E ancora scrivo di te anche se non ci sei più. Sai, non ne posso fare a meno. Mi consolo così. Avrei altro da scrivere, ma finisco sempre col tirarti fuori dal cassetto della memoria e dei ricordi. Tu sei sempre lì, immobile. Il sole sorge e poi tramonta, ma tu né arrivi né vai via, semplicemente sei, sempre dove eri ieri, avantieri, tre giorni fa. Tutto entra ed esce. Entrano ed escono uomini, donne, gatti, cani, luci, ombre. Il moto, si sa, è continuo, perpetuo, non si ferma mai, ma tu né entri né esci, perché non hai bisogno né di entrare né di uscire. Ogni giorno qualcuno parte per poi non far più ritorno. Qualcuno non torna indietro, qualcuno muore, qualcuno non si abitua né si adatta e allora, sai che fa? salta sul primo treno o nave o pullman e si lascia trasportare ben oltre l’orizzonte sino ad essere nient’altro che un puntino e poi scomparire per sempre.
Dentro la vita di uomini e di donne qualunque, senza importanza, tutto è di passaggio: oggi c’è e domani non c’è. Lo sanno tutti, lo capiscono tutti e tutti non fanno che parlarne, ma poi tutti tirano a campare, a farsi gli affari propri, a rosicchiare l’osso prima di seppellirlo. Se una rosa si appassisce e i suoi petali cadono uno dopo l’altro, nessuno ne fa una tragedia anche se poi li si raccoglie pensando e ripensando a come erano belli, colorati e profumati. Così accade per chiunque, svoltato l’angolo, scompare. Ma la tua scomparsa, di fatto, non è mai accaduta. Come in un sogno, dopo il risveglio, che non sai ancora se sia vero o solo frutto della immaginazione, così non riuscendo a far piena luce su di te, ecco ancora scrivo di te, di noi due. Eppure lo so, lo so benissimo che il tuo corpo non esiste, ma allora com’è che lo vedo, lo vedo eccome, e che sembra pronto per esser toccato? Sarà, forse, per esorcizzare il tuo fantasma, che ancora scrivo di te? O, forse, lo faccio per renderti presente? Ma, si sa, i bisogni che si sentono dentro la testa, il cuore, la pancia, vanno imboccati, sfamati, pena star male ancor peggio di un mozzo ragazzino sul ponte di una nave nel bel mezzo di una tempesta.
Scrivere ancora di te è come trangugiare un bicchierone di latte fresco dopo una corsa a perdifiato per i campi con un cagnaccio come compagno dalla lingua allegra e penzoloni; come una doccia bollente dopo aver portato su e giù per scale semibuie tanta, tanta carta stampata, scritta, disegnata; come sfamarsi da lupi nella foresta dove l’unico dominio assoluto è quello di cacciare la preda prima che questa si dimentichi d’essere un buon boccone. Scrivere ancora di te per non morire, sì per non morire, perché quando un giorno la vista si oscurerà, le mie dita non saranno più capaci di afferrare una penna e la mia mente inizierà a vagare e divagare, lo so, allora morirò lasciandomi andare su una vecchia poltrona avvolta da libri polverosi, da fiori secchi, da avanzi scaduti. Quando non potrò più scrivere di te, allora sarà meglio farmi da parte, scivolare lentamente nell’ombra e poi nel buio, lasciarmi in fine abbracciare da un silenzio e da una solitudine mortale. Quando non potrò più scrivere di te perché, dimmi, rimanere? per quale scopo? Scrivere di te, tu lo sai, è scrivere anche di me. Se non potrò scrivere di te, allora io soccomberò e mi vedrò dentro una bara e sotto una terra umida, molliccia, dove qualche vermiciattolo attenderà dopo aver imbandito la sua tavola.
Sì, voglio continuare ascrivere di te, perché non voglio ancora morire. Sento che ancora non è giunta la mia ora, di non aver ancora terminato il lungo viaggio, di non dover ancora scrivere le miei ultime volontà e dare così il mio permesso per essere sepolto, dimenticato, lasciato in pace, finalmente. Sì, continuerò a volerti bene, a pensarti, a sognarti, a vederti nei miei ricordi, nelle mie giornate sempre più maledettamente disgraziate, opache, cariche di malefici, di magie nere, di un’alchimia velenosa che tramuta i rospi in principi e le carrozze in grosse cipolle. No, devo, voglio ancora scrivere di te, perché solo scrivendo non morirò, ma non morirai neppure tu e ne il sole, la luna e le stelle, niente e nessuno. Scrivere, dunque, per non morire e per non farti morire. Lasciamo tutto al suo posto: lasciamo che il buon mattino ci sorprenda, che l’aria pizzichi il nostro rugoso volto e che i bambini sfreccino con le loro bici alla moda. Lasciamo che altri pensino che non valga la pena tirarsi su e con un forte moto di volontà continuare a scrivere piccole, ma proprio piccole storie illuminate non da supereroi, da uomini feriti ma non mortalmente, malati ma non terminali, molto stanchi ma non per questo pronti a fermarsi e sedersi, ad accomodarsi. Che cos’è mai una vita comoda? E ancora scriverò di te, ragione prima e ultima del mio vivere qui, su questa Terra, in questo Tempo, nelle vie e nelle case degli uomini, quelli che per un destino a me eternamente incomprensibile mi sono fratelli, amici e mio niente.
Ambrosius Bosschaert il vecchio, Natura morta di fiori in un vaso Wan-Li (1609-10),
pittura su lastra di rame.
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