PARLANDO CON CRISTO. Mi sentivo scrutata da quello sguardo indagatore che faceva affiorare la mia interiorità quando incontrai Cristo e mi sentivo isolata dal mondo, una persona diversa, a parte, difficile da comprendere e complessa da determinare. Le sue parole mi scavavano dentro ed erano la mia vita ed erano come un abisso che mi scuoteva dentro creando in me forti tensioni e vibranti contraddizioni come quelle di Pietro che venne definito da Cristo come Cefa, una pietra su cui costruire e mi domandavo se potessi essere anche io quella pietra miliare. Sono Ungaretti Giuseppe un poeta che ha voluto far vivere nel poema il sentimento del tempo ricostruendo forme particolari di sintassi, di metrica e di immagini per costruzioni sempre più complesse ed ardite fino ai limiti sfiorati di un barocco arzigogolato. Quelle regole singole che si liberano proprio quando il lessico tende a perdere la sua essenzialità, per elaborare versi che innalzano l'anima fino al podio maggiore. Questo incontro con l'arte poetica porta ad una inevitabile trasformazione stilistica ed oggettiva che si accompagna a contenuti concettualmente difficili come riflessioni sul tempo che scorre e sulla morte, temi religiosi che prendono il posto di sensazioni concrete, degli atomi di cui noi siamo gli elettroni che girano con le nostre strampalate emozioni attorno al nucleo che crea in noi conflitti come quelli di scontrarci con una realtà convenzionale, un modo di vivere abitudinario e più che altro banale di una portinaia, di un passante qualsiasi indifferente anche davanti alla morte più cruda, di uomini crudeli e senza anima e scrupoli che condannano ed uccidono un innocente presi dalla loro stessa follia. La poesia colma di straziante tenerezza davanti a quel Pietro perduto e incosciente, davanti ai dubbi sulla sua manifestazione d'amore e di amicizia, di quel speciale legame che determinava la sua esistenza e che diviene un richiamo a guardare in faccia alla rinnegazione, all'abbandono proprio mentre c'è una criticità, un pericolo, una offesa e una violenza, di fuggire, di scappare di fronte alla morte perché non si è mai pronti a superarla, ad affrontarla, a combattere non tanto con la spada che ferisce e infligge la vendetta, ma piuttosto con il dialogo, con la comprensione, con l'ascolto. Trasformare con un rigolo, una espressione per farla divenire passione di corpo e di sangue che si offre e si immola, che resta sospeso a braccia aperte in quell'amore che unicamente sa tutto sopportare, comprendere, sperare ed includere. Un corpo ed un sangue che si lascia mangiare e bere da un pane ed un vino in una coppa, dal nostro stesso essere, dalla nostra stessa anima dove noi abbiamo un posto speciale: protagonisti del sogno di un Re dei Re che si chiama Salvezza. Sono Giuseppe Ungaretti nella sua fase di meditazione e nella sua più bella accezione, basata sul rilievo di un volto in un sudario che si imprime nel nostro cuore ed andivenire, ora, adesso alla continua ricerca di nuove possibilità e misure con l'adozione di strumenti collaudati dall'esperienza della lirica. Sono Giuseppe Ungaretti che guarda alla storia degli uomini con malinconia ed il distacco della maturità e dell'ironica saggezza fra l'ermetismo e il fervore e le durevoli suggestioni fino allo sperimentalismo che raccoglie scomposizioni e ricomposizioni ritmiche di quel crocifisso dolore e sofferenza che poi risorge dietro la pesante pietra di un sepolcro, di quei sepolcri dove si nasconde l'amor perduto e vinto, l'amor di speme e desio, l'amor che son io, l'amor che divieni anche tu per un verso: quello che vince tutto con il suo manto a coprirci nella nostra povera e cruda nudità.
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