mercoledì 13 aprile 2016

VEXILLUM REGIS: Una visione per l’Europa smarrita




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E vidi una valle enorme che mai prima avevo visto. Alle sue spalle modeste rocce granitiche le serravano la gola, davanti una pianura ondulata si smarriva oltre e molto oltre ancora i possibili umani sguardi. La vegetazione era rara, insignificante, ma l’erba ondeggiava come grano maturo. Un vento mite e dolce portava qua e là, su e giù, un’atmosfera rarefatta. Nei cieli turchesi, tersi, non un battito d’ali, non ronzio d’insetti. Ma, per tutta l’incalcolabile estensione della valle vidi miriadi e miriadi di uomini, donne, bambini, giovani, vecchi.

Molti stavano in piedi e molti seduti come si sta ad una sosta o attorno ad un fuoco di brace, tanti altri vagavano senza meta come adolescenti o matti nel parco di un manicomio. Quanti stavano seduti parlavano sottovoce con i vicini lingue sconosciute, strane. Coloro, invece, che stavano in piedi gesticolavano molto e i loro indici andavano per tutte le direzioni immaginabili. I tanti che camminavano o meglio si trascinavano cantavano un sommesso lamento, una canzone triste, con labbra secche e chiuse. Camminavano come vagabondi, fannulloni, privi di bussola: lo sguardo vuoto, vitreo, il passo pesante, stanco. Andavano ora verso Oriente ora verso Occidente, ora là ora qua, scontrandosi, anche, ma senza mai fermarsi e guardarsi l’un l’altro.

Nessun bambino, seduto o in piedi, giocava allegramente, spensierato, ma tutti tenevano la mano della mamma o del babbo e tutti si cullavano reclinando la testa sulla pancia o su un fianco del genitore. I giovani si cercavano come all’uscita dalle lezioni, mentre i vecchi scuotevano il capo canuto. Molti giovani si abbracciavano tristi. Alcuni vecchi si soffiavano il naso e sputavano per terra tossendo.

Miriadi e miriadi di uomini osservavano col naso all’insù il cielo o col palmo della mano destra disteso sugli occhi malinconici scrutavano l’orizzonte che sembrava bollire. Non una parola, non un commento, non un’occhiata tra loro. Miriadi e miriadi di uomini soli.

Il sole, ormai alto, raggiante e roteante, rivelava un’infinita varietà di colori, abiti, pelli, occhi, espressioni. Ma le razze illuminate non si toccavano, si sfioravano, ed erano apocalitticamente confuse.

Era, però, una confusione pacifica e la calca non bellicosa. Non un soldato, non un’arma e non c’erano sassi per tutta l’estensione della valle. Le poche ossa di Abele e di Caino giacevano, ignote, chi sa dove, sotto quella miriade di piedi. Da millenni più nessuno le cercava. C’erano tante, tante, tante altre ossa, disseminate come semi.

I più coraggiosi tra gli uomini tentavano di vedere, ma la vista era corta e la ragione – ah la ragione! – ancor di più. Pensare non serviva.  

Qualcuno di questi fu preso sottobraccio dalla disperazione, qualcun altro piangeva coprendosi il volto con le mani tremanti. Le donne, stranamente, non chiacchieravano, ma, mute, si accarezzavano i lunghi capelli sciolti al ritmo del loro respiro.

Si respirava, dunque, dolore, rassegnazione, angoscia grande, smarrimento, indecisione, dubbio. Negli occhi, arrossati, di tutti si potevano leggere senza fatica le domande: Dove, dove stiamo andando? Dove, dove dobbiamo andare?

E quindi, giunse il pomeriggio e insieme un caldo torrido, soffocante, e il sudore iniziò a colare dalla fronte degli uomini.

Quando, un uomo, poi due e poi tre, videro lontano, molto lontano, più lontano, ben oltre la linea indefinibile dell’orizzonte della brulicante pianura un colore nuovo come una macchia bianca luccicante. Questa, lentamente, si avvicinava, avanzava, sempre di più, sempre di più, con passo cadenzato. I tre, allora, indicarono ad altri uomini il luccichio: “Guardate! Guardate là!”. E questi, a loro volta, ad alcune donne: “Guardate! Guardate là!”, che subito iniziarono ad agitarsi, a prendere in braccio i loro bambini più piccoli, ad aiutare le vecchie ad alzarsi in piedi invitandole a guardare là, verso dove ora migliaia e migliaia guardavano allungando il collo. I bambini più grandi si fecero sedere sulle spalle dei loro padri. Numerosi giovani iniziarono a camminare con passo veloce in direzione del sempre più chiaro luccichio. Quando, ecco, uno di loro gridò: “È un vessillo! È un vessillo! È un vessillo!”. E il suo grido riecheggio per tutta la valle come un annuncio festivo.

Ed ecco il vessillo avvicinarsi, rapidamente. Ora lo si poteva vedere assai chiaramente. La sua lunga asta di legno era sormontata da una croce e, sventolando con impeto, mostrava una croce porpora in campo bianco. Agitato, qua e là, da un vento caldo il vessillo era visibile da tutte le direzioni. Miriadi e miriadi di occhi lo guardavano, miriadi e miriadi di indici lo indicavano. I bambini in braccio delle loro madri e quelli sulle spalle dei loro padri lo salutavano agitando le mani e sorridendo. I giovani battevano le mani sollevate al ritmo di una danza contagiosa. Poi, un vecchio, piangendo, ad alta voce disse: “Vexillum Regis! Vexillum Regis! Vexillum Regis!”.

Due vecchi abbracciarono il vecchio e si unirono al suo pianto di gioia. E il vessillo, presto, giunse in quello che era il centro dell’enorme valle. Si fermò sopra una roccia e il vento cessò, improvvisamente. Anche tutti coloro che stavano camminando si fermarono, ad unisono. Tacque come ad ubbidire ad un unico comando il battito delle mani. Calò, quindi, su tutto e su tutti un profondissimo silenzio. I bambini si strinsero al petto delle madri. I giovani si guardarono l’un l’altro. Paura? Timidezza? Sgomento?

Vexillum Regis!”, iniziarono a cantare gli uomini seguiti, poi, dalle loro donne. Il canto si propagò e divenne un coro che non si poteva contare e come un volo si mescolò con l’aria e il cielo.

Vexillum Regis!”, si udiva cantare qui dove il vessillo era vicino e alto, là e oltre dove i volti erano irriconoscibili e le testa variopinte come un mare agitato. E al canto seguì il coraggio e al coraggio la forza e alla forza la commozione che come elettricità passò, velocissima, da uomo a uomo, da donna a donna, da bambino a bambino, da giovane a giovane, da vecchio a vecchio. La valle si colorò di elettro e il cielo si rivestì delle atmosfere di migliaia e migliaia di albe e di tramonti impazziti.

Allora, i giovani andarono ad abbracciare in cerchio il vessillo e il loro cerchio si moltiplicò e moltiplicò come sasso gettato in un lago. E questa moltitudine che nessuno poteva contare divenne un’unica massa festosa danzante in giro al vessillo. Tutti lo guardavano e tutti stendevano la mano destra come per volerlo toccare. E l’angoscia si trasformò in gioia, il pianto in riso.

Nessuno poteva più domandare: “Dove stiamo andando? Dove dobbiamo andare?”, perché tutti lo sapevano bene dove stavano andando, i più vicini, e dove dovevano andare, i più lontani.

Ecco, per tutti, l’alto vessillo; ecco dove guadare, ecco verso dove dirigersi, ecco chi seguire. La bussola, dunque, è stata ritrovata e la stella riscoperta?

La moltitudine immensa, moltitudine di nazioni, razze, popoli e lingue, ormai sembrava non aver più dubbi: Tutti guardavano il vessillo, tutti camminavano in direzione del vessillo. Tutti, perciò, smisero di vagare, tutti voltarono le spalle agli antichi tortuosi sentieri, tutti si lavarono il volto dallo smarrimento e dalla paura.

Gioia, gioia grande e festa, girotondi di bambini per tutta l’estensione a perdita d’occhio della valle vedevo e ammiravo, da Occidente ad Oriente, dal Settentrione al Mezzogiorno.

Vexillum Regis!”, continuarono a cantare e a danzare i giovani che ancora lo toccavano e baciavano pur ormai giunto il dolce calar del sole.

E prima che le stelle della consolazione ammantassero il vessillo, colui che per primo lo aveva visto, gridato, indicato e cantato, così pregò a mani giunte: “Un vessillo per l’Europa! Una croce per l’Europa! Presto, presto!”. E tutti si misero in ginocchio.





(Tempio Pausania, aprile 2016)

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