giovedì 25 aprile 2019

Il risolutore: travolgente

recensione di Elena Varriale


Sono pochi i libri che ti travolgono, che leggi tutto d’un fiato perché ad ogni pagina ti pongono domande, ti regalano visioni, prospettive, verità indicibili. Libri che sanno scavare col coltello nell’animo umano, senza finzioni, infingimenti o falsa pietas. Libri che disvelano abissi e risalite. Baratri dell’essere e del sentire.
Uno di questi è senza dubbio, Il Risolutore di Pier Paolo Giannubilo, edito da Rizzoli e finalista al Premio Strega che narra la vita segreta e dannata del poeta, artista e critico Gian Ruggero Manzoni. Un libro complesso dove l’io narrante si sdoppia, si sovrappone, a tratti si fa alter ego per creare una vera e propria simbiosi empatica tra l’autore ed il protagonista della storia.
Già, la storia. È il ritorno senza giudizi o pregiudizi, nel passato più duro, dopo il fascismo, del nostro Paese. Agli anni Settanta, gli anni di piombo, dei compagni che sbagliano, dei rossi e dei neri che si armano e si sfidano, l’epilogo della rivoluzione civile interrotta dal dopoguerra democristiano a sovranità limitata. Sono gli anni della liberazione dei costumi, della creatività, del pubblico che annulla o macera il privato, degli attentati, delle bombe, degli omicidi. Sono gli anni del Dams, della facoltà degli artisti che vogliono cambiare il mondo: Tondelli, Pazienza, gli unici veri amici del protagonista.
Gian Ruggero, come ci rivela l’autore nei flashback sull’infanzia e sull’adolescenza, è un ragazzo che porta sulle spalle il peso di un cognome e dell’ambizione (è parente dello scrittore Alessandro Manzoni e del provocatorio artista Piero Manzoni), il peso di un corpo che ingrassa a dismisura e il peso di una madre forte e sempre delusa da un figlio ribelle ed inconcludente.
È un adolescente fragile che commette l’errore più grande della sua vita: si fa arrestare con il “ferro”, con la pistola che non ha mai usato. Rischia il carcere duro, ma consigliato dal padre accetta di commutare la pena con il servizio nelle Forze armate. La nemesi si è compiuta e l’abisso del dolore, del disumano è raggiunto in uno scantinato buio tra le sue feci ed il silenzio. Il maligno irrompe nel cuore e nella testa del ragazzo, alimenta fantasmi, mostri, luci rosse della perdizione che l’accompagneranno per gran parte della sua esistenza. E il racconto si snoda tra gli incarichi al limite, ordinati dai servizi segreti. Gian Ruggero uccide senza pietà, distrugge donne e sé stesso. Il suo è un vero grido di dolore: scapestrato nella vita, dissoluto nel sesso e nel cibo, dissipato nell’anima.
Nelle pagine prendono corpo l’urlo di Munch, i chiaro scuri tenebrosi, inquietanti di Caravaggio, la morte cavalcata e sfidata di Basquiat, così come i fantasmi avvolti dalla nebbia della Pianura Padana. È il racconto del perverso che abita l’uomo e l’artista, il toccare con mano la natura bastarda, come direbbe il poeta Davide Rondoni, che alberga in ciascuno di noi.
Ma il male non lascia spazio all’amore, alla tenerezza, alla comprensione. Il male fa i conti con la paura, con l’istinto di sopravvivenza, con l’ansia, con i cavalli al galoppo nel petto che annunciano la fine, la morte, togliendo il fiato. Così, il protagonista schiacciato dai rimorsi, dalle immagini violente della guerra nei Balcani, dal sangue vivido delle ferite viene sopraffatto dall’ansia, somatizza e si ammala. Sindrome di Crohn è la diagnosi impietosa.
In questa via crucis di dolore e di aberrazione, il protagonista scopre la preghiera, si confessa, cerca un conforto che non trova. Alla fine, sceglie di avere una figlia con una donna fragile ed instabile che precipiterà nei suoi demoni. La piccola Noemi “un batuffolino peloso e roseo sporco di placenta” diventa il faro, la speranza a cui aggrapparsi per dare voce e fiato alla commozione e al bene.
Un libro scritto da una penna talentuosa che sa evidenziare stati d’animo, tratteggiare personaggi, descrivere luoghi e creare attesa nel racconto. Un libro che resta, un libro da leggere.

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