venerdì 2 novembre 2012

Intervista a Marco Fratta


di Miriam Mastrovito, pubblicata su Leggere è magia

 Marco Fratta  è nato a Torino nel 1987. Scrive romanzi, poesie, racconti e suona il basso elettrico. Ha pubblicato il romanzo La scatola nera (La Riflessione 2007) e la raccolta Il ronzio degli insonni – Poesie dal 2004 al 2008 (Lulu 2009). Il romanzo d’esordio è stato pubblicato anche in lingua francese in formato ebook (La Boîte Noire, Abelbooks 2012, traduzione a cura di Marie-Bernadette Giraud). Nel 2009, con la collaborazione degli attori Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico, ha creato il Marco Fratta Reading Project, forse il primo reading italiano su sottofondi di basso solo. Alcune parti dello show si possono trovare su Youtube e Vimeo. Da sempre appassionato di Rock Progressive, ha suonato con promettenti formazioni di rock d’avanguardia, ma ha anche collaborato con alcuni cantautori tra cui Mezzafemmina (al secolo Gianluca Conte). Per lui ha arrangiato e suonato le parti di basso del disco Storie a bassa audience prodotto da Gigi Giancursi & Perturbazione.


Benvenuto nel mio salottino letterario. Per cominciare, raccontaci qualcosa di te, chi è e perché scrive Marco Fratta?
Questa è sempre la domanda più difficile… provo a metterci dell’ironia. Immagina di camminare per le strade di Torino. Ad un tratto ti imbatti in un tipo con i vestiti scuri che somiglia a George Harrison (ma chi non conosce i Beatles dice Alan Sorrenti ai tempi di Non so che darei). È riservato, single convinto, cinico, vive da solo e ascolta gruppi misconosciuti degli anni settanta. Ha con sé un basso elettrico tutto rosso e un pacchetto di tabacco Old Holborn. Non possiede la televisione dal 2007 e l’auto dal 2009, due scelte che lo rendono una specie di alieno agli occhi della gente comune. Ama scrivere dall’età di sedici anni. Perché lo fa? Perché è innamorato delle parole, e l’amore è incapace di dare buone spiegazioni.

Parliamo del tuo ultimo romanzo, Il pittore di Parole. Com’è nata l’idea?
A marzo del 2012 ho sognato di cercare lavoro nella meravigliosa Göteborg. In un’atmosfera nebulosa e paradossale, tipica di tutti i miei sogni, il Museo delle Belle Arti mi assumeva per scrivere poesie guardando i quadri, con il vincolo di non poterli descrivere. Mi sono svegliato, erano le 03:57. Ho acceso una sigaretta, mi sono dato del folle da solo e ho iniziato a leggere Tre volte all’alba di Baricco. Non dimenticherò mai quella notte.
Esattamente due mesi dopo ho cominciato a scrivere Il pittore di parole, rielaborando la trama del sogno con qualche ingrediente in più.

È inevitabile notare alcune affinità tra te e Dario: entrambi poeti, entrambi innamorati della Svezia e della musica… quanto di te c’è nel tuo protagonista?
Sicuramente Dario Barbieri è una proiezione autobiografica. Ammetto di essermi divertito a dipingere Dario con le mie caratteristiche, alcune molto intime, servendomi però di un racconto di fantastia. Ho parlato del suo amore per i testi di Nick Drake, ho cercato di comunicare la sua passione per la Svezia con la narrazione delle emozioni. E poi ho specificato che non sa vendere se stesso in un mondo in cui l’arte nuda si piega alle esigenze dello spettacolo. Potrei definirlo come un fratello gemello tutto sporco di inchiostro, che vive tra le pagine più significative della mia produzione letteraria. In futuro lo abbandonerò scrivendo nuove storie, ma mi perdonerà: è buono d’animo.

Quale invece il tuo rapporto con Bernard?
Bernard è il migliore amico di Dario, nonostante abbia una personalità agli antipodi della sua. Si sono conosciuti ad una festa Erasmus, prendendosi a cazzotti per colpa di una donna: un evento che li aiuterà a diventare uomini con più consapevolezze, mettendo fuori pericolo il sentimento puro dell’amicizia. Nel romanzo Bernard si esprime in maniera gergale, tende a creare atmosfere di confidenza e rimprovera Dario per l’eccessiva timidezza, che da fuori non sembra temperamento ma paura. Da parte mia è stato emozionante creare un profilo con peculiarità rozze ma allo stesso tempo affettuose e protettive. Sono soddisfatto per il modo in cui ho inserito una buona sensibilità dentro un involucro di ironia e sfrontatezza. Sono esercizi di stile davvero utili.

Quello del poeta in Italia è un mestiere morto da un pezzo. È una constatazione di Dario che ci induce a riflettere su una realtà incontestabile. Nel nostro paese, la poesia sembra non avere più sbocchi, gli editori sono sempre più restii a pubblicarla, i lettori sempre meno propensi a leggerla. Quale la ragione dal tuo punto di vista?
Molti ritengono che il problema sia il numero eccessivo di poeti emergenti. Sostengono, quindi, che la poesia sia un linguaggio ormai inflazionato. Io non sono d’accordo, poiché potrebbero esistere dieci poeti come centomila e la mia curiosità di lettore non subirebbe trasformazioni. Secondo me è qui che si nasconde la risposta: manca la curiosità, la voglia di esplorare. L’intimismo non è più un elemento di interesse collettivo, e questo porta anche alla nascita di minuscole nicchie (sempre più chiuse) che di certo non aiutano l’emancipazione della poesia contemporanea. Nel romanzo infatti compare Tullio Serbelloni, giornalista di una piccola rivista di poesia. Ha la erre moscia e dice cose incomprensibili sottolineando che, comunque sia, i versi di Dario “non hanno nulla a che vedeve con la gvande tvadizione italiana”. Mi sono divertito a prendere un po’ in giro l’aspetto autoreferenziale degli intellettuali, poiché credo sia un’ulteriore causa della paralisi poetica. Per quanto riguarda gli editori restii, invece, chiamo in causa la matematica: niente vendite, allora niente edizioni. Non hanno sicuramente tutti i torti, anche se potrebbero lavorare molto meglio sulla pubblicità.

Uno spazio ideale in cui diverse forme artistiche, come pittura e poesia, possano incontrarsi e, in qualche modo, contaminarsi. Questa è l’idea vincente perseguita da Strandberg nel romanzo. E nella realtà? Potrebbe essere una buona strada da seguire per dare nuova linfa all’arte e risvegliare l’interesse del pubblico?
Potrò risponderti con più esattezza tra qualche mese, perché in questo periodo sto contattando pittori e illustratori per ripetere dal vivo l’esperienza di Dario. Ho intenzione di scrivere poesie davanti alle immagini, per poi organizzare esposizioni nei punti d’interesse artistico a Torino. Tuttavia credo che risvegliare l’interesse del grande pubblico sia una missione troppo difficile. Oggi la società ci bombarda di messaggi che stimolano al consumismo, ad evoluzioni che non hanno nulla di spirituale, all’inserimento in un contesto sociale improntato sull’immagine. Seicento euro per uno smartphone, che diventerà vecchio in pochi mesi lasciando solamente un’illusione di possesso, equivalgono a circa sessanta libri nuovi: alzi la mano chi ha il coraggio. Alzi la mano chi riesce ad innamorarsi di una poesia, che è immune all’ipnotica frenesia che la società ci propina e, fosse poco, ci lascia sognare senza l’aiuto di un display.

Dalle pagine del tuo libro emerge anche un grande amore per la Svezia. Quale il tuo legame con questa terra e cosa rappresenta per te?
Il mio amore per il Nord è nato quando ero ragazzino. Mi perdevo davanti alle illustrazioni dei fiordi norvegesi, dei paesaggi caratterizzati dall’aurora boreale o dai lunghi crepuscoli. In più ho sempre preferito il freddo al caldo. Crescendo la passione è maturata, unendosi a quella letteraria: la mia produzione poetica cresce a dismisura quando fuori dalla finestra ci sono nebbia, neve e tramonti pomeridiani. Inoltre adoro i luoghi selvaggi e incontaminati, amo le poesie di Tomas Tranströmer, apprezzo il contributo degli svedesi alla musica Rock Progressive (il mio genere preferito). A febbraio scorso, spinto da desideri migratori, ho iniziato a prendere lezioni di svedese. Non a caso tra i ringraziamenti del romanzo compare Elisabeth Leosson, la mia insegnante, per tutte le informazioni che mi ha dato.

Con Il pittore di parole hai vinto il concorso Faraexcelsior 2012. Cosa ha significato per te questo riconoscimento?
Vincere un concorso è sicuramente un’esperienza meravigliosa, una spinta motivazionale a non interrompere la propria produzione. I mezzi di un autore esordiente sono pochi, è necessario partire da questa tautologia per capire quanto possa essere preziosa una vittoria. Mi sono piaciuti moltissimo i commenti della giuria: opinioni sincere, articolate, estranee a qualsiasi parametro di vendibilità. Il mondo della letteratura ha urgentemente bisogno di atteggiamenti di questo tipo. Inoltre l’incontro con Alessandro Ramberti, il mio editore,  si è rivelato davvero costruttivo. Ritengo sia un professionista appassionato e per nulla venale, mi piace il rapporto che ha con il suo mestiere.

Il pittore di parole non rappresenta la tua prima esperienza editoriale. Precedentemente hai pubblicato una raccolta di poesie e un romanzo, La scatola nera, tradotto anche in lingua francese. Cosa puoi dirci a proposito della tua esperienza nel mondo editoriale? E del tuo approccio con il mercato estero? 
La scatola nera in italiano non è più disponibile a causa della pessima professionalità editoriale. In pratica la casa editrice ha smesso di stampare le copie molto prima di raggiungere il numero indicato sul contratto (la tendenza di molti editori piccoli, purtroppo, è quella di vendere le copie solamente all’autore). L’esperienza negativa, tuttavia, mi ha spinto a pubblicare con Lulu una raccolta di poesie, Il ronzio degli insonni. Ero desideroso di sperimentare l’autopubblicazione e sono molto contento di averlo fatto. L’edizione francese del romanzo, invece, è uscita per Abelbooks in formato ebook. La promozione è molto difficile, poiché non conosco il francese. Ho diffuso il booktrailer in un circuito di contatti mirati, dagli studenti in Erasmus ai viaggiatori assidui. Spero di ricevere presto buone notizie da parte della casa editrice.

Quale il tuo rapporto con la lettura? Ci sono degli autori a cui ti ispiri o che, in qualche misura, hanno influenzato la tua scrittura?
Amo quegli autori che, oltre a farsi apprezzare per le proprie opere, mi trasmettono un’enorme voglia di scrivere. In narrativa ci sono tre nomi che oggi hanno questo potere, e sono (in ordine alfabetico) Baricco, De Luca e Tabucchi. In poesia Hikmet, Merini, Prévert e Tranströmer. Sette artisti che custodiscono una delle mie maggiori ambizioni: emozionare, sì, ma suscitare anche la voglia di sperimentare lo stesso linguaggio. Sarebbe una grande soddisfazione sentirmi dire “ho finito di leggere il tuo romanzo e poi mi sono messo/a a scrivere”. Ma certe possibilità aumentano solo con l’incremento delle vendite, questo va detto. Finchè il romanzo resta in libreria si può condividere ben poco…

Cos’è il Marco Fratta reading Project? Ti va di parlarcene?
Da inguaribile introverso ho sempre detestato le presentazioni dei libri. Così, nella primavera del 2009, ho ricercato un diversivo che mi permettesse di promuovere le mie opere. A Torino in quel periodo giravano parecchi reading, per cui ho preso la palla al balzo. Ho contattato due attori (Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico) con cui ho confezionato quasi un’ora di spettacolo con letture su melodie di basso solo. Una cosa assolutamente nuova. Va detto che non avevo fatto i conti con una considerazione fondamentale: il mio reading non era comico ed ignorava completamente le regole dell’intrattenimento. Molti trovavano lo spettacolo poco fruibile o addirittura pesante.

In quale modo hai assimilato questi riscontri?
All’inizio male, molto male. Artisticamente sono entrato in un vortice depressivo che mi ha allontanato dalla scena per quasi due anni, non credevo più nel mio linguaggio letterario e musicale. Poi fortunatamente ne sono uscito. Adesso voglio una vita artistica ricca di sorrisi, belle esperienze, ottimi incontri, e soprattutto… kanelbulle. Voglio un mondo ricoperto di dolcini svedesi alla cannella.

Quanto è importante inseguire i propri sogni per sentirsi vivi? Quali i tuoi sogni nel cassetto e i tuoi progetti per il prossimo futuro?
Personalmente non riesco ad immaginare una vita senza sogni e senza attese. Ciò che ho imparato in quasi dieci anni di attività artistica è che i sogni non vanno difesi dalla sfortuna, ma dall’idealizzazione. Per farlo è necessario dimenticare le stronzate della televisione, le storie contraffatte dei nostri miti adolescenziali, le chimere che chiunque è disposto a venderci: siamo solo noi a poter scrivere la nostra narrazione. Nel romanzo vengono citati appositamente Nick Drake, Van Gogh e Stieg Larrson: tre artisti completamente diversi, vissuti in epoche diverse, che hanno in comune il fatto di essere stati apprezzati solo da morti. C’è da ringraziare che, nonostante l’assenza di popolarità, non abbiano mai abbandonato il desiderio di creare, altrimenti la nostra cultura sarebbe priva di esperimenti unici. Questa è la mentalità che mi accompagna ogni giorno: niente deve trascinare il mio operato in una dimensione di sfiducia, neanche quando una trilogia erotica di poca cosa scavalca le classifiche (ed è solo un esempio, poiché per demotivarsi ogni ingiustizia è buona). Il mio sogno nel cassetto, a questo proposito, è difendere tutti i miei sogni senza dimenticare che la speranza rende schiavi.


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