martedì 21 aprile 2020

LETTERA 35




Non avrei trovato di meglio da fare, visto i tempi, che scrivere con una vecchia Olivetti Lettera 35.
Il ticchettio mi dava un certo piacere, oltre farmi buona compagnia. Ogni giorno, tra le dieci e le undici, scrivevo almeno una pagina di parole più o meno sensate. L’esercizio metodico dopo pochi giorni produsse un discreto risultato riguardo la velocità nel battere i tasti. L’impresa, poi, col passar del tempo e l’applicazione, mi riuscì sempre meglio tanto che mi appassionai. Se prima avevo iniziato per cercare di ammazzare il tempo, dopo un po’ il ticchettio divenne quasi professionale.
Lo avevo dimenticato, infilato e lasciato incustodito dentro il cassetto dei ricordi adolescenziali. Conservavo, incorniciata, la mia prima pagina dattiloscritta. Fissava, per sempre, l’inizio del mio primissimo racconto: UNA GITA IN BARCA. Ora, farlo risuonare dentro una stanza ovattata di libri, centinaia, dal pavimento al soffitto, col sole che entrava da una grande porta-finestra, caldo e avvolgente, mi dava un forte senso di appagamento e di pace.
Ogni mattina, durante la colazione, tra un sorso di caffelatte e l’altro, di colpo mi saliva, chiaro e musicale, l’incipit che subito mi precipitavo a scrivere. Poi, qualche minuto dopo le dieci, lo scrivevo a macchina e via, di getto, una parola dopo l’altra. Quando il vecchio pendolo batteva le undici così come avevo iniziato, mi fermavo andando nell’altra stanza-biblioteca a leggere. Il giorno dopo, con un nuovo inizio, riprendevo a scrivere dal punto che avevo lasciato in sospeso o mettevo un puntino e andavo a capo.
I fogli dattiloscritti restavano lì, accanto alla Olivetti Lettera 35, uno sopra l’altro, per diverse settimane sin quando non mi decidevo di numerarle a mano e sul primo, in stampatello, scrivevo il titolo del racconto o del capitolo.
Qualche volta, battendo sui tasti, mi bloccavo sopraffatto dalle parole che, certi giorni, sgorgavano come lo scarico di un mulino ad acqua. Era come se, prima la testa poi le dita, s’inceppassero, ma non per rovinare o lasciar cadere il ritmo, piuttosto per scrivere esattamente quel che andava scritto esitando, però, prima almeno un pochino. Il risultato, alla fine, era sempre una pagina dove trovare le cosiddette giuste parole, non solo era facile, ma anche un vero gran piacere per la lingua e l’udito.
Col passar del tempo una sola ora divenne insufficiente, perciò passai a scrivere per due ore di seguito: dalle dieci sino ai dodici rintocchi del mezzodì battuti dall’orologio e dal vicino campanile. Le pagine non aumentarono: da una divennero due. Verso mezzogiorno il sole si mostrava ancor più raggiante, caldo e invadente. Per questo, smettere alle dodici era anche un sollievo soprattutto per le dita e la schiena. Sarei potuto andare a scrivere nell’altra stanza, ma la luce che illuminava i tasti era così poetica che non lasciarla lavorare: non solo sarebbe stato un peccato, ma anche un crimine, ed io che non ero fatto né per l’uno né per l’altro, soprattutto per i crimini, semplicemente smettevo di scrivere.
Con il tempo, io e la Olivetti Lettera 35 siamo diventati ottimi amici. Sentii il piacere di questo sentimento quando con l’udito percepii un cambio di suono nello schiacciare i tasti. Ero diventato un pianista della macchina per scrivere. Ero diventato più delicato. Secondo la parola battevo sui tasti imprimendo più o meno forza e siccome leggevo quel che andavo scrivendo, durante quelle due ore suonavo e cantavo. Sì, esattamente: scrivevo, suonavo e cantavo.
Fu così, quasi per caso, che scoprii l’intima relazione e unione tra scrittura e macchina, tra le mie dita e i tasti, tra parole e suoni. Tutto era nient’altro, nulla di più, che una vera sinfonia, il prodotto di un’armonia di strumenti: la fantasia si materializzava su una pagina di carta bianca grazie a una macchina per scrivere, ai suoi tasti, alle sue lettere mobili, al suo rullo.
Con un piacere intimo, che posso solo tentare di descrivere – come quando qualcuno o qualcosa ti entra profondamente nell’anima –, presi coscienza di quanto fosse vitale per chi scrive sentire che le parole sono corporali e carnali, e come tali hanno vita, battito, respiro, gioiscono e soffrono. Allora è vero che le Parole sono l’Uomo!

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