donne protagoniste, finalmente accedere alle loro scelte con la consapevolezza e la piena libertà delle conseguenze.

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