recensione di Oreste Bonvicini
Racconti narrati due volte. Questa la sensazione colta durante una rilettura de Il primato della pietà. Due volte e non per parafrasare il narratore americano Hawthorne, benché l’inevitabile parallelo che porta ai quei racconti mi abbia consentito di cogliere questo aspetto recondito nelle pagine di Nino Di Paolo. Due volte insomma, in quanto alla prima parte chiaramente autobiografica, segue una seconda che sposa la cronaca quotidiana del cinquantennio in cui ci è stato dato vivere. E tanto mette in risalto l’autore in questi racconti più apertamente volti all’osservazione della realtà. E nell’osservare e trarne auspicio c’è la rabbia di chi si sente parte di una maggioranza impotente eppure parte di una società che ha scelto di gestire la cosa pubblica come strumento di tornaconto per pochi, generando disparità su disparità, a dispetto di un Novecento che, almeno in Europa, ha chiuso l’epoca delle ideologie e dei regimi autoritari che da esse inevitabilmente conseguirono. Ma qualcosa ancora qui non va, con il passato che ha lasciato impronte dei suoi errori nell’anima delle attuali generazioni, come un vento irriducibile, che se muta direzione, s’inforra, squassa le cime degli alberi, al contrario mai si cheta.
In realtà quando si chiude la copertina di questo moderno “ciclo dei vinti” eppure mai domi, ci domandiamo come e perché sia già concluso, mentre guardando oltre i vetri il mondo cammina, senza soluzione di continuità e la realtà supera ogni fantasia, e le parole divengono specchio del dolore che invade l’anima ed il cuore. Consola solo la speranza ovvero la fede, per domani o domani l’altro, quando la pietà e l’amore dovranno trionfare.
I racconti della seconda parte svelano inoltre la volontà dell’autore di guardare al mondo benché già evidente appaia la disillusione nei nostri giovani. Disillusi, talvolta depressi, sconfitti prima ancora di ingaggiare battaglia, ora dibattono temi importanti, ora fanno spallucce e via, vanno lontano da tutto e da tutti. E non sarà l’effetto recente dei media a dire quanti e per quanto ancora i nostri giovani, spesso i migliori, lasciano e lasceranno il paese non solo per studiare, ma anche per lavorare e credere ancora nel domani. E in una società organizzata secondo schemi di reciproco rispetto.
Ammesso ma non dimostrato che non esista verità obiettiva, i racconti di Nino Di Paolo hanno in corpo sangue e rabbia. Perché siamo figli di un tempo che nutriva idee ed ambizioni presto mitigate. Ed oggi, nel rischio sempre più concreto che la scienza e la tecnologia siano succedanei alla negatività delle ideologie tramontate di cui abbiamo già detto, rischiamo di banalizzare il pensiero travolgendo le istanze recenti del nostro cammino, volte a discernere una verità plausibile per acquisire la conoscenza.
Ci scopriamo insomma dinanzi a mille verità scomode che generate dalla società in rotta con se stessa, si svela immersa in un mondo capovolto, mentre prosegue la marcia nelle tenebre appena attenuate da rari bagliori di consapevolezza eppure accerchiata da quell’ignoranza che si identifica come fonte di errore, di non conoscenza svelando l’irrazionale sensazione di un disegno del maligno annodato tra le pieghe del mondo. E se da qualche parte si leva ancora solenne la voce che invoca la fede, nel puro segno del credo e della pietà, ci scopriamo spesso incapaci di alzare la testa verso il Golgota di pietre e sabbia.
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