giovedì 25 marzo 2010

La responsabilità della parola


intervento di Carlo Penati al convegno faentino Scrittura e impegno



La parola ci impegna. Nel momento in cui sgorga e si ordina nella composizione del testo ne siamo responsabili. Essa nasce dalla conversazione tra il sé e la storicità in cui siamo immersi con la nostra progettualità, con la nostra ricerca di un posto nel mondo. La poesia è “poietica”, quindi è politica. Eppure la parola è una caduta dell’intenzione che le dà forma, perché non riesce a rappresentare compiutamente il senso o il fiume emotivo che l’hanno generata, è relazione responsabile di cui l’impegno è parte fondante. Per quanto ci si voglia sottrarre, attraverso la parola scritta si resta, consapevolmente o meno, implicati.
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“Come ripeteva Heidegger, la nostra eredità ontologica è il domandare”. Ce lo ricorda George Steiner individuando, in questa radice originaria, un tratto comune e distintivo della cultura europea[1]. Questa competenza – il domandare – se è propria del nostro genoma di cittadini europei, ci pone inevitabilmente nel cuore della ricerca e dell’indagine. Ci rende necessariamente scettici, nel senso etimologico del termine: da skepsis, termine greco che significa “indagare”.
Lo scetticismo della poesia è la condizione dell’impegno: inevitabile la ricerca, inevitabile l’impegno. Ricerca della felicità, se felicità è – come direbbe Salvatore Natoli – trovare il proprio posto nel mondo, il proprio modo di essere, la propria identità.
La poesia  è la forma espressiva che più di ogni altra scherza con l’inconscio, che spiazza, come il sogno, le strutture escludenti del nostro pensiero.

Forse il sonno dà più conoscenza
col sogno
di intere pigne di pagine sapienti [2]

La scrittura, non solo poetica, parla dello scrivente, eleva – come in un bassorilievo - la conoscenza di sé nella relazione, nelle infinite relazioni con il mondo. La scaturigine del verso che affonda nel ventre molle dell’io profondo ne tratteggia - forma pura, innocente nella sua scrittura, o corrotta dai filtri degli apparati valoriali - i moti. La poesia, parlata dall’inconscio, divora in poche lettere composte intenzioni agoniche e tradimenti della volontà.
La poesia si com-pone, mette insieme frammenti del sé in dia-logo, attraverso la parola appunto, con il cosmo. Col dialogo (“attraverso il logos”, che sta al principio di ogni cosa/evento/emozione, perché le cose /eventi/emozioni trovano esistenza e dimora presso di noi quando viene loro dato un nome) si possono ridurre le distanze, intessere relazioni, ri-creare continuamente vita; mentre il dia-ballo (“ciò che disunisce”, “mette male tra due”, “induce in errore”, “contrappone”, e quindi il divisore, il diavolo) riduce gli spazi di comunità, di reciprocità, di fiducia.
Il significante prossimo alla nostra identità ci rivela, pur nel gioco del comporre e ricomporre il composto, l’intenzione più autentica, più vicina all’essente – direbbe ancora Heidegger –, al nostro modo di abitare il mondo.
In questa funzione epifanica la scrittura ci appalesa. Sia che il verso sgorghi pura forma dell’io profondo, sia che il cesello del poeta lo conformi e modelli a un’intenzione artefatta, la scrittura inevitabilmente parla di noi e delle infinite – direbbe Bateson - “danze delle relazioni” di cui siamo al contempo musica e corpo di ballo.
Per questo la poesia ci impegna. Ci obbliga a portare a buon fine il pegno (dal latino pignus da pingere = disegnare), cioè il segno che vogliamo lasciare di noi.
La poesia, non appena verga la carta o traccia lo schermo, ci “disegna”, rivela il nostro profilo, la nostra impronta, il segno di noi e quella identità celata che solo nel dialogo si delinea più nitidamente. Ed è nella relazione, di cui la scrittura è figlia, che si fondano la responsabilità e la morale.
Riandando al nostro inevitabile “domandare”, il poeta impegnato è dato in pegno alla politica e alla società?
Qui non c’è da scegliere, siamo nella polis e nelle sue regole, foss’anche per frangerle e nella ricerca –dialogica –è ancora necessario ritrovare il luogo (o i luoghi) del poeta, seguendo l’ispirazione del filosofo Paolo Rella[3]:

fuori dalla città i poeti,
menzogneri che traviano dal vero!
l’essenza delle forme persa
nella paralisi dell’anima
ecco la ragione s’impone
sull’antico dissidio di poesia e filosofia
la poesia irresponsabile della verità
inganno di versi affascinanti
distoglie la mente dall’oggetto
diaforà di strade antagoniste
innamorato che si stacca
nel sacrificio della poesia bruciata
dalla tragedia dell’amore
vinto l’agone col Simposio
ma resta il vuoto della rappresentazione
che Benjamin richiama con Cartesio
nel gioco del rimando
tra ciò che vedo e la sua specie

m’inoltrerò con coraggio nella culla delle parole
a catturare lo stupore del sogno
e immergerlo nel logico rigore
dell’ermeneutica più pura

custode dell’inesprimibile
attizzi il fuoco degli spiriti
che frantuma nell’orrore ogni forma
prima che la parola sapiente ricomponga
nell’unità di senso
l’incomposto sgranarsi di sostanza
nell’onirico volgersi dell’estasi

la singolarità confina ai margini della città
ma la tragedia accomuna
chi pensa e chi poeta
in un identico coro della vita

il poeta è vincolato all’ombra
nel gorgo di bene-male indistinti
nell’indecisione che gli spetta
è la metafisica il campo dell’incontro?
la contraddizione sfuma nella coesistenza del diverso?
l’apparenza è il volto noto dell’ombra
dove l’indicibile alligna
e viene a volte in superficie
nella stentata trama dei ritmi di parole
attrito surreale del senso sulla carne
della realtà sullo spazio estetico
pensiero-sentimento
la polis riaccolga con gioia
chiunque ci doni conoscenza

La parola che scaturisce già impegna quindi prima ancora di diventare impegno voluto nei contenuti cantati.
La parola è crea e ricrea, nel suo impeto, il rapporto con il mondo non più oggettivizzato e quindi antagonista dell’uomo e della donna. L’impetus – rimarcava Seneca – spinge a volere[4].
 “I senzapatria che intende Nietzsche, - ci svela Hediegger - sono coloro che vogliono, i volenti nelsenso della volontà di potenza, coloro ai quali, nella pienezza di luce del meriggio più chiaro,appare l’essenza del loro stesso volerein  cui vogliono e attraverso cui hanno acquistato dimestichezza, e per i quali perisce ogni nostalgia e struggimento.”[5]
E oggi? La libertà espressiva – l’ ”arcana libertà” che Aleksandr Blok già additata vel 1921 commemorando Puskin – è oggi cifra dell’impegno civile; lo spaziare liberamente e creativamente, il rendere nuove le cose, le abitudini, i fenomeni personali e sociali,c con il mosaico delle parole, delle metafore, dei simboli, dei significati, col reinventare le parole stesse, innovare il linguaggio.
“L’avvelenare i pozzi”, compito attribuito da Franco Fortini ai poeti impegnati ci porta a immergerci, pacificamente, nei labirinti sociali, a scardinare gli equilibri, a scandagliare, inventare, sovvertire gli ordini, additare senso, vincere ogni paura, ricordare che anche questo è il tempo opportuno e, come diceva Aristotele, ciò che accade nel momento opportuno è buono.


[1] G. Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, Milano, 2006, p. 42.
[2] C. Penati, Vorrei imprimere un vuoto nell’aria, Fara Editore, 2008
[3] C. Penati, Controcanto di giornata, in “Carte nel vento”,  n. 11, 2010, rivista on line Anterem edizioni
[4] Giunio Ruzelli, Dinamiche passionali e responsabilità, p.247
[5] Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2009, p. 103

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