mercoledì 9 marzo 2011

Come oggi

di Marco Bottoni



Ci incontriamo lungo le scale, lei che scende, io che salgo.
Sono scale che lasciano lo spazio a poca vista, addossate al vano dell’ascensore, ogni sette scalini un pianerottolo per svoltare di novanta gradi (a sinistra, io che salgo, a destra lei che scende), due scalini faccio piano io che salgo, cinque scalini corre in fretta lei che scende, e la risposta alla domanda ciao, da dove vieni così bardata, dalle freddosità glaciali del Polo? si perde già dietro ad un angolo, lei scompare scivolando lungo il muro, dice qualcosa tipo “eh già”, o forse “proprio”, ma è una risposta che non vedo, si perde inesorabilmente in direzione del pianerottolo più basso nel tempo che raggiungo io il più alto, e nemmeno mi volto a cercare di recuperarne almeno un soffio, tanto lo so che è già scomparsa, perduta ai miei occhi, e quello che non vedo è quasi come non sentirlo, sono già andate via la voce e le parole insieme al giubbotto di piumino grigio, la sciarpa un po’ tirata su sul mento, i ricci che scappano via da sotto il berrettone di lana, le gambe snelle fasciate dai jeans, gli scarponcini neri.
Fugate.

Mi giravo sotto il lenzuolo, e sotto il lenzuolo, con me, c’era Patrizia.
Sono sicuro, era lei, l’ho riconosciuta subito dalla forma delle gambe, dalla forma e dalla lunghezza, lei è una di quelle ragazze non molto alte, con gambe corte e magre che vanno a terminare in due glutei esageratamente grossi, e non è solo questione di avere il bacino largo, quello è proprio un sedere che non ti aspetti in una così minuta di busto e di braccia e di tutto il resto, perciò non c’è dubbio che fosse lei, era lei davvero anche se era in un sogno, perché un sogno è comunque vero anche se nulla di ciò di cui è fatto è vero.
Era con me sotto il lenzuolo e io vedevo la sua pelle come se la stessi guardando da molto vicino, come se non ci fosse distanza tra me e lei, tra i miei occhi ed il suo corpo, indossava solo un paio di mutandine nere e il reggiseno, ma in quanto a questo, al fatto che indossasse un reggiseno, c’è da dire che si tratta di una considerazione “a posteriori” perché, in effetti, sotto il lenzuolo io vedevo solo le gambe, le cosce che andavano a finire in due glutei anche troppo grossi, coperti appena dalle mutandine nere alle quali ero talmente vicino da riuscire a notare i particolari minimi, la cucitura continua dei bordi elastici, la trama del tessuto morbido e setoso, la impuntura come di un fiocco, o di una piccola farfalla, su un gluteo.
Una considerazione che faccio adesso, mentre salgo le scale.

Il proiettile penetra nel torace da dietro, in un punto a metà fra la punta della scapola destra e la colonna vertebrale.
Colpisce il processo traverso della decima vertebra toracica deviando dalla sua traiettoria originale e dirigendosi verso il mediastino.

Dunque, c’è il sole.
È un sole pallido, a dire il vero, un sole che fa ancora fatica a sbucare del tutto fuori dalla nebbia, può darsi più tardi, verso metà mattina, chissà.
Sarebbe bello se, verso metà mattina, scoppiasse agli occhi un sole deciso, sarebbe come ricevere qualcosa in premio, come una specie di piccolo dono.
O di risarcimento.
Non è stato facile, stamattina.
Voglio dire, venire giù dal letto, scendere gli scalini uno alla volta, tenendomi aggrappato al corrimano per non cadere; ogni giorno mi è necessario percorrere un tratto un po’ più lungo per schiodare le caviglie dall’artrosi, ma non è tanto il male alle articolazioni, a mordere.
È il pensiero di dovermi radere la barba (la doccia, invece, mi piace) l’impatto con l’obbligo di scegliere la roba da mettere (tutto tranne le scarpe, che per questa stagione ne ho un paio solo), l’idea del freddo sottile che mi aspetta, fuori, e che si infilerà cattivo in un qualche spiraglio del mio essermi vestito di malavoglia, in fretta e senza troppa cura; questo pensiero e, più di tutto, un dolore acuto che, per quanto io faccia, mi porterò dietro per non so quanta parte di questa giornata: il male che mi fa avere lasciato il sogno di Patrizia dentro le lenzuola.
Il sogno non è reale, ma il dolore sì, e forse è anche per questo che non ho rifatto il letto.

Queste si che sono rose, non quelle del mese scorso.
Stanno da tre giorni dentro il vaso, sul tavolo in sala, e ancora non accennano a sfiorire, a “fare capolino”, come dice Lei.
Come ha detto delle rose del mese scorso, e di quelle del mese prima ancora, che quasi subito hanno piegato la testa perdendo ogni tono e ogni vigore, facendo talmente brutta vista di sé, da obbligarci a gettarle.
Ci ha pensato Lei, tornato a casa per cena ho trovato il vaso malinconicamente vuoto.
Nessuna pietà, davanti alla mancanza di bellezza.

Le case e i palazzi erano tutti grigi e uno dietro l’altro, disposti in doppia fila ai margini di strade lunghe e rettilinee, una lunghissima ininterrotta doppia fila di costruzioni grigie dal Colosseo fino al Pincio, perché Roma è una città disposta da Nord a Sud, o almeno così appare nel sogno, e quel che appare appare come vero, perché il sogno, come sogno, è vero, anche se è rigidamente e fellinianamente un film in bianco e nero.

Deviato nella sua traiettoria dall’impatto con il processo traverso della decima vertebra toracica, il proiettile attraversa il mediastino lacerando l’aorta nel suo tratto discendente, circa nove centimetri al di sotto dell’arco.

C’è musica.
C’è musica nel pensare, nel rivedere, come dentro una moviola, i sogni, nel respirare il freddo della nebbia, chissà se viene fuori il sole, più tardi.
C’è musica nel fare i quattro passi che mi portano dall’altra parte della strada, dove c’è il bar con dentro il mio caffè.
La strada è stretta, il paese è piccolo, non bisogna nemmeno fare attenzione a traversare, a quest ora di mattino non passa quasi mai nessuno, la gente non va in giro in macchina, a quest ora, al massimo, la gente mormora, ma non per strada.
Casomai, dentro al bar.
Un alibi, questo mi ci vuole, un alibi.
No, non una prova a mio discarico, non ho mica ammazzato nessuno, almeno non ancora; piuttosto un “altro dove”, una dimensione che non coincida con questa nella quale io possa abitare, all’interno della quale muovermi, vivere, esistere.
Ma dove trovarlo? Qui non c’è, è inutile cercarlo, troppo stretta questa strada, troppo piccolo il paese, chissà in una grande città come Milano, quanti “alibi” ci sono, chissà nell’esistenza di persone più grandi e più ricche, più dotate di spessore di quanto non lo sia io, quanti “altri dove” si propongono alla scelta, rifugi temporanei o destinazioni definitive, in ogni caso un altrove che è la conseguenza obbligata di decisioni ultime e irrevocabili.
Comunque sia, la strada è troppo stretta, ed il paese è piccolo, a quest’ora del mattino non c’è in giro nessuno, hai voglia vedere passare una automobile.
Che poi, vanno comunque tutti piano.

Chissà perché, nel sogno, la città di Roma era disposta così per il lungo, tante file di case e palazzi e costruzioni allineati da Nord a Sud, dal Colosseo fino al Pincio, una città così grande disposta su tre quattro strade, lunghe e diritte come schioppettate.
Una città si sviluppa attorno a un centro, e pertanto assume, in pianta, una forma vagamente rotonda; più è grande più i suoi confini esterni richiamano una circonferenza, tanto è vero che si dice la “cerchia delle mura”, “l’anello esterno”, il “perimetro della periferia”.
Una grande città è circolare, la Roma che ho sognato io, no.
Deve esserci un motivo.

Lacerando l’aorta nel suo tratto toracico il proiettile provoca una emorragia massiva che si riversa nel mediastino, allagandolo in toto; esaurisce la sua corsa conficcandosi nello sterno, all’altezza del suo terzo inferiore.

Dietro il sipario chiuso le ballerine sono tre. Sono ballerine vere come le ballerine di Degàs, una si piega addirittura ad allacciarsi il nastro della scarpetta sulla caviglia, tiene una gamba tesa e la ruota del tutù bianco le lascia completamente scoperti i glutei, fasciati dal pesante collant di cotone bianco. L’altra gamba è leggermente piegata, il piede completamente esteso, appoggiato sulla punta.
E mi pare giusto: se no, che ballerina è?
Il sipario di velluto rosso è pesantissimo, la stoffa si curva in profonde pieghe scure, giusto davanti alle ballerine che sembrano sospese sopra il tavolato del palcoscenico, ripiegate e avvolte su loro stesse in posizioni plastiche, eleganti, né danzanti né immobili: piuttosto, in attesa.
Non può durare in eterno questa attesa, il sipario deve aprirsi, prima o poi.

A quest'ora del mattino vanno tutti piano, tutti tranne questo che mi sfreccia davanti velocissimo su una specie di carroarmato, uno di quei baracconi su quattro ruote che, inspiegabilmente, la gente compra al prezzo di automobili di gran pregio.
Mi passa a pochi centimetri dai piedi, stamattina c’è il sole ma fino a ieri ha piovuto insistentemente, la pozzanghera che ho accuratamente evitato mentre traversavo la strada me la rovescia addosso il rotolare di uno pneumatico che è più largo di quello di un autotreno, chissà dove va così di fretta.

Quando ero bambino in estate, al mare, sulla spiaggia si giocava alla “polenta”.
Si creava un cumulo di sabbia, una specie di piccola montagnola in cima alla quale piantavamo un bastoncino, un pezzetto di ramo, lo stecchino in legno di un ghiacciolo.
Il gioco consisteva nel togliere uno dopo l’altro, a turno, un po’ di sabbia dalla montagnola con un movimento cauto della mano, fino a quando il bastoncino, privato del suo sostegno, cadeva.
Chi faceva cadere lo stecchino doveva pagare pegno, e mi ricordo che se all’inizio del gioco tutti portavano via grosse manate di sabbia, dopo i primi turni si andava molto cauti, ognuno ne toglieva la minore quantità possibile, nessuno aveva fretta di rimanere con il bastoncino in mano.
Per lunghissimi anni mi sono chiesto cosa mai ci trovassimo di tanto divertente nel gioco della “polenta” e solo oggi capisco che dentro quell’alternarsi apparentemente stupido di rapidi gesti di bambini c’erano scritte un sacco di verità importanti.
Che nessuno, ai primi turni, fa molto caso alla quantità di sabbia che toglie e tutti fanno gli spavaldi quanto la “montagna” è ancora bella grossa; che la sabbia che togli sperando che il bastoncino cada al momento della mossa dell’avversario è la stessa che, quando verrà di nuovo il tuo turno, mancherà al bastoncino per sostenersi e non cadere in mano a te; che, quando arrivi verso la fine, hai un bel cercare di togliere la minore quantità di sabbia possibile, qualche granello lo devi comunque portare via, e non sei mai sicuro che resti sabbia a sufficienza per evitare il peggio.
C’è scritto, soprattutto, che il bastoncino, presto o tardi, in ogni modo cadrà, perché è appunto quello il fine del gioco: arrivare a vedere il bastoncino cadere.
Il fine e, anche, la fine.

Chissà dove va, così di fretta.
Probabilmente in un luogo dal quale poi si sposterà per raggiungerne uno diverso, un posto che, a sua volta, abbandonerà ben presto diretto da un’altra parte ancora, e così via, nel tempo, fino al momento in cui si troverà a passare di nuovo per di qui, perché è di qui che dovrà necessariamente passare di nuovo prima o poi, nel tempo.
Se non gli cade prima a terra il bastoncino.

Salgo le scale, i pantaloni bagnati e infangati dagli schizzi d’acqua della pozzanghera, altro che risarcimento.
Salgo, un po’ a fatica e adagio, uno scalino dopo l’altro mentre lei li scende, e a pesarmi non è tanto il fatto che lei scompaia in fretta lungo il muro, lei e le sue parole dette di corsa scendendo gli scalini e scappate via dalla mia vista.
È che mi trascino addosso tutto quanto: il dispiacere di avere dovuto lasciare Patrizia dentro il sogno dentro il letto, il male alle caviglie, la nebbia e le rose, il caffè, il mormorare della gente dentro il bar, il peso insopportabile del sipario di velluto rosso e la scarpetta a punta della ballerina, la barba, i palazzi di Roma, il pensiero della sabbia che cade giù dalla montagnola ad ogni movimento rapido o cauto della mano e il ricordo dello stecchino che cade.
E, anche, il proiettile.

Già, il proiettile.
Questa storia del proiettile rischia di essere considerata una cazzata, almeno così per come è: scritta oggi e letta oggi.
Magari, non lo è.
Mentre salgo l’ultimo scalino sono già andate via la voce e le parole insieme al giubbotto di piumino grigio, la sciarpa tirata su sul mento, i ricci, le gambe fasciate nei jeans, gli scarponcini neri, e magari questa storia del proiettile va a finire che è come uno di quei sassi con arrotolato sopra un foglio di carta spessa sul quale si è scarabocchiato un messaggio, e il sasso viene lanciato lontanissimo, nello spazio e nel tempo, a colpire e mandare in frantumi il vetro della finestra di una casa che, come oggi, non è ancora stata costruita e, pertanto, non esiste.

Almeno, come oggi.

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