giovedì 21 luglio 2016

Due racconti

di Roberto Morpurgo selezionati dal concorso Faraexcelsior 2016

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Anche Francesca di là dal vetro

Ci fu un tempo di cui ricordo tanto quanto me ne vergogno, un tempo in cui tutto mi appariva bello forse solo perché estraneo, meglio ancora inaccessibile. Quel tempo non è finito, è ovvio, e nemmeno finirà con me, perché io lo scriverò, ne scriverò, e anzi non ho forse già iniziato a farlo? Lei ancora non avendo ritrovato il suo nome lei era la sola ragazza che pur non essendomi appartenuta, nemmeno apparteneva a quel mondo di schiamazzi e bagliori che io come dall'altra sponda del vetro osservavo con diffidenza diffidenza, avrei detto allora, ma oggi: malinconico sospetto. Lei stava spesso in disparte, pur essendo ovunque bene accetta, e pur non potendo vantare come me gli appellativi di orsa, o di nevrotica, o di bella tenebrosa. Bella questa! Si chiamava Francesca, ora posso dirlo che l'ho rivista in viso. Si fece baciare un seno e offrire una colazione nel suo piccolo atelier di bricoleuse, e fu tutto. Non ci fu mai che poco altro: un bacio, numerato nel taccuino di una implacabile memoria, una mezza passeggiata intorno al suo isolato, qualche telefonata, un complimento, forse, e solo a lei indirizzato. Sei così cupo Non so perché io la ricordi qui, ora che il mio tempo il suo passato e così il suo scarno presente sembra rarefarsi sino al limite del sortilegio. Oppure lo so, ed è perché molto avrei da dire sull'epoca in cui la conobbi e, come dovrebbe essere chiaro, non potrei dire la frequentai tanto poco ho da dire, volens nolens, su di lei, su Francesca. Per tornare a quello che in definitiva fu il nostro mondo, comune anche se non condiviso, era fatto di salotti, vetrine che ben so più colorate e variopinte di quelle lungo le quali mi capita oggi di passare, e che tuttavia io ricordo avvolte in una incessante variazione del grigio vie più luminose e fortunate e allegre e altre, fra queste quella che abitavo, più povere e scarne, quasi sempre in ombra, il cui solo pregio fu forse quella curiosa variante del coprifuoco che è la mestizia, o nemmeno e forse solo la certezza di non esserci: di non contare niente e per nessuno. Benché abitassi un appartamento costeggiato da un lungo terrazzo granuloso, luminoso e ariosissimo (la Milano dei quinti piani è una specie di 'serra senza fiori', per chi ricorda l'acredine con cui lo smog delle automobili e dei riscaldamenti intaccava i muri e le gronde sin oltre il secondo piano. Peccato che Francesca non lo abbia imparato da me (lei abitava un pianoterra, forse al più rialzato. Peccato non averle potuto bisbigliare nel suo orecchio snello e flessuoso sino alla morbidezza: et quoi! Vous, mademoiselle veritablément vous habité un drôle de rez-de-chaussée malgrado il terrazzo, dicevo, la mia felicità era spesso adombrata da fattori di natura varia ma sempre testardamente molesta. La mia felicità! La dirimpettaia che sorrideva fra i suoi boccoli biondo vaporosi, lasciando a me l'incombenza del primo passo: tanto più ostica quanto più l'entità del suo delizioso difetto dentale era tale da recarne la notizia da una parte all'altra della strada. Un piccolissimo binocolo favoriva il passaggio dell'informazione. L'una, Francesca, rintanata in un inaccessibile monolocale al pianterreno; l'altra, là… relegata sull'opposta sponda di quel fiume come un fiumiciattolo si lasciava sognare la mia brevissima via - lungo il quale anch'io avevo la mia immaginaria palafitta. Una seconda dirimpettaia, un piano sotto colei che l'arbitrio mi suggerisce ora di chiamare Beatrice, Maddalena, e una terza donna, anonima condomina, entrambe sposate, mi guardavano con occhio trepido specie quando facevo ritorno, a sera inoltrata, da giornate di duro cammino verso la vetta della notte o almeno così a me pareva che l'avrebbe definito Francesca, trepido. Ma lei non sapeva niente di me. Aveva accettato quella colazione una mattina di primavera quella mattina di quella primavera: solo perché mattina, o solo  perché io fossi il componente più virile di una coppia di omonimi, l'altro dei quali, come spesso accade, incidentalmente ci aveva presentati. A quel tempo avevo dismesso alcune delle insane abitudini che punteggiarono la mia tarda pubertà o primissima adolescenza: concerti mattinali della domenica, caffè con la nonna, e nei giorni precedenti cortei e riunioni pomeridiane e fluviali, con la pioggia che batteva spesso sui vetri però tanto ingrigiti dal fumo che e le ronde nella nebbia con i nostri tartari che non si facevano vivi se non un paio di volte l'anno, le boccette dietro l'angolo di scuola (alcuni giocavano all'unico scopo di centellinare il secondo o terzo cappuccino), la lettura del giornale che parlava sempre d'altro sempre pur parlando di noi e questa era forse la soddisfazione più intima, più tardi avrei detto: recondita: più intima rende meglio però la sensazione di avere la bomba in tasca. Ma non Francesca. Anche i cinema disertavo ormai più volentieri se si eccettua una specie di ipogeo tappezzato ab origine con pezze sdrucite e smangiate, infeltrito e odoroso di non so più quali impensabili accoppiamenti, e che Francesca avrà visto credo due volte, non di più. Tutti mi conoscevano, sebbene superficialmente e stavo per aggiungere obliquamente, mentre io non conoscevo nessuno o quasi. O quei pochi che conoscevo, troppo profondamente. E quelli che invece conoscevo poco, pochissimo, o per sentito dire, gravitavano intorno a me come presagi di una strana condanna. E il pettegolezzo vi giocava una parte feroce, come sempre. Io speravo che lei, o un'altra si chiamasse costei o meno Francesca mi avrebbe 'salvato', o per così dire virgolettato l'adolescenza e la prima  maturità, ma ciò non accadde né, forse, avrebbe mai potuto accadere. Grondassi sudore, lacrime o il sangue dei piccoli tagli di rasatura, di piccoli lavoretti da aiuto elettricista, di piccolissime e deliziose unghiatine di gatta o di puerili ma già presaghi incidenti di falegnameria, loro erano lei era per me una semplice e una mera ripetizione del  vuoto che mi allarmava al solo e non certo più maturo scopo di perpetuarsi. Di me non l'ho ancora detto? profittavano tutti: il vuoto, la rivolta, e quel barbarico esprit de finesse cui solo una scuola recintata da tre chiese, un palazzo di giustizia, uno sindacale e uno libresco ci avrebbe potuto condannare. Io? Ero sempre dalla mia parte, e le donne che allora furono ragazze non me lo perdonavano allora come oggi. Dei tanti di cui potrei dire che come Francesca si sono persi per strada, quasi solo di lei ho un rimpianto preciso: perché mi trovava cupo ma simpatico (e non viceversa), e perché malgrado l'eccitazione che il contatto con i suoi seni mi procurò quella mattina non mi inflisse l'umiliazione di ipocrisia veruna. Non mi disse vattene, o resta così possiamo chiarirci, né non sei il mio tipo, o sei stato precipitoso (lento, immobile, servile, tirannico), no niente di tutto ciò. Anzi non mi disse nulla, e lasciò che a parlare - ad avere quella sua prima e ultima parola fosse la piccola porta indifesa del suo piccolo studio ingelosito dal fatto di trovarsi al pianoterra. Di lì si poteva ben discernere, sulla strada, chi facesse l'amore e chi invece tirasse avanti senza voltarsi indietro. Intorno a lei i 'giardini' schiettamente milanesi di piazza A. suggerivano acri premonizioni (quindici anni dopo, in un luogo identico dalla parte opposta della città, fui apostrofato 'zio!' da un bullo di periferia, come me ciclista. Non troppo diversamente dovette vedermi allora la giovanissima Francesca: un vecchio ragazzo prematuramente votato a una certa dose di sconfitte). Erano anni spensierati, per me che vivevo nell'angoscia così come gli altri nel lusso, o nel bagordo, o nelle turpi goliardie delle biblioteche comunali dove peggio che in un tempio cattolico del centro urbano si consumavano le più oscene mascherate sessuali, quasi sempre con una complicità estorta a Franz Kafka e Albert Camus. Io che mi vergognavo di non arrossire mai apparivo mio malgrado doppiamente timido, e le ragazze che sarebbero diventate donne ma non ancora, non le mie donne non me lo perdonavano. In una parola, c'era sempre qualche motivo per non perdonarmi qualche difettuccio. Ma a quale crudeltà imputare l'anonimato del destino o anche a quale destino imputare la crudeltà dell'anonimato? Doppio rinforzo Ecco perché così spesso, sinora, ho alluso a Francesca. Né giudice né assolutrice, né complice né amica intima, benché erotica, e come tutte puttana, ma con sé stessa come poche, e come pochissime alte lei era un nome, un cognome (Z, che condivideva con la bella Luisa, dunque sorella) che non posso rivelare oltre questa forse già leziosa fine-alfabeto, un naso quasi egizio e ancora troppo francese, un profumo di pelo nero che frammisto alla melanina di una pelle semi-scura e liscia come la seta quando è il cachemire a darle consistenza erano le sue ingenue armi di artista tuttofare, di preziosa compositrice (ricordo fra i suoi collages una recensione vivente, bruciante, alla storpiata virilità di Guernica). Molti che la amavano (Guernica), altri che la possedevano (Francesca), e  come se non bastasse, come se nulla fosse, la sorte che mi indusse a fare di lei un capro espiatorio, dopo e prima di altre, un parafulmine inutile. Soltanto Iddio sa se e quanto avrei voluto farne all'opposto una capretta non solo simbolicamente espiatrice! Inutile, data la sua destinazione protettiva contro saette che il cielo non scagliava mai al mio indirizzo, di modo che i miei insuccessi, i miei immeritati perché involontari e quasi sabotati successi, la mia insonnia, tutto dovesse venir racchiuso nel catino di una catapulta la cui corda si faceva tanto più tesa quanto più il bicipite che la reggeva e sollecitava si faceva robusto e invincibile. Bei tempi.  Belli perché altri, e altri forse perché, già allora, lontani. Fra quanti non si degnavano di pensare al futuro con il clin d'œil di chi ben sa come trattarlo (da ingegnere!), io ero il migliore: il più affidabile, il più perdente. Tanto più che i miei trench facevano l'invidia di tutti e di tutte, e solo lei non li vide mai nemmeno da lontano. Ma, già pur così lontana nel tempo dalla stagione dei trench e degli eskimo, delle piccole barricate e delle grandi manifestazioni di nostalgia, Francesca meritava, avrebbe meritato e io ritengo che meriti ancora il compassionevole sguardo dell'uomo che sa bene qual sorta di privazione le abbia poi inflitto. Come forse anzitempo dissi, quando la conobbi era primavera. Anche quando, a distanza di decenni, nuovamente la cercai, era primavera, e la ritrovai, Dio solo sa se non la ritrovai: Un caffè fra conoscenti che non si vedono da trent'anni? poi timidamente - Non mi pare il caso, non è nel mio modo di fare. E il mio ricordo? Non vola forse subito fuori della gabbia, verso i dorati e ancora fulgidi lidi di quel It's not my way to love you just when no one’s looking che solo Keith Carradine cantava in modo decoroso. Un caffè ? Non credo che il marito, eventualmente, avesse messo becco nella del resto non spinosa faccenda. A un uomo sposato si perdona la metà di quel nulla che si perdona a un ragazzo scapolo, o mal fidanzato e comunque perennemente infelice. Quanto a me io rubavo poco e poi quasi soltanto libri: leggevo molto, quasi solo filosofi fra i quali invece rubavo moltissimo (la ragione: c'era così poco da portar via, che ogni viaggio era quasi a vuoto, sicché la somma degli andirivieni risultava infine assai vistosa). Le ragioni della mia sventura - un insuccesso sempre e solo parziale: una flogosi che sempre esibiva il tumor, immancabilmente mancando di esibirsi nel rubor sono tutte qui. Si consideri poi il fatto che sentirsi dare del bel tenebroso può sortire sull'attento osservatore dello strumento umano un effetto molteplice e sempre però scioccamente nocivo. Io non mi sentivo affatto bello né mai così 'tenebroso' (benché Francesca negasse, sia questo secondo aspetto sia quella mia prima sensazione) e per soprammercato (ricordo questa espressione curiosamente ricorrente in un autore che da allora forse colpevolmente non lessi pressoché più) la tenebra mi era sempre parsa talmente bella da condannare quella così diffusa espressione fra i pleonasmi più stucchevoli bel tenebroso. Certo le revérs delle giacche di velluto e i baveri dei giacconi alla marinara facevano la loro parte. Ma non con lei. Quando ripenso alle parti del suo corpo che non potei vedere, toccare, annusare: cosa c'è di diverso nel mondo ovvero al di fuori di quelle inaccessibili mutandine che non poter conoscere i libri di cui ebbi il dorso ma non il volto, gli amici rivelatisi estranei da ben prima di essermi estranei le città fantasma il cadavere di Ernesto Guevara insomma tutto ciò di cui la donna è non già simbolo o espiazione, ma semplice parte, muta acuta testimone, e povera asina, bipede da soma che in sé assomma ogni colpa e qualsivoglia dolore, a cominciare da quelle e quelli in sé e per sé procurati, e che in rarissimi casi non se ne vanta. Come nel suo per me unico. Tutti i bar, le osterie, i ritrovi della mia giovinezza sono ringiovaniti in attesa che io invecchiassi al loro posto. Precoce difensore di Oscar Wilde a dispetto di un genitore che non ne apprezzava il Dorian Gray, e di una generazione che opinava di averne gustato le battute io invecchio. Invecchio e in me (eccomi nella mia vera veste: di cornice) in me rinverdiscono quei ricordi amari, quelle croci vuote e tanto più chiodate, le risatine sarcastiche all'indirizzo del mio piglio e cipiglio, le battute da caserma che fecero poi di me un autentico militarista - quasi un coscritto del mot d'esprit. Il vetro che ancora mi accompagna: è a lui che io devo Francesca, e i ricordi antistanti, i vasi di gerani che mia madre accudiva al posto della felicità e il colpi di bastone dei Loebl sulle condutture idrauliche che tanto metalliche quanto inesorabili subito prima risuonavano del mio tam tam metropolitano: la mia chitarra folk, si badi, una Raspagni: non una Qualunque. Del resto una vita rovinosa non si riassume in una mezza pagina. I cornicioni brulicavano di pericoli e estasianti attrattive uno fu inquisito in età giovanile, avrà avuto sì e no un tardo inizio secolo, da me e dal più insignificante dei miei affiliati, insieme fermammo il traffico di Viale con un getto d'acqua proveniente da un idrante di soprattetto e altrimenti destinato a riempire una piscina inutilmente destinata al comm. de Ingegneriis le pallottole vi si conficcavano (nei cornicioni) e si confondevano ai capezzoli: i picciuoli dei baschi ai picciuoli delle mele... Nero su blu, rosso su giallo. Io scivolavo al di sotto di tutto ciò è vero oppure molto al di sopra se non è falso è perché ho conservato la vita per dirlo, e la volontà ad essa debitamente correlata. Già a quel tempo mi piaceva tutto quel tutto farfalle, vetrini colorate, le pietrine da controscarpa con cui a sette anni sedussi la figlia maggiore di una madre minore, ma non lei, non ebbi Francesca, mai sino ad oggi, né credo che l'avrò sino alla tomba (mia o sua che poi si sia). Le tombe (nel frattempo mi son fatto un cruccio e un piccolo nome come bricoleur di architetture e di décors tombali), stoviglie in rame, chiodi medievali, tondi di Della Robbia (ovali, taluni), materiali di lattoneria che già allora io destinavo all'ornamento ben più che alla funzione (del resto entrambi hanno sempre a che fare con una o un'altra forma di sgocciolamento). Ma mi piacevano anche, se è per questo, taluni artefatti in stagno (addirittura, soldatini) rimemorantimi la luna, maioliche sbrecciate (quelle di casa mia), una macchinina rossa (a casa mia) che faceva pendant con un orsacchiotto rosso che io medesimo chiamai L'Orso Rosso (quello di casa mia: l'attuale, lui è ancora con me infatti), i frammenti di basalto e ardesia che recuperavo al Conero o sui tetti dove rubavo una scivolata a René Clair, Jean Gabin o Georges Brassens ma anche Francesca. Le Bic: i primi rasoi di sicurezza (con una barba morbida come le trine del Re Sole ne usavo due alla volta, per raddoppiare la sicurezza, il va de soi); le Bic doppio marchio dunque: biro e rasoi. Tagli e sconcezze sopra entrambe le epidermidi, pagine e guance. E io tardivo nel radermi come nel cambio degli strumenti di scrittura (del resto,  parte il mio sangue, impiegai ogni sorta di inchiostro, mio e altrui). La mia storia se non già qualche frammento dell'altra passò senza colpo ferire da una calligrafia perfetta - quasi solfeggio prettamente elementare della diteggiatura 'carta righettata' a una di tipo clinico, con ascendenze schiettamente neurologiche e allusioni figurative profondamente ancestrali tanto che nella mia laboriosa trascrizione di un vuoto mentale dentro un vuoto cartaceo io nuovamente ravvisavo l'inanità - solo adesso lo vedo del lugubre, macabro, funereo accanimento con cui molti intorno a me si adoperavano per  obliterare i miei sogni. A stuccare le brecce che sulla gran pagina della vita quei tentativi venivano aprendo, canzoni, manifesti russi a forti grigioscuri, dazebao che spesso non raffiguravano se non l'onomatopeica radice del proprio nome (al punto che qualcuno, di cui ora provvidenzialmente non ricordo il nome, ne soprannominò uno di cui non ricordo il volto: dazebao-bab, e un altro, non credo l'amante di Francesca, peraltro, osò, chiosando il primo, la bocca piena di un boccone osceno: daze-bao-shis-ke-bab). E le dattilografe in erba? E spesso in minigonna. E sotto la 'gonna'? i trenta danari di Giuda. E sotto il prezzo di Giuda? I trenta danatri di Omsa, che gambe! (ci fu un'epoca, breve per la verità, in cui Omsa! divenne da marchio industriale di collant una interiettiva esclamazione sostitutiva di Perbacco!). E l'erba dei primi inalatori professionali (dosavano il trito per garantirsi anche la serata: a notte dormivano il sonno dei giusti). Non io. A me sarebbe bastato bastata una vita diversa. Aghi di pino, agopunture ricordo addirittura alcuni tentativi di rinvenire l'Ago universale. Ma forse si trattava dell'Ego universale Ego, non saprei essere né  più preciso né meno peccaminoso, nella mia confusiva retrospezione. Io di quel mondo avrei fatto un rogo, eppure sono qui a ricordarlo, sebbene non sia propriamente ora che io lo faccio, e sia in sua vece un allora. Sì, piuttosto una sorta di istmica propaggine di un tempo che già sapeva non si sarebbe rassegnato, a finire, a dettarmi questi appunti oblunghi e fangosi. Così all'infinito uno potrebbe anche confondersi con il tutto, dimenticarsi di sé, come io di Francesca. Ma non avendo visto nulla di lei, alludo all'occulto triangolino nero che immagino completasse il suo bel bacino di sinuosità medio e quasi estremo-orientali e includo la rivoluzione. Io non ne vidi nulla malgrado abbia pagato le due rinunce in modo diseguale, ma per me oggi così aspramente confuse all'identico che non saprei più dire se le rimpianga entrambe, o soltanto una, o soltanto l'altra. Pochi anni prima che Francesca mi negasse il suo corpo, e moltissimi prima di quando or non è molto mi negò di sé addirittura un caffè, io amavo la nebbia di quella città che allora era la mia ed era tardolagunare, lo scintillio delle grosse ma non grasse chiavi inglesi che sbucavano (facevano capolino) di traverso ai giubbotti degli studenti impauriti dalla solitudine, le rane di cui non potevo rimemorare il gracidio perché le vedevo morte in una friggitoria di mesta campagna meneghina (esattezza? Peschiera Borromeo), le macchine e lo smog inondante che solo il mare, il mio unico amore, cancellava per sempre fra giugno e settembre (ma ci fu chi non mancò chi, allora, figlio di colleghi dei genitori, unico esemplare anche nel seguente senso: di ritorno dal mare, quattro o cinque defatiganti mesi di Isola, in città finalmente poteva respirare a pieni 'polmoni' - era molto magro, esile, emaciato: Dio non voglia che sia stato lui l'amante sostitutivo di Francesca! la 'aria' di Milano, nella cui persistente evocazione del Petrolio lui sentiva, forse presago, una sorta di Salvatio Corporis. Sarà stato perchè i suoi avevano quattro automobili in due. Pochi anni dopo, neopatentato, fu barbaramente ma forse anche allora profeticamente malmenato da alcuni scalmanati per un contromano che, lui al volante, loro avevano imboccato, centrandolo in pieno). Nemmeno ricordo adesso se amai altre Francesche: pur essendo lei - lettori e lettrici non fingano di poterlo ignorare ! un nome da collezione. Ma sbaglio. Una ci fu, rossiccia, carnagione lattea, lentigginosa quanto basta per una fantasia intermittente, una che mi piacque da giovanissimo, durante le mie castissime rivolte di strada milanesi, e che cadde fra le mie ancor giovani braccia fra Milano e Roma durante una trasferta ferroviaria che ma non posso aggiungere altro: non è di questa Francesca che stiamo parlando. (Era sensuale, molto formosa, infantile, voce languida e anche aspra e pungente, quasi implorante, sterno prorompente come il seno, fianchi da non dissipata allevatrice olandese, e petulante quanto bastava per incrinare una qualsiasi imminenza, timida, candidata ideale a quella sottomissione muliebre che avrebbe dovuto suggerirmi di tradurre la nostra avventura romanica (romantica) in uno strascico da Gran Galà lombardo (matrimonio). Fu lei una delle ragazze con cui una volta feci cilecca a metà il peggio che possa capitare a un uomo che in trattoria, in barca, sui libri, alla chitarra e in compagnia dei gatti era dato come uno-e-mezzo, la metà divenendo così il 75 % del tuo (suo) Essere. Ma anche l'Oriente tramontava a metà, e di lì a poco cominciai a comprendere che un simile genere di fallimenti ben anch'io potevo permettermeli. Il peggio l'impotenza, la repressione il peggio non era il male in sé ma il male in me. Che pure, come tutto, si redime e senza perdonarsi perdona, si innaffia e senza idratarsi inebria, rotolandoci in una ennesima sorsata o in un primo turgore di bicipite richiamato dalla riserve. L'altra Francesca, quella che non possedetti, e questa che invece ebbi. E fra le due una rivalità atavica, ancestrale, viscerale, veemente come le tempeste transcontinentali (non si conoscevano: io, ero io il planisfero su cui avveniva quel titanico confronto). Fra loro una differenza minore, nulla, inferiore a quella che poteva passare fra il canale affluente e il canale effluente di un fiumiciattolo a sua volta artificiale insomma, alla differenza fra Milano e Milano. Un numero inesprimibile. Ricordo il suo sapore rossastro, la sua peculiare equidistanza tra frigidità e abbandono, e l'ago della bilancia sempre perfettamente indeciso fra il dirla morbida o soda. Ma è alla prima Francesca, cioè a quella che non ebbi, cioè a Francesca stessa mi avvedo di aver parlato dell'altra nella puerile illusione di ricordare il possesso della stessaè a lei dunque, infine, che andrebbe una buona volta indirizzato e anzi, nuovamente rivolto, il mio pensiero. Ci fosse. Tutti eravamo di sinistra, e tutti estranei a noi stessi; pochi, invece, coloro che osassero l'inaudito coraggio di dirsi e confessarsi estranei gli uni agli altri. Alle altre. Con questo ultimo dire e confessare hanno termine anche i miei ricordi nonché le mie rimostranze nei confronti di quelle due innocenti (dell'una perché non c'è più, dell'altra perché non ci fu mai). Perciò autorizzo chiunque a credere che i miei ricordi in questo somiglino alla prima Francesca, che soltanto a metà mi si concessero, e in quest'altro invece a Francesca seconda, che solo l'altra metà offrono al tatto, al morso e al dovuto rimpianto: e ben però per entrambe resta vero, che anch'esse una dopo l'altra loro rimasero al di là dal vetro.



LODOLA

A tutti fuorché al sottoscritto verrebbe fatto di sorridere, ah Lodola... a tutti tranne a me, perché io Lodola l’ho conosciuta, e garantisco della sua identità come della sua persona. Nonché della singolarità del suo caso: quello di una fanciulla cui il semplice nome donò corpo e esistenza, sobillando senza mai deluderla l’attesa di un piccolo e sempre nuovo miracolo.
L'ultima volta che la incontrai, era ancora del suo ottimo, insondabile umore - ciò che forse rende necessario riferire come si svolse la prima. Camminavo nel bosco di M. il 'mio' bosco era forse l'alba e forse l'imbrunire quando un curioso presagio un doppio presentimento si prese cura e gioco di me. L'impressione che il tempo fosse stanco o confuso, che insomma rallentasse e non sapesse esattamente dove andare, e inoltre di non avere io stesso più alcuna voglia di essere la persona che ero, e di vivere quella sua vita come se davvero fosse la mia. Non che le cose sovvertissero un ordine (l'ordine consueto del loro disporsi e contrapporsi), no, ma che il fluido divenire del tempo, la sua liquida propensione verso l'avvenire si facesse melmosa, e io, ancora inviluppato nelle sue invisibili spire, mi invischiassi in quella palude mollemente e lentamente sostituita al torrente. Ma in effetti: al mio fianco un torrente scorreva, limpido e esiguo, ed ecco che al mio passo accelerato dal presagio ben presto si oppose un piccolo lago. Intorno il bosco era uguale e quello di sempre: pochi, i piccoli animali, e un cielo fatto rado e distante dalla fitta proporzione delle fronde. Circumnavigai il laghetto - che nulla aveva a che fare col torrente e mi ritrovai nel punto dove lo scorsi dapprincipio. Allora fu allora che mi avvidi anche di lei. Stava, come un giunco che l'acqua avesse affidato alla riva, sulla riva opposta alla mia, se così si può dire a proposito di una forma o figura circolare. Si chiamava Lodola e la natura tondeggiante del lago non facilitava certo il compito di dire dove esattamente fosse, sebbene - pensai non appena la vidi ovunque sia il suo corpo, là sarà lei. Quasi sottolineando 'lei in persona'. Vieni disse mi chiamo sai bene come e la sua voce tintinnò come se quelle parole me le avesse sussurrate in un orecchio. Non ricordo di essermi mai mosso un breve vuoto accorse a calmare la mia momentanea ma profonda indecisione e la sentii accanto (non troppo diversamente poco prima avevo avvertito l'inattesa prossimità del ruscello). Non mi chiese il mio nome: lo conosceva. Io vivo qui proseguì Lodola perciò non mi hai mai incontrata e come se più che indovinare anticipasse i miei pensieri e se oggi è potuto accadere, è che da oggi anche tu vivi qui. Devo tornare a casa - replicai sommariamente ma posso tornare quando voglio. Va tutto bene, anche quando non capisci le mie parole: io non parlo per essere capita, e mi prese la mano. Ci incamminammo lungo un sentiero celato dalla luce bluastra delle grosse querce, mano nella mano, estranei come le solitudini di persone che vivano in secoli differenti, gli occhi dilatati dalla penombra che si indovinavano nella più assoluta assenza di sguardi. Giunti alla prima radura Lodola sembrò accennare verso un punto del bosco che ricominciava subito al di là, obbedendo al suo cenno, come forse le obbedivano le fronde, guardai in quella direzione senza vedere nulla di diverso, e al mio primo accenno di interrogazione Lodola era scomparsa. Raggiunsi allora il punto nella cui direzione mi era parso indicasse, mi voltai e potei dirmi certo di non essere mai stato là dove eravamo un attimo prima. Passò molto tempo prima che la incontrassi nuovamente, ma da allora non provai più quel greve senso di mancanza che mi aveva oppresso prima di conoscerla, e smisi di misurare gli intervalli fra un incontro e l'altro: smisi, per così dire, prima ancora di aver cominciato. (Se anzi mi si chiedesse cosa facevo in quel tempo, non saprei rispondere: un vuoto mi era stato donato, che colmava ogni altra mancanza. E un oblio perfetto come un incantesimo mi permetteva e mi obbligava a sapere solo di ei, a vivere di lei e dei pur brevi momenti in cui il bosco che ormai, dall'epoca di quel primo incontro, dovrei chiamare il suo bosco me la concedeva). Lei mi istruiva su ogni sorta di segreto, mostrandomi così che nulla di misterioso mi concerneva, e che tutto nella penombra del suo bosco era rischiarato dalla luce della sua leggera presenza. Era scalza: la pelle dei suoi piedi non risentiva degli aghi di pino né delle spine che da roseti e pruni cadevano sul sentiero né dei ciottoli talvolta acuminati e aguzzi che gremivano quegli stessi intimi camminamenti. Giunsi a pensare che il suo segreto fosse identico al fatto che non esisteva, sebbene, lo ricordo ora come se non avessi più pensato ad altro, sebbene il medesimo dubbio che nutrivo in sua presenza sulla sua realtà si mutasse in sua assenza nella mesta e cullante certezza della sua esistenza. Paralizzato in questo mirabile equilibrio ravvolto in questa gabbia di illusioni cristalline era incomprensibile il mio cammino: che pure percorrevo ormai quasi ogni giorno, guidato da una nuova luce verso i luoghi dove l'avrei rivista. Non accadde mai che la incontrassi due volte nello stesso luogo, e anzi il bosco stesso, i sentieri, il suo piccolo lago tutto mutava di aspetto, e quantunque io continuassi e quasi perseverassi nel sapere che erano lo stesso bosco, lo stesso sentiero e lo stesso piccolo lago misterioso (da quali inveduti ruscelli o sotterranee sorgenti era mai generato?), solo la sua voce rimaneva uguale, e i suoi occhi nocciola cui le lunghe ciglia castane offrivano la cornice più degna. E l'una e gli altri incapaci di incantare, ma in compenso così provvidi delle virtù del risveglio! Vieni diceva spesso a bocca socchiusa non devi seguirmi se non vuoi, ma io so che tu vuoi. Benché il nostro non fosse amore, nemmeno poteva dirsi amicizia il vincolo che fra noi si era creato,  e nei momenti di lontananza, nelle lunghe distanze dei giorni, delle settimane io sentivo nel suo nome che fra me non smettevo di pronunciare l'eco di quel primo incontro, quando non dai suoi discorsi seppi che mi era destinata. Se è vero che la nostalgia, dietro l'apparenza di muoverti verso l'oggetto che suscita i tuoi sospiri, ti sospinge all'indietro verso un passato tanto oscuro quanto irreale, lo è anche e a maggior ragione che la mia non era nostalgia, né impazienza. Vivevo all'ombra di una certezza che mi vietava ogni altra presunzione e a ogni superstizione vittoriosamente mi sottraeva. Quel che devo a Lodola è la redenzione dall'affanno  che prima di incontrarla mi faceva maledire, senza conoscerlo, il fatto di non averla mai incontrata, il tormento di non essere altrove, là dove avrei potuto essere non avessi io mai scelto, o accettato, di trovarmi invece proprio là dove mi trovavo.  Con lei bastava che un ciuffo di capelvenere ci sfiorasse le braccia nude a pochi passi il grottino di roccia con il suo vispo zampillo trasparente perché si sapesse che non c'era e non c'era mai stato nient'altro, alcun uomo, alcuna donna, alcun bosco. Fu così che ben presto ben più che della sua esistenza mi preoccupai e mi dedicai al suo insegnamento, quasi una credula condiscendenza governava la mia nuova inclinazione, e se per esempio lei pur senza affermarlo esplicitamente lasciava intendere che così come non esisteva nessuno che corrispondesse al proprio nome, nello stesso modo non c'era nessuno come lei, io le credevo. Come se mi venisse spogliando di ogni e qualsiasi motivo per sospettare il contrario. Né mai mi impensierirono le sue fugaci nudità. Forse anche perché ne gioivo senza fare altro che fingere di non averle notate, e va da sé, più io fingevo, più la mia stessa nudità, pur protetta da una delle mie molte camice di lino, in autunno dalla classica giacchetta di fustagno, si annunciava al suo sguardo assente. La sua veste assai simile a quelle che nei libri illustrati indossano le fate sin dal primo giorno si rivelò cangiante come la pelle di un animaletto mimetico o lo stesso colore dei mari. Ora torbida e opaca come foglia, ora diafano peplo di vergine, quella tunica garbatamente stretta sui fianchi appena sotto i seni non cessava di ondeggiare, mormorare minime ma insistenti variazioni su un tema che chiunque avrebbe indovinato: la carne. Nelle giornate afose quando non soffiava il vento, lei lo creava: e io sapevo (io che del vento avevo bisogno come dell'aria stessa) di doverle tutto, a cominciare dalla serenità incoscienza? con cui in me accoglievo la certezza di perderla. La conoscenza del futuro nel quale l'avrei perduta. Vieni, seguimi e le sue gote si colorivano di rare e generose screziature del rosa via via che la sua voce passava da una parola all'altra seguimi, vieni Per due o tre volte la seguii inconsciamente, come una scia fedelmente ancorata alla poppa che la fa scaturire. Poi, un giorno, prima che potessi interrogarla o accorgermi che ero sul punto di volerlo fare, non essere preoccupato disse - vedrai che ogni cosa si sistemerà, e tutto tornerà al suo posto. Sapevo che si accingeva a sciogliere ogni nodo e che avrebbe giocato con un nuovo enigma come con il trastullo più comune e innocente, e in fondo insignificante. Quel trastullo quell'ultimo ovvio enigma ero io altri non era né avrebbe potuto essere che io stesso. Il tempo successivo alla nostra conoscenza non fu che il tempo di questa lentissima rivelazione. Sarei stato libero avrei in un certo senso cessato di esistere grazie a lei. Fu un gioco di cui sulle prime non ebbi contezza. Quando la prima volta che la incontrai lei disparve sul limitare della radura, pensai immobile sull'altra sponda di avere impunemente immaginato quell'incontro, e che al posto di Lodola ci fosse stato un sogno a occhi aperti, come sembrava suggerirmi il fatto di non sentirne nostalgia. Non la sognai dormendo la qual cosa mi avrebbe ogni volta lasciato in balia del caratteristico languore che segue ogni sogno sentimentale, per non dire erotico. E di lì in avanti mai mi fu concesso o inflitto il tempo per desiderarla. Talvolta tuttora mi accade di domandarmi se fra noi ci sia stato qualcosa come un amplesso, un bacio, forse anche un abbraccio, e ogni volta la chiara coscienza della mia incapacità di rispondere mi riporta nel bosco sulle orme di Lodola. E in un certo senso fra le sue chiome. Tu sei e allora pronunciò il mio nome - io ti conosco aggiunse appena più sentenziosamente - se proprio ci tieni, puoi lavarmi i piedi. Ci trovavamo sulla sponda del laghetto, per una pura coincidenza. Quando - quando è già accaduto mi chiesi che io le abbia lavato i piedi? E più ancora che in quale vita o in quale sogno, in quale specchio d'acqua se quelle erano, come furono, tali da offuscare il ricordo o il presentimento di ogni altra forma d'acqua? Tu rimugini e non ti accorgi di agire, proseguì, così ti perdi il più bello – proseguì spostandomi la mano verso la caviglia con il dorso del piede opposto. In effetti come se una lepre avesse drizzato le orecchie non c'era alcun bisogno che io riflettessi: lo facevano le acque del lago, raddoppiandoci al chiarore lunare in una terra e in un cielo. E l'acqua divenuta la nostra nuova terra ci cullava nel lentissimo tango di un'estasi per principianti, quasi taciturna, onde tutto il misticismo dell'esistenza tra ciminiere e depositi svaniva senza che alcuna forma di lutto si insediasse al suo posto. Solo un rivolo di rimpianto per il fatto di non accorgermi di quel che pure sentivo, che venivo facendo
Per lei ero un amico, l'amico del bosco. Presenze pur vive, gli animali si tenevano alla distanza perfetta della compiuta discrezione. A non ricordarci il mondo: a non volerci tentare con alcuno dei loro memorabili incantesimi d'oblio. Indifferenti al poco che intorno a noi accadeva, passeggiavamo per lo più in silenzio, ma allora congiunti per il casto caparbio intreccio delle mani, o a brevi passi lontani, quasi volendo che un'altra passeggiata, quella che ci avrebbe condotti guancia a guancia, dovesse completare la prima, la cui meta si stagliava pur sempre dinanzi a noi, chi può dire se al di qua o al di là del Bosco.
Se mi accadde di chiamarlo mio, è perché fu l'unico in cui mi fosse mai stato concesso di essere solo: il solo disertato da viandanti, innamorati, evasi, cacciatori. Quello in cui oggi so già prima potei presentire che qualcosa sarebbe successo e allora soltanto a me successo, alla persona che così intimamente, così meritatamente ne aveva bisogno. Dopo molto tempo le chiesi di poterci rivedere in un posto che ci fosse familiare, ne avevo in mente alcuni - non ci fu nulla da fare. Tu tu non rispetti i patti disse. Noi non abbiamo stretto alcun patto, risposi. Tu e qui nuovamente mi concesse di sentirla pronunciare il mio nome - non mi vuoi seguire, ed è questo che ti addolora. Sì dissi io capisco, forse è proprio a causa tua che nessun posto è mai lo stesso, e la mia richiesta fu stupida come le mie giornate prima che ti incontrassi.
Talvolta per non sporcarsi la veste nelle pozzanghere (che non solo la pioggia ma sporadiche e misteriose falde e esondazioni creavano lì per lì) la sollevava anche oltre le ginocchia, e talvolta, benché solo eccezionalmente, mi faceva capire con un semplice ammiccamento delle spalle e dei piedi che desiderava essere lei stessa sollevata e trasportata al di là di quell'oceano miniaturizzato. Prima di allora non avevo mai osservato che una nuvola potesse assumere le sembianze di un ginocchio muliebre, di una coscia verosimilmente ignota a vestimenti che non fossero la sua ampia e diafana tunica. E più persistente si rivelava la mia volontà di distrarmi più il suo corpo si confondeva al bosco, all'aria prenderla e tenerla in braccio sino a quando non sospettai che l'aria stessa fosse, prima e ultima fonte delle mie visioni, tutta la sua nudità. A che ti serve questa tua bellissima veste? le chiesi un giorno. A ripararmi dalle intemperie replicò Lodola nel più naturale dei modi, e anzi sottolineando, nel tono, l'involontaria insolenza della mia ovvietà. E io non seppi più insistere, non più che se avessi chiesto l'elemosina a uno sconosciuto nel quale proprio la mia richiesta avesse rivelato il mendicante. Era come se la sua voce e l'ammirevole saggezza dei suoi discorsi fossero devoluti alla mia sola persona, e lei non ne avesse alcun bisogno, nemmeno per giocare o distrarsi nelle lunghe ore di silenzio e solitudine. Parlare era per lei l'autonomo stormire di una fronda disertata dal vento. Io ti sono grata perché, pur essendo tu che hai bisogno di me specificò una volta tu sei il mio giocattolo, e in una lievissima attenuazione non offenderti se aggiungo trastullo. Così dicendo aveva leggermente inarcato le sopracciglia, come se qualcosa potesse procurarle dispetto, sicché gli occhi, già grandi, s'erano fatti grandissimi, e luminosi come due laghi repentinamente restituiti alla luce del sole. Sono tante le cose che avevo in animo di chiederti lo so, disse lei come venendo in mio soccorso, quasi che quelle parole fossero uscite non dalle mie ma dalle sue labbra così tante che ora non ne rammentavo alcuna. Prova, ma se ci tieni ti dirò io qualcosa, qualcosa che ti terrà in mia compagnia e ti renderà leggero il passo e il respiro. E, dopo una pausa, questo è un labirinto, se non lo si sa prendere per il giusto verso. Io lo abito, tu lo attraversi. Non c'è altro, vero? chiesi io già rassegnato al silenzio che lei non avrebbe mai accettato di infrangere.
Lodola curava la mia diffidenza con un'arte che pur essendole propria era l'opposto della magia. Potremmo anche fare l'amore - disse una volta nell'atto di liberarsi simultaneamente dai fardelli della sua leggerissima veste e di un raschio alla gola ma non servirebbe a niente - ecco che ora raccoglie i capelli sulla nuca, chiedendomi di sostituirmi al fermacapelli non toglierebbe il tuo intestardito dolore e ancor più enigmaticamente si tuffò nel suo lago. Aveva ragione, naturalmente, ma subito mi fece cenno di seguirla, e non potrei dire cosa poi accadde. Agivo senza coscienza col favore di quelle tenebre che sono le acque nello scintillio del sole penetrato tra le fronde sino alle superfici improvvisamente intorbidite dalla nuvolaglia, ci ritrovammo come tramortiti, foglie di ninfea offerte alla brezza, al ronzio indolente del calabrone nuotava piano e solennemente, un poco innanzi a me, forse sapendo quanto mi piacesse notare i suoi piedi utilizzati come pinne, e vederli creare quella piccola scia di spruzzi dove mi ostinavo a immaginare una prua bifida languidamente beccheggiante verso il mio viso. Approdammo, infine, su una piccola spiaggia bianca, e lei, Lodola, non perse occasione per redarguire la mia diffidenza. Vedi indicandomi un gabbiano che volava basso e di cui individuavamo distintamente i bellissimi piedi c'è anche il mare, e antichi castelli! io distolsi lo sguardo dal cielo alla terra, osservai il minuscolo rudere che lei mi stava segnalando, ma al mio accenno di conferma lei era c'è forse bisogno che io lo ricordi? scomparsa nel nulla (e quasi dovrei aggiungere adesso, il suo nulla), come sempre, come una nube rapita da un vento forestiero. Continuiamo a incontrarci in attesa di un congedo degno del suo nome - rimuginai rivestendomi, e proprio con l'accanimento che lei così spesso e così ragionevolmente mi rimproverava, e non tornai più sull'accaduto.
Fu questo di allora l'intervallo più lungo. Lo fu? Davvero non so. Non so quanto tempo sia trascorso da quell'episodio, né se quella fu l'ultima volta che la vidi.
Ricordo molti altri incontri con Lodola, e ignoro del tutto se furono precedenti o successivi, e se ricordo invece con nettezza il nostro primo, è forse che non sono ancora divenuto il suo discepolo perfetto: e non ho ancora dato propriamente l'addio al tempo. Ed è solo perché forse senza saperlo decisi che fosse tale, e per così dire senza chiedergli il permesso decretai che quell'incontro fosse il primo, l'impreceduto. Ma chi potrebbe garantirlo? Se per caso, per assurdo o invece e all'opposto per una superiore forma di saggezza io avessi, ignaro, dimenticato tutti i precedenti? Se conoscessi Lodola da sempre? Ma che importanza può avere ormai, dal momento che Lodola, lei, abitava nel bosco, là dove il tempo né passava né sostava, e non esisteva salvo per ornare le nostre brevi, indimenticabili riunioni e che io grazie a lei avevo finalmente imboccato la retta via della dispersione e dello smarrimento?

Frammenti

Lodola mi assicurò, indicandone uno in particolare, dicendo che quello era l'albero della vita, ma non era vero, era il suo albero, l'albero nel quale, sul quale e per il quale viveva. Quello che soltanto per me, di quando in quando, abbandonava. Ed era disposta ad abbandonarlo perché sapeva che così facendo, che solo così facendo mi avrebbe incontrato, deduzione logica, considerando che io non vivo sugli alberi, e non mi ci arrampico se non invitato.

Le sole cose che Lodola sapeva di me - e nulla cambierebbe dire indovinava erano il mio nome e la mia diffidenza. Li vinse entrambi. Li ebbe uno dopo l'altro come trofei viventi di uno slancio esaurito nella rinuncia a ogni volontà. Una volta disse: se è per questo io faccio qualcosa di più che non esistere, io amo il mio mondo (alludendo al nostro bosco e, per quanto riguarda l'affermazione precedente, al mio terrore che non esistesse) e non lo tradisco per nessuna ragione, non lo lascerei nemmeno per verificare (in una vetrina di città? Su una sedia di parrucchiere? mi chiesi mentre parlava) che esisto davvero. Come, del resto? A me non importa sapere, perché sapere è non saper amare. Io so che soffri e qui disse il mio nome, solo a lei noto e che diffidi. Perciò ti ho esortato a seguirmi, in un certo senso per distrarti, e d'altra parte anche affinché ti concentrassi meglio su te stesso.

Dicendo di lei ho talvolta l'impressione di tradire un segreto, e non importa se suo o mio, quanto che sia stato fra noi come un silenzio portato dalla perfezione. I luoghi che traversammo insieme passando oltre o facendovi soste quasi sempre decise all'ultimo momento erano altrettanti stati d'animo di una terza persona che veniva allora ad insinuarsi fra noi ma più ancora a nascervi, quasi che la sua inaspettata intrusione avesse a svelare nelle nostre estraneità precedenti le sorgenti di due ruscelli chissà quando confluiti in un'antichissima intimità. E così come i gesti i fatti del corpo erano limitati a un'essenzialità quasi orientale, le parole venivano alle labbra al quasi unico scopo di ritrarvisi, come certe piante che nello splendore della fioritura si rivelano più caduche di tutte le altre.

Vedi bene e qui un ennesimo richiamo al suo attento interlocutore che tutti i vostri discorsi non sono che immagini di un regno proibito, immagini che non dicono niente se non che a quel regno non appartengono, uno specchio appartiene forse al volto che specchia? Come il pianto allude alla felicità recentemente ma forse definitivamente perduta (non è il pianto una bella immagine di un fiume che sorga sotto i tuoi occhi ma non abbia però più fine, e col suo stesso corso allontani per sempre le residue speranze di terminare in una foce?) così i vostri discorsi alludono al regno dove io invece vivo. Vieni a trovarmi ancora, ogni volta capirai qualcosa di più. Ma perché io non sia rimasto con lei e non alludo al fatto che lei non mi congedasse in maniera ordinaria, o che non si assentasse normalmente, per esempio camminando lungo un sentiero e offrendomi le chiome e le spalle, sempre più piccole verso il folto del bosco. A ben guardare, qual è o potrebbe essere la norma di un congedo? Ognuno è fatto a modo suo e proprio a questo proposito, nuovamente la perturbante certezza che nella sua voce fluisse alla luce una sorgente altrimenti segregata nelle mute cecità del sottosuolo. Lodola appariva e scompariva d'improvviso, e io nemmeno volendo avrei potuto rimanere al suo fianco, seguirla senza interruzione lungo il fiume del tempo, per visitare infine la sua dimora. Non si sposta forse l'ombra insieme al corpo? La sua casa sembrava imitarne l'ironica fuga. Io conoscevo bene il bosco: dall'esterno lo avevo più volte circumnavigato, era una piccola isola verde e gialla che gli alberi più imponenti proteggevano da sguardi troppo indiscreti per potersi dire curiosi e troppo curiosi per non essere abbagliati dalla sua iniziatica penombra. Alberi che ne avvolgevano i più intimi recessi creando intorno al suo lago, alle sue minime e impreviste radure come una fitta coltre di penombra, quasi una nebbia reticolare, attraverso la quale risultasse impossibile congetturare le reali dimensioni del luogo. Poi, una volta guadagnati i suoi primissimi meandri, il bosco perdeva ogni relazione con il mondo reale, a cominciare dal fatto che tutto era salvo la sua sostituzione, e includendo nel conto la famiglia di tutti gli altri boschi e così come lo spazio sembrava volerlo contenere solo per instabili frammenti temporanei, il tempo pareva librasi, appena al di sopra delle sue fronde, dei suoi mormorii, dei suoi fogliami come un insetto innocuo e paziente in attesa che una corolla, una foglia, un ciottolo gli significassero il permesso di posarsi. La verità è che quel che siamo soliti chiamare spazio, una volta entrati in quel suo infinitesimo sottoregno, non trovava più posto nel bosco di Lodola, e lei si vedeva per così dire obbligata a creargli di quando in quando una nuova nicchia, un'ennesima svolta del sentiero - ogni volta inedite e a me ignote. Così per il tempo. Non mancarono mai le circostanze e le relative occasioni: entrato al tramonto, lei appena intravista per un saluto che quel giorno mi veniva negato, ne uscivo all'alba, ma come se quel piccolo imprevisto quell'anonimo, innocente diniego della sorte avesse requisito la notte in un luogo a tutti inaccessibile, del tutto inabitato. Lodola, che vi era dentro e del bosco era in un certo qual modo l'indisciplinata vestale, non sapeva nulla di tutto ciò, e la sua profonda saggezza sembrava assorbita dal piccolo prodigio con cui aveva intuito la fallacia e la meschinità dei 'nostri' discorsi: dei discorsi di chiunque non abitasse la sua solitaria foresta, e avrei fatto prima a dire dei discorsi umani. Perciò parlava così poco, sebbene allora così volentieri e talvolta in modo torrenziale: questo bosco è qui da sempre, qui non è mai entrato un dio, e la tua presenza non farà eccezione. Oppure: considera la tua presenza qui accanto come quella di un lettore accanto alla favola che sta leggendo e che nessuno ha scritto, e considera che la sola cosa reale è che lui la stia leggendo. Considera tutto attentamente. E ancora: è ben vero che qui è tutto come se... ma è molto e poi molto più potente di qualsiasi altra realtà, ed è l'ultima cosa a esistere. So - dicendo il mio nome - che ti parrà singolare, ma io non mento e non fingo: il fatto che qui sia tutto come se ci fosse un altrove, proprio questo lo riporta qui e qui lo addormenta.

La sua voce, così rara, breve pioggia in quell'autunno sempre soleggiato, e le sue lentiggini passeggere (una volta pensai che le avesse soltanto nei giorni dispari, ma un rapido conteggio mi obbligò a escludere anche questa ricostruzione), di allora ricordo questo e nient'altro. Come dirlo altrimenti? Ogni volta non un appuntamento ma un incontro casuale; ogni volta un posto diverso e mai lo stesso, uno che prima non c'era, ne ero sempre più che certo, e ogni volta un congedo identico al mistero, alla dissoluzione. E Lodola: sempre uguale a sé stessa, lentiggini a parte.

Una volta la vicinanza delle sue labbra alle mie mi fece capire che non ascoltiamo con le orecchie, ma con lo stesso organo con cui ci facciamo a nostra volta ascoltare, e la sua voce che mormorava sai bene che ti sto baciando, ma è per il tuo bene e non devi inquietartene, e poi io in silenzio che dubitavo di quanto mi accadeva, io che mi ero mutato nel suo stesso abbandono e che per lei avevo rinunciato al mio. Lodola mi stava baciando, e io non potevo sentirla! (Lei stessa, sentiva forse qualcosa, lei?) Chi potrebbe credermi? E, salvo il suo caso, quello di una fanciulla cui nulla importava, né essere vista, né creduta o inseguita, chi altri potrebbe continuare a parlare sapendo di non poter essere creduto?

Aveva i piedi piccoli e torniti da un’antichissima indolenza. Ciò non di meno i boschi, specie quello dove la incontrai, riuscivano a tramutarli in ali: membra di un volatile implume e ornamenti assoluti, assolutamente indifferenti al compito di trasportarla, che pure assolvevano con grazia esemplare. Anche la sua bocca era un guscio: dentro ti saresti aspettato di imbatterti in un boschetto di capelvenere, e invece. Anziché il verde e il nero della penombra vegetale il rosso il rosa e il bianco di una dentatura infantile e di una carne tenebrosamente segreta benché come il bosco a sé del tutto ignara.

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