venerdì 25 novembre 2016

La zona d'ombra della buona letteratura

su Adele Desideri, La figlia della memoria, Moretti&Vitali, 2016, pagg. 168, € 15,00 

recensione di Beatrice Mencarini 
(v. anche la recensione di Antonio Spagnuolo)

C'è una zona d'ombra che solo la buona letteratura riesce ad esplorare senza perdersi e senza cedere alla tensione dell'eccesso.
La buona letteratura sa camminare in equilibrio sullo stretto sentiero che divide la luce dall'ombra, sa danzare con leggerezza sul precipizio, sa muoversi elegantemente in punta di piedi sul ciglio del baratro.
La buona letteratura sa guardare l'abisso e dell'abisso sa cosa salvare e riportare alla luce.
Il romanzo di Adele Desideri La figlia della memoria (Bergamo, Moretti &Vitali Editori, 2016, pp. 165, prefazione di Davide Rondoni) si muove proprio su questo terreno, angusto e pericoloso, sottile come un filo di lama.
È la stessa citazione che apre il romanzo «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori» che ci ricorda l'abisso, il mondo oscuro e materico da cui proveniamo: la palude dell'indifferenziato, il regno mostruoso e divino dell'infanzia, il senso di sporcizia che porta con sé la corporalità, la stanza buia con l'odore di naftalina che striscia perturbante tra i ricordi della protagonista Andreina.
La storia di Andreina – la bimba triste – la storia intima, perturbante, a tratti tinta di morbosità e patologia, si insinua nelle viscere del lettore e il romanzo diventa esperienza non solo intellettuale ma carnale. Un romanzo molto femminile, una qualità di scrittura che non ha perduto il rapporto con la carne e che, anzi, dalla carne parte per raggiungere altri orizzonti.
I rimandi, dal freudismo al mondo biblico, non sono mai forzati: tutt'altro, il libro mostra come la teoria possa realmente incarnarsi in esperienza. Il tema della colpa, che nasce nella letteratura con l'adultera dei Vangeli, trova qui un'altra grande incarnazione in Andreina.
Un romanzo dedicato a Mnemosyne, alla memoria, non può essere un romanzo lineare, non può conoscere progressione o futuro e non può condividere la nostra concezione del tempo occidentale. E difatti la Desideri, ce ne accorgiamo ben presto, non vuole condurci da nessuna parte ma vuole soltanto perderci in un romanzo circolare, una storia che tende all'indietro, un romanzo che scava e che cerca. Un libro che si muove tra saga familiare, romanzo di formazione al femminile, romanzo psicologico: etichette che rimangono troppo rigide per definire quella che rimane una lettura di qualità che avvince il lettore soprattutto grazie al potere della scrittura.
La prosa della Desideri, soffusa di lirismo, accompagna il lettore una pagina dopo l'altra, avvincendolo al romanzo. Il dono della narrazione non manca di certo a questa scrittrice che, con pochi tratti, ha dato vita a una serie ben nutrita di personaggi forti e carismatici che emergono e prendono vita pagina dopo pagina. E così la madre, con “i seni debordanti dalle trine”, la sorella Tude “scaltra e teatrale”, la terapeuta “tragicamente freudiana” (o alternativamente “boia psicanalitico in gonnella”) e lo zio Zeno, lo zio sordo che scrive lettere senza punteggiatura alla sorella morta. A fare da sfondo alle vicende intime e famigliari di Andreina c'è l'Italia del Dopoguerra, un'Italia che cresce e che cambia insieme alla protagonista, un'Italia in bilico tra gli strascichi del Fascismo e le ribellioni del Sessantotto, un'Italia ancora divisa tra mondo rurale e l'espansione delle grandi città, Torino e Milano.
Il mondo rurale, rappresentato dalla campagna toscana dove Andreina passa le sue vacanze estive assieme ai cugini, viene pavesianamente rappresentato come una sorta di paradiso perduto, un mondo fatto di piccole cose che incarnano l'essenza stessa della felicità e della spensieratezza infantile; a cui si contrappone puntualmente la vita in città, luogo dello studio, del lavoro, dell'isolamento e dell'angoscia. Il dialetto toscano compare diffusamente nel testo come bagaglio di un passato non solo linguistico ma emotivo, relazionale. Alcune pagine del romanzo sono dedicate proprio alla ricostruzione di quel “lessico famigliare” che ha punteggiato la vita di Andreina: anche il linguaggio è parte essenziale e costituiva della propria storia e dunque merita di essere scavato, ricordato, riportato alla luce. Molto interessante anche l'analisi che il romanzo propone sul dialetto toscano: un veicolo per entrare in relazione emotiva con l'altro ed accorciare le distanze superando gli ostacoli.
L'aspetto emotivo del linguaggio e della narrazione è sicuramente ciò che questo romanzo porta con
sé e che lascia generosamente in dono al lettore. Un aspetto davvero importante del linguaggio che oggi, probabilmente, stiamo dimenticando.

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