Racconta una storia Zen che un monaco, il quale cominciava a dubitare dell’esistenza materiale delle cose, fu convinto del contrario dal suo maestro spirituale che, per dissuaderlo, lo colpì con forza sulla testa con la propria pipa di bambù. Il discepolo si arrabbiò, però intuì subito sia che gli oggetti possiedono peso e consistenza sia che le azioni ottengono effetti immediatamente percepibili, certe volte dolorosi.
Dokuon, l’insegnante Zen, avrebbe potuto chiamarsi Edward Moore, il filosofo inglese leader della corrente chiamata del senso comune. Ai sostenitori di un idealismo radicale, Moore infatti obiettava che spettava a loro l’onere della dimostrazione, e che comunque esisteva una prova semplice, sicura ed inconfutabile, circa l’esistenza del mondo esterno che ciascun individuo poteva comodamente verificare. Bastava appunto alzare la propria mano e dire «Ecco qui una mano», poi sollevare l’altra aggiungendo «E ecco qui un’altra mano».
Lo stesso Borges, affascinato dalla filosofia di Berkeley secondo cui il mondo è un atto mentale frutto della nostra immaginazione e del nostro pensiero, in un testo suggestivo ed erudito, intitolato Nuova confutazione del tempo, deve infine arrendersi all’evidenza irreversibile e drammatica del tempo e della morte: «Il mondo», ammette, «disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges».
Pochissimi pensatori mettono davvero in discussione la sussistenza di una realtà fisica e materiale: non Platone, che la svilisce a copia imperfetta e sbiadita delle idee che la modellano; né Schopenhauer, secondo cui l’uomo “non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra”, non il sole e la terra come essenzialmente sono.
La realtà possiede diversi livelli e gradi, i più profondi di questi vanno indagati con metodi più sottili rispetto a quelli che, con tanta spontaneità e immediatezza, il senso comune offre e mette a disposizione. Il tavolo che vediamo, tocchiamo e usiamo quotidianamente, senza prestargli particolare attenzione, non è, ricorda Bertrand Russel, quello che appare e sembra, essendo in verità composto da un insieme di cariche elettriche in movimento. Le teorie dei quanti e della relatività ci hanno quasi abituati a soluzioni paradossali, argomenti ostici, concetti impossibili e dimensioni intellettuali sconcertanti; l’illimitatamente grande e l’infinitamente piccolo ci spingono al di là delle nostre capacità logiche e riflessive. Chiarisce Heisenberg in Fisica e filosofia che gli atomi e le particelle «formano un mondo di possibilità e di potenzialità piuttosto che un mondo di cose e fatti».
Nella sua Autobiografia scientifica Albert Einstein scrive: «Fuori c’era questo enorme mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che ci sta di fronte come un grande, eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero. La contemplazione di questo mondo mi attirò come una liberazione». La sostanza delle cose (ciò che sta sotto e le sostiene) e la loro essenza (ciò che resiste al trascorrere del tempo e al mutare delle apparenze) sono solo in minima, infinitesima parte esplorabili e conoscibili. Sulla sostanza ultima si possono azzardare ipotesi e congetture; la conoscenza sfida i propri confini, si scontra con i propri limiti e continuamente prende consapevolezza della propria ignoranza. Per alcune filosofie orientali l’essenza non può essere pensata dall’intelletto, è perenne, incontenibile flusso impossibile da irretire e imprigionare con rigide categorie mentali; se ci proviamo rischiamo di fare la fine di questo millepiedi: «Il millepiedi era felice, tranquillo; / Finché un rospo non disse per scherzo: / “In che ordine procedono le tue zampe?” / Questo arrovellò a tal punto la sua mente, / Che il millepiedi giacque perplesso in un fossato, / Riflettendo su come muoversi». La conoscenza è soprattutto coscienza della propria inadeguatezza, della propria incapacità a comprendere pienamente. Non esiste un soggetto che conosce (l’uomo) e un oggetto conosciuto (il mondo), la separazione non è così netta e distinta, perché l’uomo come essere biologico, compresa la sua mente, fa parte di quel mondo, ne è condizionato. Mette in guardia Konrad Lorenz: «Ancora oggi il realista guarda solo verso la realtà esteriore senza rendersi conto di esserne lo specchio. Ancora oggi l’idealista guarda solo nello specchio voltando le spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamento conoscitivo di ambedue impedisce loro di vedere come lo specchio ha un rovescio, una faccia non riflettente, che lo pone sullo stesso piano degli elementi reali che esso riflette. L’apparato fisiologico, la cui prestazione consiste nel conoscere il mondo reale, non è meno reale di quel mondo stesso». Ribadiscono il concetto sia Edgar Morin sia Carlo Rovelli. Dice il primo: «Ogni conoscenza, qualunque essa sia, presuppone una mente conoscente le cui possibilità e i cui limiti sono quelli del cervello umano, e il cui substrato logico, linguistico, informazionale proviene da una cultura»; e il secondo ribadisce: «Noi, esseri umani, siamo prima di tutto il soggetto che osserva questo mondo, gli autori, collettivamente, di questa fotografia della realtà… Ma del mondo che vediamo siamo anche parte integrante, non siamo osservatori esterni… La nostra prospettiva su di esso è dall’interno».
Di continuo tuttavia cerchiamo spiegazioni, ragioni, motivi, che permettano di comprendere, capire ed afferrare il senso delle cose e dei fatti, la loro sostanza più segreta. Non siamo mai sazi, consideriamo ogni scoperta una parziale sconfitta, ogni balzo in avanti un passo indietro rispetto al successivo. C’è sempre qualcosa che ci sfugge e che dobbiamo e vogliamo rincorrere; però alla fine ci dobbiamo accontentare di squarci di verità che come farmaci leniscono momentaneamente la nostra ansia di conoscenza: i nostri occhi sono cannocchiali puntati sul buio. Un passo più in là rispetto al nostro naso si estende un territorio misterioso e sterminato, un infinito enorme labirinto inconoscibile che provoca smarrimento e scoraggiamento, ansia e tensione. La lingua dell’universo, ci assicura confortandoci Galileo, si esprime in caratteri matematici e forme geometriche: «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo)… Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Newton (che nasce lo stesso anno in cui Galileo muore, nel 1642) modera alquanto convinzioni ed entusiasmo: «Sembra che io abbia scoperto qualcosa, perlomeno la gente lo crede. Ma io stesso mi sento come un bambino che giocando in riva al mare si rallegra di trovare una conchiglia qua e là, mentre di fronte si estende il mare, immenso, sconosciuto, inosservato».
Aspiriamo a conoscere il mondo in tutta la sua estensione e profondità; subiamo brucianti insuccessi e tuttavia non demordiamo. Ogni ostacolo è uno scoglio da superare, ogni meta una tappa per un traguardo successivo. Basta un piccolo risultato ed eccoci già pronti a ripartire, alla ricerca del segreto delle cose e del nostro destino. Jaques Monod rammenta che «Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza». Ci sono dei momenti, degli istanti in cui proviamo la sensazione di essere vicini alla verità: una intuizione come un lampo, una visione magica di qualcosa di più profondo e di più nascosto. Come i bagliori delle lucciole rimandano a una luce primigenia da cui sembrano originare, così le nostre illuminazioni passeggere sembrano per un attimo collegarsi a una verità più ampia e universale. Cerchiamo di afferrare quelle intuizioni e trattenerle, ma di solito riottose sbiadiscono come al risveglio certi sogni che durante la notte ci erano apparsi incredibilmente nitidi.
La poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, apprezza due paroline intinte nel dubbio, brevi ma con le ali, che vanno ripetute come un mantra: «non so». Esiste una inquieta dialettica, anzi una forte tensione, fra l’ansia di conoscere e la nostra ignoranza: vogliamo ampliare i nostri orizzonti, compiere passi in avanti verso un’essenza, una causa prima e ultima che perennemente ci sfugge e che però aspiriamo a raggiungere illuminando il buio che inesorabile frena e fiacca i nostri sforzi. I più tenaci di noi sono dei Sisifo condannati alla pena dello smacco, alla condanna riservata ai ribelli, ma sono anche umili portatori di una luce che accende e brucia l’esistenza e flebilmente rischiara, come una modesta fiammella, il mondo che li circonda. «La nostra conoscenza può solo essere finita», scrive Karl Popper, «mentre la nostra ignoranza deve necessariamente essere infinita», e ancora, «La tensione fra la nostra conoscenza e la nostra ignoranza è decisiva per l’accrescimento della conoscenza». Chi crede che l’uomo sia un’invenzione dell’universo per conoscersi, rischia di commettere peccati di vanità e di superbia; nel suo processo conoscitivo l’uomo scopre e apprende principalmente i propri limiti, di essere una parte infinitesima e marginale di un cosmo che immensamente lo sovrasta
Pascal ha scolpito un pensiero definitivo e memorabile: «Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui inevitabilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace di intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte. Che farà dunque se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un’eterna disperazione di conoscere il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e vanno fino all’infinito».
L’immensità ci sgomenta e annichilisce ma, afferma Ungaretti, contemporaneamente ci infiamma ed esalta (“M’illumino / d’immenso”). La Szymborska, nel Discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel, afferma: «Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali…, qualunque cosa noi pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata da due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente».
Se ci fosse offerta la possibilità di interrogare il cosmo chiedendo finalmente qual è la sua essenza, il principio, la causa, il nucleo primordiale occultato nei suoi inesplorabili meandri, viene il sospetto che risponderebbe “non lo so”. Probabilmente neppure l’universo conosce fino in fondo e distintamente sé stesso; forse il mistero non è il prodotto dell’ignoranza e dei limiti umani ma la sostanza insondabile che anima, nutre e feconda il mondo. Un aforisma sibillino di Karl Kraus dice: «… Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce».
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