mercoledì 18 marzo 2020

Una vanità che ci libera


rencensione di AR




“(…) Qohelet ci lascia in una zona liminale, tipica del rito e del ritmo come un'esperienza esistenziale sempre aperta a nuove intonazioni (…). È questo, a nostro avviso, lo spazio-tempo dell'hevel, il luogo sacramentale, rituale, omiletico chi «prende la parola» – come è appunto detto di Qohelet.” (p. 9)

Andrea Ponso ci offre una lettura attiva, attenta al significante (cioè all’esperibile), immersiva e partecipe di questo libro biblico così destabilizzante e distruttivo di significati e ideologie che vorrebbero categorizzare anche ciò che esula dallo spazio-tempo e dalle categorie del linguaggio.  Lo scetticismo, il pirronismo dell’autore del Qohèlet sono una medicina per ogni credente: gli ricorda che la sua immaginazione autocentrata e solipsistica può facilmente diventare idolatria, la sua devozione superstizione, il suo attaccamento a una lettera accoppiata a un significato “prescritto” un feticcio. La vanità (delle vanità) con cui si apre il libro rende l’ebraico hèvel הֶבֶל fiato, alito, vapore, mentre qohèlet è colui che raduna, convoca (l’assemblea). Osserva Ponso (p. 13): “Hevel è il nostro respiro vuoto, è lo spazio in cui ogni cosa può accadere (…) [mentre] l’altra faccia della «vanità» è la possibilità sacramentale della grazia divina (…)”. E più avanti (p. 49): «Qohèlet non denuncia la negatività e il non-senso come se ne fosse immune, come se si trovasse fuori, in un punto sicuro di presunta oggettività, ma come chi ci sta dentro fino in fondo, consapevole della parzialità del suo punto di vista conoscitivo che, proprio per questo, non diventa mai idolatrico.”
Vivere, dunque, le esperienze che la vita ci offre, con passione decentrata, vale a dire aperta a relazioni rispettose della dignità dell’altro e nel timore (ovvero accettando la propria condizione di figlio dell’uomo) dell’Altro per eccellenza, è rendere vivo e attuale questo provocante testo sapienziale. Questa immersione partecipata nel reale che si apre al trascendente trova nel rito e nei sacramenti una modalità essenziale – “esperita con il corpo e con i sensi, con i movimenti e con la condivisione” (p. 71) – di aprirsi al Mistero: “Ciò che mancava alla completezza della rivelazione era proprio il significante [cioè la presenza attuale e percepibile] vivente e incarnato di Cristo, che ora possiamo vivere e incontrare per grazia attraverso i riti.” (p. 73); “(…) a fare il cristiano è primariamente la partecipazione [ai riti] con il proprio corpo, i propri gesti e la propria esperienza, piuttosto che con la volontà e con la mente, che entrano in gioco sempre in un secondo momento.” (p. 75).
Come insegnano i Padri, ampiamente citati e commentati da Ponso, nel cammino ascetico, nel desiderio di avvicinare l’Indicibile: “(…) il soggetto si scopre come punto vuoto nell’atto di essere dono creazionale in perenne conversione, e non il creatore di sé stesso e del senso. Proprio in questo svuotamento si avvicina veramente al suo essere fatto «a immagine e somiglianza» di Dio, come se la kenosi di Dio incontrasse quella della creatura. (…) le Scritture mostrano il loro volto vivente e mutevole nella relazione sacramentale con il soggetto che le indaga” (p. 87).
Il teologo noventano ci suggerisce di trovare nel Qohèlet (p. 95): “il pungolo che ristabilisce ogni volta come riferimento della fede non un significato ma un significante, proprio come accade, seppure in modalità diverse, con quel particolare significante che è il corpo del risorto, con la sua capacità di stare nello spazio e nel tempo senza esserne prigioniero (…): noli me tangere.” 
L’autore analizza poi puntualmente, nella sezione “Dentro il libro di Qohèlet”, i capitoli che compongono questo testo, rivelandoci tante interessanti etimologie, interpretazioni rabbiniche, riferimenti al contesto storico e culturale, ad altri libri biblici, ai Padri (in particolare a Gregorio di Nissa nella sezione conclusiva)… sempre evidenziando il proprio interesse per il significante, che è ciò che accade, il nostro divenire, essendo l’uomo (p. 125):  “(…) in viaggio, nel deserto, debole, mai stabile ma in costruzione e decostruzione, in perenne conversione, abitato da un desiderio continuo e lancinante (…) una finitudine che scava sé stessa e diventa infinito e trascendenza. (…) [Perché] inciampando nella consapevolezza dell’hevel, vale a dire nella debolezza costitutiva, nella conciliazione con la finitezza, si apre il possibile della trascendenza.”
Questo cammino verso, questa tensione erotica al Trascendente trovano nella liturgia la “barca” che ci rende popolo, corpo mistico e che può traghettarci nell’oltre: “Rito e sacramento, in fondo, ci fanno comprendere – con il corpo e i sensi, con i gesti e l’esperienza diretta – non solo la trascendenza, ma anche l’immanenza nella su forma complessa e contraddittoria, pericolosa e salvifica, senza mai disgiungere i due piani” (p. 226).

In sintesi possiamo dire che la vanità di cui tratta il Qohèlet non è soltanto vacuità, dispersione, spreco, inconsistenza… è anche uno spazio desiderato e desiderante di libertà che permette un discernimento al tempo stesso affidato e connotato (preziosamente e insostituibilmente) dal nostro vissuto, dal nostro contesto culturale e relazionale, dai nostri desideri, dalle nostre pulsioni, dalle nostre mancanze  e persino, in modo assai significativo, dai nostri errori (che moralmente sono i nostri peccati): tutto questo ci rende profondamente umani, limitati, sempre in cerca di un magis (ignazianamente parlando) ma cristianamente già salvi, se non ci richiudiamo in noi stessi, nella nostra volontà di dominio e potenza, e ci apriamo conseguentemente alla misericordia del Significante che riassume sacramentalmente e misteriosamente ogni significato, ovvero al Dio incarnato, morto e risorto.

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