E vidi una valle
enorme che mai prima avevo visto. Alle sue spalle modeste rocce granitiche le
serravano la gola, davanti una pianura ondulata si smarriva oltre e molto oltre
ancora i possibili umani sguardi. La vegetazione era rara, insignificante, ma l’erba
ondeggiava come grano maturo. Un vento mite e dolce portava qua e là, su e giù,
un’atmosfera rarefatta. Nei cieli turchesi, tersi, non un battito d’ali, non
ronzio d’insetti. Ma, per tutta l’incalcolabile estensione della valle vidi
miriadi e miriadi di uomini, donne, bambini, giovani, vecchi.
Molti stavano in
piedi e molti seduti come si sta ad una sosta o attorno ad un fuoco di brace,
tanti altri vagavano senza meta come adolescenti o matti nel parco di un
manicomio. Quanti stavano seduti parlavano sottovoce con i vicini lingue
sconosciute, strane. Coloro, invece, che stavano in piedi gesticolavano molto e
i loro indici andavano per tutte le direzioni immaginabili. I tanti che
camminavano o meglio si trascinavano cantavano un sommesso lamento, una canzone
triste, con labbra secche e chiuse. Camminavano come vagabondi, fannulloni,
privi di bussola: lo sguardo vuoto, vitreo, il passo pesante, stanco. Andavano
ora verso Oriente ora verso Occidente, ora là ora qua, scontrandosi, anche, ma
senza mai fermarsi e guardarsi l’un l’altro.
Nessun bambino,
seduto o in piedi, giocava allegramente, spensierato, ma tutti tenevano la mano
della mamma o del babbo e tutti si cullavano reclinando la testa sulla pancia o
su un fianco del genitore. I giovani si cercavano come all’uscita dalle
lezioni, mentre i vecchi scuotevano il capo canuto. Molti giovani si
abbracciavano tristi. Alcuni vecchi si soffiavano il naso e sputavano per terra
tossendo.
Miriadi e miriadi
di uomini osservavano col naso all’insù il cielo o col palmo della mano destra
disteso sugli occhi malinconici scrutavano l’orizzonte che sembrava bollire.
Non una parola, non un commento, non un’occhiata tra loro. Miriadi e miriadi di
uomini soli.
Il sole, ormai alto,
raggiante e roteante, rivelava un’infinita varietà di colori, abiti, pelli,
occhi, espressioni. Ma le razze illuminate non si toccavano, si sfioravano, ed
erano apocalitticamente confuse.
Era, però, una
confusione pacifica e la calca non bellicosa. Non un soldato, non un’arma e non
c’erano sassi per tutta l’estensione della valle. Le poche ossa di Abele e di
Caino giacevano, ignote, chi sa dove, sotto quella miriade di piedi. Da
millenni più nessuno le cercava. C’erano tante, tante, tante altre ossa, disseminate come semi.
I più coraggiosi
tra gli uomini tentavano di vedere, ma la vista era corta e la ragione – ah la
ragione! – ancor di più. Pensare non serviva.
Qualcuno di questi
fu preso sottobraccio dalla disperazione, qualcun altro piangeva coprendosi il
volto con le mani tremanti. Le donne, stranamente, non chiacchieravano, ma,
mute, si accarezzavano i lunghi capelli sciolti al ritmo del loro respiro.
Si respirava,
dunque, dolore, rassegnazione, angoscia grande, smarrimento, indecisione,
dubbio. Negli occhi, arrossati, di tutti si potevano leggere senza fatica le
domande: Dove, dove stiamo andando? Dove, dove dobbiamo andare?
E quindi, giunse
il pomeriggio e insieme un caldo torrido, soffocante, e il sudore iniziò a
colare dalla fronte degli uomini.
Quando, un uomo,
poi due e poi tre, videro lontano, molto lontano, più lontano, ben oltre la
linea indefinibile dell’orizzonte della brulicante pianura un colore nuovo come
una macchia bianca luccicante. Questa, lentamente, si avvicinava, avanzava, sempre
di più, sempre di più, con passo cadenzato. I tre, allora, indicarono ad altri
uomini il luccichio: “Guardate! Guardate
là!”. E questi, a loro volta, ad alcune donne: “Guardate! Guardate là!”, che subito iniziarono ad agitarsi, a
prendere in braccio i loro bambini più piccoli, ad aiutare le vecchie ad
alzarsi in piedi invitandole a guardare là, verso dove ora migliaia e migliaia
guardavano allungando il collo. I bambini più grandi si fecero sedere sulle
spalle dei loro padri. Numerosi giovani iniziarono a camminare con passo veloce
in direzione del sempre più chiaro luccichio. Quando, ecco, uno di loro gridò: “È un vessillo! È un vessillo! È un vessillo!”.
E il suo grido riecheggio per tutta la valle come un annuncio festivo.
Ed ecco il
vessillo avvicinarsi, rapidamente. Ora lo si poteva vedere assai chiaramente.
La sua lunga asta di legno era sormontata da una croce e, sventolando con
impeto, mostrava una croce porpora in campo bianco. Agitato, qua e là, da un
vento caldo il vessillo era visibile da tutte le direzioni. Miriadi e miriadi
di occhi lo guardavano, miriadi e miriadi di indici lo indicavano. I bambini in
braccio delle loro madri e quelli sulle spalle dei loro padri lo salutavano
agitando le mani e sorridendo. I giovani battevano le mani sollevate al ritmo
di una danza contagiosa. Poi, un vecchio, piangendo, ad alta voce disse: “Vexillum Regis! Vexillum Regis! Vexillum
Regis!”.
Due vecchi
abbracciarono il vecchio e si unirono al suo pianto di gioia. E il vessillo,
presto, giunse in quello che era il centro dell’enorme valle. Si fermò sopra
una roccia e il vento cessò, improvvisamente. Anche tutti coloro che stavano
camminando si fermarono, ad unisono. Tacque come ad ubbidire ad un unico
comando il battito delle mani. Calò, quindi, su tutto e su tutti un
profondissimo silenzio. I bambini si strinsero al petto delle madri. I giovani
si guardarono l’un l’altro. Paura? Timidezza? Sgomento?
“Vexillum Regis!”, iniziarono a cantare
gli uomini seguiti, poi, dalle loro donne. Il canto si propagò e divenne un
coro che non si poteva contare e come un volo si mescolò con l’aria e il cielo.
“Vexillum Regis!”, si udiva cantare qui
dove il vessillo era vicino e alto, là e oltre dove i volti erano
irriconoscibili e le testa variopinte come un mare agitato. E al canto seguì il
coraggio e al coraggio la forza e alla forza la commozione che come elettricità
passò, velocissima, da uomo a uomo, da donna a donna, da bambino a bambino, da
giovane a giovane, da vecchio a vecchio. La valle si colorò di elettro e il
cielo si rivestì delle atmosfere di migliaia e migliaia di albe e di tramonti
impazziti.
Allora, i giovani
andarono ad abbracciare in cerchio il vessillo e il loro cerchio si moltiplicò
e moltiplicò come sasso gettato in un lago. E questa moltitudine che nessuno
poteva contare divenne un’unica massa festosa danzante in giro al vessillo.
Tutti lo guardavano e tutti stendevano la mano destra come per volerlo toccare.
E l’angoscia si trasformò in gioia, il pianto in riso.
Nessuno poteva più
domandare: “Dove stiamo andando? Dove
dobbiamo andare?”, perché tutti lo sapevano bene dove stavano andando, i più
vicini, e dove dovevano andare, i più lontani.
Ecco, per tutti, l’alto
vessillo; ecco dove guadare, ecco verso dove dirigersi, ecco chi seguire. La
bussola, dunque, è stata ritrovata e la stella riscoperta?
La moltitudine
immensa, moltitudine di nazioni, razze, popoli e lingue, ormai sembrava non
aver più dubbi: Tutti guardavano il vessillo, tutti camminavano in direzione
del vessillo. Tutti, perciò, smisero di vagare, tutti voltarono le spalle agli
antichi tortuosi sentieri, tutti si lavarono il volto dallo smarrimento e dalla
paura.
Gioia, gioia
grande e festa, girotondi di bambini per tutta l’estensione a perdita d’occhio
della valle vedevo e ammiravo, da Occidente ad Oriente, dal Settentrione al
Mezzogiorno.
“Vexillum Regis!”, continuarono a cantare
e a danzare i giovani che ancora lo toccavano e baciavano pur ormai giunto il
dolce calar del sole.
E prima che le
stelle della consolazione ammantassero il vessillo, colui che per primo lo
aveva visto, gridato, indicato e cantato, così pregò a mani giunte: “Un vessillo per l’Europa! Una croce per l’Europa!
Presto, presto!”. E tutti si misero in ginocchio.
(Tempio
Pausania, aprile 2016)
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