venerdì 20 novembre 2015

Vincitori del concorso Rapida.mente 2015

Ecco i vincitori (ci complimentiamo vivamente con loro) della prima edizione del concorso Rapida.mente per la sezione Racconto breve (v. anche la sezione Poesia) selezionati dai giurati a cui va in nostro più sentito grazie.

Classifica Racconti Rapida.mente

1. classificato

Tutti bambini e altri racconti
di Adalgisa Zanotto (Marostica, VI)



[Adalgisa Zanotto è nata a Bassano del Grappa (VI), vive a Marostica (VI). È coniugata e madre di tre figli. Lavora presso un Ente Pubblico. Collabora con gruppi di scrittura creativa e laboratori di poesia. È attiva in associazioni impegnate nel volontariato sociale. La passione per la scrittura l’accompagna da sempre, “scompagina la sua vita, fa crescere la sua libertà, allunga i passi del suo cuore”. Da alcuni anni partecipa a concorsi letterari ed ha ricevuto vari riconoscimenti e molteplici segnalazioni. Nelle sue prose e poesie, inserite in diverse antologie, risaltano sentimenti, emozioni, attese, esperienze di donna, madre, lavoratrice, persona che ama la vita.]


- Basta. Ferma. Stai allagando tutto. Al solito fradicia e felice.
Si gira. Mi guarda con tenerezza. Mi confonde.
- Come hai fatto inginocchiarti?  Non vedi che il bidet tracima. Forza, usciamo. Bisogna cambiarsi.
- Bagno. Bambina.
- Prendi questo asciugamano, è soffice.
Le sue mani forti e grandi carezzano delicatamente la bambola spoglia. Qualcosa mi stringe dentro. Un dolore roccioso frana nello stomaco. Accetterei tutto, ma stare con lei senza poter essere riconosciuta è atroce. C’è stato un lungo periodo in cui non ci parlavamo. Non avevamo niente da dirci ed essere madre e figlia era scomodo per entrambe. Ora ci parliamo senza capirci.
- Acqua. Bambina.
- Sì mamma, con le mani in acqua ti senti regina, vero?
- Regina. Acqua.
- Ti ricordi quando mi facevi il bagno nella bacinella blu? Mi dicevi “basta, è ora di uscire”. Invece continuavi a giocare con l’acqua e la mia pelle e ti divertivi più di me. Non ti lamentavi neanche di dover risciacquare il bucato nella roggia dietro casa. Mi pare ancora di vedere il lavello in pietra, sul ciglio della Moranda. T’inginocchiavi. Ti curvavi a immergere il bucato. Sembrava un inchino all’acqua che scorreva.
- Inchino. Acqua.
- Poi strizzavi cantando. Anche d’inverno. Le tue mani rientravano violacee e intirizzite. Affamate di tepore andavano incontro al tubo della stufa. Ero là al calduccio quando ti ho chiesto perché l’acqua scorreva dietro la Bruna.
- Bruna. Acqua.
- Avevo sentito dal nonno che stava per nascere un vitellino. Ho finto di allontanarmi. Poi sono tornata a sbirciare nella fessura della porta della stalla. Ho visto solo tutta quell’acqua, tanta, uscire dietro la vacca Bruna. Il nonno è uscito improvvisamente in cerca di una corda. Mi ha scoperto e si è arrabbiato. Con il bacio della buonanotte mi hai semplicemente sussurrato: “È l’acqua che fa nascere il vitellino.”
- Vitellino. Acqua.
- Mamma, non te l’ho mai detto che quella notte, quando sei partita in fretta con papà bisbigliando “ora dormi, fra poco arriva la nonna; domani troverai una sorpresa”, mi sono alzata subito per andare nel lettone. Ho trovato le lenzuola bagnate. Anche il pavimento era bagnato. Non capivo come l’acqua avesse potuto scorrere fino alla camera e salire sul letto. Stando rannicchiata al cuscino di papà a un certo punto, limpida, come sorgiva, una certezza: quell’acqua portava il fratellino. E così è stato. È nato Giuseppe.
- Giuseppe. Acqua.
- Mamma, ti voglio bene. Sei sacra. Che strano, ora che tutto mi costa, che tutto è sacrificio, ogni tua parola è goccia preziosa.
- Goccia. Acqua.
- Aspetta. Guarda questo foglietto, era nella tua giacca invernale. Li conosci questi versi?

Goccia
Come si chiama il giorno quando non ci sono
Chi sono quando guardo il presente dal passato
Riconosco l’istante miracoloso del presente
Prigioniera del tempo
Ho bisogno di una goccia ogni giorno
La cercherò, piano, nella vita attorno
Sono acqua che scorre. Irraggiungibile
(…)

Giudizi
Mi piacciono questi racconti; in poche righe riescono a condensare stati d’animo e sfide, piccole e grandi, che arrivano quando meno te lo aspetti e mettono alla prova quello che sei, le persone che hai intorno e quelle che hai avuto intorno. Ciò che ti ha formato e ciò che hai imparato. Piccole sfide che assomigliano agli esami finali dove ti trovi di fronte alle nozioni che hai imparato o che avresti dovuto imparare nell’anno appena trascorso. (Stefano Martello)
Un botta e risposta particolare per raccontare una storia tra affetto e evocazione grazie a una scrittura piacevolmente sincopata. (Stefano Gorla)
Un'intelligente indagine sui sentimenti, che alterna punti di vista differenti nella ricerca di un comune punto di contatto. (Alessandro Zaccuri)


Secondo classificato

Il guaio dell'Africa
di Andrea Mauri (Roma)


[Andrea Mauri vive e lavora a Roma. Ha collaborato con quotidiani, riviste ed emittenti radiofoniche. Dal 1995 svolge attività di redattore in Rai e nell’archivio storico dell’azienda. Pubblica racconti in antologie e riviste on line. Partecipa a premi e concorsi letterari piazzandosi tra i primi tre classificati. Riceve riconoscimenti speciali della giuria e segnalazioni di merito. In altri concorsi arriva finalista.]

Prendo la strada del mercato. Non so dove andare. Almeno in quella piazza c’è tanta gente e non mi sento solo.  Quando ci venivo con la mamma,  lei aveva sempre paura che mi perdessi. Mi prendeva per mano e io mi lasciavo trascinare. Facevo il peso morto. Lei mi strattonava e io le facevo i dispetti. Mi divertivo un mondo. Lei faticava, mi sgridava e io mi lasciavo trascinare su quella strada polverosa. 
Oggi è arrivato un acquazzone. La polvere del mercato si è trasformata in fango. Scivolo sulla terra bagnata. I piedi nudi vanno giù giù nella terra e perdo l’equilibrio. Con questi piedi sporchi di fango la mamma non mi avrebbe fatto entrare in casa. Quando erano i giorni in cui l’acqua arrivava al villaggio, facevo presto a pulirmi. Sennò passavo parecchio tempo in quel piccolo prato vicino casa a strofinare i piedi. A dirla tutta speravo che non ci fosse acqua nei rubinetti, perché il solletico dei fili d’erba sotto i piedi mi faceva ridere.  Oggi il fango me lo tengo. Non ho bisogno di pulirmi. Non torno a casa e poi si asciugherà al sole.
Mi siedo vicino a una signora che vende pane rotondo. Mi stanco presto a camminare da solo. Mi annoio. Gli altri fanno finta di non vedermi. Questa signora, no. Si gira a guardarmi. Mi piace il suo vestito blu. Mi sembra tutta colorata. Quel vestito è quasi uguale a quello che portava la mamma. Toccavo sempre la stoffa quando lo metteva. Era morbida e liscia. Era il suo preferito. Non se l’è tolto nemmeno quando stava male. Rimaneva stesa sul pavimento tutto il giorno e diceva cose strane. La pregavo di alzarsi perché in quel modo rovinava il vestito più bello. Ma non mi dava retta.
Non ho capito che cosa le è successo. Deve essersi ammalata di fatica. Non dormiva più per stare accanto a papà. Lui si è ammalato prima di mamma. Lei lo ha aiutato tanto. Quando usciva per andare a chiamare il dottore mi lasciava dai vicini. Tornava dopo due ore almeno. La mamma e il dottore avevano delle facce tristi. Poi si è ammalata pure lei, dopo qualche settimana. Quando la accarezzavo per farla stare meglio, si tirava indietro. Mi respingeva. Piangevo tutte le notti, di nascosto. Non volevo farmi sentire. Mamma e papà avevano già parecchi guai e mi avrebbero punito per non essere grande abbastanza da non fare capricci. Però io ci soffrivo per non poterli accarezzare. Ho sofferto tanto che non li ho più toccati. Il dottore veniva a visitarli spesso. Rimaneva poco. Parlava con i vicini. Non riuscivo ad ascoltarli. Ogni tanto nominavano una febbre molto pericolosa. La chiamavano il guaio dell’Africa. Prima di andare via, il dottore mi guardava con gli occhi tristi. In quei giorni rimanevo a casa. Guardavo il vestito blu della mamma e non mi avvicinavo per accarezzarla. (…)

Giudizi
Tenero come un bimbo. (Roberto Battestini)
Non è solo l'Africa vista da un bambino… sono i colori caldi dell'Africa, i suoi ritmi naturali, i suoi silenzi pieni di sentimenti semplici e per questo fortissimi nella loro umanità. Un'Africa nella sua più delicata intimità. (Stefania Zanetti)


Terzi classificati ex aequo

Cerco Diogene
di Elena Varriale (Napoli)

[Elena Varriale è nata a Napoli, terra di mare e fuoco e nell’aria che respira ci sono oracoli di Sibilla e canti di Sirene. Ha pubblicato articoli, saggi e due raccolte di poesie (Lo so che sbaglio, Tracce 2007, e Solubile Scompiglio, Tindari Edizioni 2012). Suoi scritti (poesie e racconti) sono stati selezionati e pubblicati in antologie e riviste (Aletti, Giulio Perrone Editore, Lietocolle, Fara, Limina Mentis) e nel blog di Poesia Rai News curato da Luigia Sorrentino. Ha ricevuto riconoscimenti in premi letterari nazionali e internazionali. Il suo romanzo breve Se sei nato caos non puoi diventare armonia è stato pubblicato nell’antologia Faraexcelsior 2013. Il suo scritto “La parola è un silenzio abitato” è inserito ne Il luogo della parola e la silloge Ostaggio del cuore ne Il tempo del padre (entrambi Fara 2015). Fresca di stampa la raccolta poetica Intralci ed intervalli (Fara 2015).]


Una città vale l’altra, ma in questa sembra proprio esserci qualcosa che mi respinge ed emargina, qualcosa che non può o non vuole accogliermi. Di certo, c’è solo il fatto che non ho una casa, un amico o un posto dove andare. Cammino senza méta, strisciando le suole delle mie scarpe rotte sui marciapiedi. Il freddo pungente dell’asfalto risale lento ed inesorabile dai talloni fino alla mia testa, gelandomi la schiena. Brrrr… il freddo! Un unico grande brivido che mi attraversa e fa oscillare le ossa e i miei poveri muscoli intirizziti.
Dietro ogni mio passo s’insinuano insidiosi il gelo, i fantasmi e i ricordi. Un tempo ho avuto un’altra vita: dirigevo una piccola azienda, avevo una moglie giovane e bella ed abitavo in un attico con vista mare. Poi è sopraggiunta la crisi economica, mi sono indebitato a tal punto che le banche hanno rilevato e messo all’asta tutte le mie proprietà. In un solo giorno ho perso tutto, compreso la mia bella e poco devota moglie!
Da allora, vivo per strada e non so più neanche chi sono e  dove vado. Mi accompagna una sola certezza: – Diooogeneee… io cerco Diogene!
Lui cercava l’uomo, l’essenza dell’essere, lo scopo e il fine del vivere. Domande su domande. Una montagna di domande nei pensieri e solo una collinetta di risposte nel cuore. Quante volte, Diogene si sarà arreso innanzi al dubbio, al dilemma, al non risolto? E quante volte, invece, avrà resistito, ceduto o perduto il senso di realtà?
– Diogeneeee… dove sei Diogeneee? 
Devo avere un aspetto terribile: non c’è passante che non si scosti da me disgustato. Vorrei tranquillizzarli tutti: non scostatevi, non sono pericoloso, né infettivo. Sono solo un invisibile, un out… Tranquilli, io non esisto. Sono il nulla ed il nulla è il nulla. Non si teme e non si evita. Non si cerca e non si trova. Ma esisterà davvero?
Brrr… il freddo punge anche i miei pensieri. Penso a Diogene o parlo di me? In fondo, saremmo una coppia perfetta. Due poveri pazzi alla ricerca dell’essenza umana!Intorno a me, non ci sono risposte, ma la solita folla indistinta di volti e di sguardi. Chiunque di loro potrebbe essere Diogene. Forse, mi ha appena sfiorato e preso dai miei sciocchi pensieri non me ne sono accorto.
– Diogeneeeee? Sei Diogene? – ho gridato ad un passante infreddolito. Mi ha guardato con pietà, poi ha fatto scivolare un biglietto di cinque euro nella mia mano. Ho guardato i soldi e senza perdere tempo sono corso a comprarmi del  vino rosso.
Il vino è il miglior antidoto al gelo della notte, nonché il mio più affidabile compagno nelle spirali di domande che mi travolgono e stordiscono.Sono ormai tre anni che vivo per strada e mi piace sentire scorrere la vita al mio fianco. E’ un magma caldo che scivola lungo i marciapiedi, un flutto ondeggiante che si confonde nei rumori. La vita freme nei corpi, poi irrora la strada col suo fiotto di aromi. Ah! Il profumo della vita! Peccato che nessuno se ne accorga, che procedano tutti a passo spedito verso qualche direzione: metrò, uffici, studi, negozi o scuole. (…)


Giudizio
Descrizione efficace di una solitudine senza domani. (Roberto Battestini)


Mens sana
di Giuseppe Perciabosco (Palombara Sabina, RM)

[Laureato in Ingegneria Elettrotecnica sui generis, dopo alcuni anni di lavoro in un’azienda multinazionale di computer, Giuseppe Perciabosco ha iniziato ad operare come dirigente nel campo della Formazione e dello Sviluppo manageriale in una società di consulenza, in una multinazionale farmaceutica ed infine come free lance, alternando l’attività professionale nelle aziende con l’insegnamento all’Università. Divoratore instancabile di libri fin dall’età di 10 anni, ha sempre avuto una predilezione per i racconti ed i romanzi fantastici e la fantascienza. La scrittura è diventata un interesse piuttosto recente, motivata dalla voglia di scrivere quello che piace di più leggere. Ad oggi ha scritto numerosi racconti e tre romanzi di genere fantastico.]
  
A mio padre

- Non possiamo usare sempre quelli che arrivano da incidenti o i terminali - disse Reclutatore. - Le caratteristiche sono troppo casuali e noi abbiamo bisogno di soggetti selezionatissimi.
- Abbiamo un piano, ora – replicò Selezionatore. - Una serie di individui con le caratteristiche idonee, a cominciare dal livello intellettivo.
- Speriamo che non si sfascino: sono così fragili!
- Sì, sono fragili, ma in alcuni di loro il potenziale è elevato. Occorre solo un po’ di tempo e tanta pazienza.

La prima volta avvenne sulla spiaggia, in un’assolata mattina d’agosto mentre si avviava a casa dopo le consuete chiacchiere da anziani fatte con gli amici di sempre sulle solite cose, la politica che è sempre la stessa mentre i giovani non sono più quelli di una volta e la salute anche lei, porca puttana! non è più quella di una volta. Paolo, con il suo solito fare istrionico aveva completato il quadro commentando che anche le loro mogli non erano più quelle di una volta! Il che, con una risata, aveva sancito la fine della chiacchierata, richiamati verso casa per il pranzo proprio da una delle signore.
Stavano ancora ridendo, quando Stefano si fermò di colpo, lo sguardo fisso nel nulla, le labbra spalancate e un rigagnolo di saliva che faceva capolino da un angolo della bocca.
Quando Paolo e Luigi si accorsero della cosa erano già andati avanti di qualche metro.
- Che fai non vieni? – Chiese Luigi rivolgendosi indietro all’amico.
Stefano era immobile, gli occhi ora rovesciati all’indietro mostravano il bianco della cornea attraversata dalle sottili venature dei capillari.
- Che hai? – Disse Luigi tornando indietro. – Non ti senti bene? Paolo, Paolo vieni a vedere! Cosa succede a Stefano?
Paolo aveva studiato medicina per alcuni anni, pur senza completarla, e spesso si atteggiava con gli amici a medico di provata esperienza; in quella occasione però rimase senza parole ma con un espressione visibilmente preoccupata in volto.
- Beh, che avete da guardare tutti quanti? – Chiese all’improvviso Stefano.
- Stai bene? – Disse Luigi.
- Benissimo! Perché?
- È che avevi un’aria assente, gli occhi rovesciati all’indietro e sei rimasto immobile per qualche secondo. (…)


Giudizi
Dispersione di un uomo e della sua famiglia. (Roberto Battestini)
Un racconto sul tempo che passa dove si incontrano quotidianità e un pizzico di fantastico. (Stefano Gorla)


Una carezza in un pugno
di Sabrina Zanoni (Brescia)


[Sabrina Zanoni è un’insegnante di tedesco di ruolo nella scuola media. È nata ad Asola (MN) e risiede a Brescia.]

Accidenti, arriverò in ritardo. E cosa dirò poi in ufficio? Quelli mi squadrano sempre da capo a piedi, soprattutto da quando sono con Mirko. Quella volta c’erano anche loro al locale, quelli dell’ufficio, quando Mirko aveva appoggiato a terra la chitarra, era sceso dal palco ed era venuto dritto dritto verso di me per offrirmi una birra. A loro non sembrava vero. E non lo sembrava nemmeno a me. Proprio io? avevo pensato, io che non ero mai stata granché – certo, quella sera mi ero messa in tiro per il compleanno di Leo – e Mirko, bello come un dio, bello e dannato come direbbe qualcuno, mi aveva scelta. Si vedranno i segni sotto gli occhiali? E il foulard al collo li copre bene i graffi? Fammi controllare nello specchietto… È sempre così quando facciamo l’amore… mi è piaciuto fin dall’inizio l’impeto con cui mi cercava, l’urgenza con cui mi voleva… certo, a volte mi fa male, ma nessuno mi ha mai amata così. E che guardino pure i segni quelli dell’ufficio: la loro è tutta invidia.
Che strano, mi viene in mente una vecchia canzone di Celentano … e da un pugno chiuso una carezza nascerà … la la la la la….

Devo chiamare in ufficio e avvisarli che nemmeno oggi andrò al lavoro. E che mandino pure la visita fiscale, così almeno evito la tortura di tornare al pronto soccorso. Questa volta però mi sa che c’è qualcosa di rotto, non riesco a muovere il braccio né ad alzarmi dal letto. E Mirko si arrabbierà come una bestia se torna e mi trova ancora così. Lui dice che lo faccio apposta, che faccio tante scene ma che in fondo mi piace e quando mi guarda con quei suoi occhi infuocati mi convinco che è così… Poi diventa gentile, mi riempie di baci e mi dice “È tardi, ora alzati che ti aspettano i tuoi amiconi…”. Gli amiconi sono i colleghi dell’ufficio. Lui non li può vedere. Da quando siamo insieme io e Mirko non esco più con loro la sera. A dire il vero non esco più molto. Anzi, non esco per niente. Mirko è geloso e questa è una cosa che non può che far piacere ad una donna… I miei colleghi proprio non capiscono, ultimamente mi guardano addirittura con commiserazione, chissà perché. Ma loro non sanno quanto sono felice con Mirko!
Adesso però ho bisogno di un antidolorifico…


Giudizio

Ottobre 2015. Nel momento in cui scrivo, il tema di questo racconto – il racconto stesso – è ancora tristemente attuale, indegnamente presente e schifosamente presente in molte delle cronache che leggiamo svogliatamente tra una fermata di metro e l’altra. Quindi l’Autore o l’Autrice mi perdoneranno se, in questo specifico caso, ho abbandonato volontariamente i panni del giurato tenendomi, nel contempo, ben stretto i 5 punti a mia disposizione che mi consentiranno di dare una chance a questo breve scritto. Perché, in questo caso, non servono sfumature semantiche; non serve nemmeno apprezzare la lingua o i vocaboli o la struttura. Serve parlarne, per guardare in faccia la nostra vergogna e rimanerne inorriditi. Così inorriditi da prevedere una Legge sempre più dura e proporzionata alla miseria di quel gesto. (Stefano Martello)



Riproduzione vietata
di Angela Ambrosini (Città di Castello, PG)


[Angela Ambrosini, insegnante di spagnolo vive in Umbria dove realizza reading commentati, eventi e mostre itineranti di poesie abbinate a opere di pittori, fotografi e ceramisti. Autrice di tre libri di poesie e due di racconti, si occupa di traduzione e di critica letteraria. È stata insignita a Parigi, nel giugno 2015, del Premio “World Literary Prize” alla Cultura.]


Sono di nuovo qui, a elaborare la registrazione capillare, pervicace e oggettiva di un comportamento disturbato, nei limiti in cui può essere oggettiva una simile operazione che difficilmente consente un’analisi fidedegna. Vogliate scusarmi quindi se la mia trascrizione non è specchio fedele della materia che mi impongo di documentare, ma non dipende unicamente da me, anche perché non sono solo. Se fossi solo sarei libero di scrivere e in pace con me stesso. Se fossi solo forse non avrei neppure bisogno di scrivere.
Il primo sospetto risale agli anni universitari. Come tutti i sospetti fu solo una pressione fugace, lasciò l’impronta tenue di un livido e si dissipò nel nulla, come dal nulla era comparso. Tuttavia da quel livido, da quel nulla, si generò un vuoto. Insondabile, impalpabile, inesprimibile, ma ormai il seme era stato piantato, o era caduto lì per caso. Non è dato saperlo. Il seme di un vuoto dunque (e vogliate perdonarmi l’espressione quasi ossimorica, ma non saprei dare diversa definizione) che avrebbe a poco a poco innescato quel sabotaggio permanente delle relazioni umane, stimmate della sua vita, che ha finito per investire anche me. Se lui sapesse, se lui scoprisse che in tutti questi anni l’ho controllato da vicino annotando in segreto le sue impercettibili, inesorabili fibrillazioni verso l’alterità inconfessata e strisciante, non me lo perdonerebbe. Nel mutismo dei suoi sonni farmacologici, nella quiete di un benessere transumante sull’onda delle fasi lunari, nelle tregue di un’apparente normalità che ha permesso anche a me una più trasparente convivenza nelle sue giornate meno umorali, ho trascritto devotamente la bava di viscoso disagio che come una lumaca, lenta e inappellabile ha tracciato anno dopo anno dietro di sé, dentro di sé. E dentro tutti coloro che gli vogliono bene, come me. E io, più di un buon amico, più di un buon fratello, ho cercato di lenire in tutti i modi i parossismi di livore e vendetta rabbiosa che sempre riecheggiano nei suoi deliri di vittimismo patologico, accresciuto dalla graduale riproduzione trasmigratoria dei sintomi dei suoi pazienti verso il reclusorio occulto del sé, del “suo” sé. Riproduzione vietata, quindi, dalla quale non ha saputo né voluto proteggersi, intento com’è a prendere a carico con estrema professionalità e con brillanti risultati solo i casi dei suoi pazienti, per di più da lui assistiti in modo amorevole. (…)


Giudizio
Un racconto impastato con l’atmosfera densa delle Memorie del Sottosuolo e la lucidità tenebrosa di Kirillov dei Demoni. Tellurico nei contenuti, snervante nella narrazione e lacerante nell’effetto immaginativo. Un pugno allo stomaco. Meraviglioso. Nella scia dei “soli neri” – contorti e rivelativi del cuore umano – del Dostoevskij che cita, l’Autore affonda il suo bisturi con precisione e consapevolezza nel sottosuolo antinomico del mero apparire. È coinvolto ma non è invadente, tanto da centrare l’intera narrazione sull’altro più che sulle personali reazioni emotive. Ha la preoccupazione di mostrare, ma non la fretta di dire né di spadroneggiare come scrittore. “Proietta un simulacro, ha per compagna la paura” credo siano le espressioni più potenti; a dire forse che questa sottile e carnevalesca idolatria di sé non può che rifuggire la vita – “hanno occhi e non vedono, hanno bocca e non parlano…sia come loro chi li fabbrica” (Sal 134). (Emanuele Rimoli)
Il mio fiume
di Franca Fabbri (San Mauro Pascoli, RN)

[Franca Fabbri è nata a Rimini. Ha svolto attività di insegnante a Milano e a Rimini. Vive a San Mauro Pascoli (FC). È Accademica Pascoliana e Membro dell’Accademia “Le Tre Castella” (Repubblica di San Marino). Pubblica articoli di attualità, storia, costume, piccoli saggi su riviste letterarie e giornali. Appassionata di Storia dell’Arte, si occupa di pittura e pittori. È presente in antologie poetiche, cataloghi d’arte, poster, pubblicazioni turistiche. Ha ricevuto premi e segnalazioni per poesie e racconti. Sue pubblicazioni: Il Re fioraio (poesie, Longo Editore, Ravenna, 1997); Molecole di poesia tra antica pittura e vecchie parole (poesie e dipinti, Studio Stampa, Repubblica di San Marino, 1999); L’Albero del Melograno (poesie, Longo Editore, Ravenna, 2000); Donne. Vita Amore Passione (poesie e racconti, Raffaelli Editore, Rimini, 2003); A tavola, il girotondo della vita (narrativa-saggistica, Raffaelli Editore, Rimini, 2007); Sto consumando l’ultima casa (Fara 2010); Ore di luce strangolate da clessidre (Fara 2013); Il re fioraio (Longo Editore 2015, tradotto in lingua tedesca con il titolo Der blumen verkaufen König, dalla poetessa Irmentraud ter Ver). Nel 2014 è stata nominata Accademica della Rubiconia Accademia dei Filopatridi.]


“ … le sorgenti del Marecchia sono più misteriose delle sorgenti del Nilo”  (anonimo) 

È concepito nel ventre di un bosco all’Alpe della Luna. È partorito sotto un cespuglio. Intravedi il brillio di un piccolo specchio. È lui. Lo guardi, ti guarda, allunghi una mano a conchiglia e con una carezza raccogli e assaggi un po’ d’acqua, è l’acqua del fiume Marecchia, il mio fiume.
Una volta scoperto vuole presentarsi, far sapere chi è, vuole farti sentire il suono dello zampillo. L’ascolti, lui intanto cerca la sua strada, affronta con coraggio i primi dirupi, li scavalca con decisione, divertendosi a creare allegre cascatelle. È ancora un fiume bambino, ma sta crescendo in fretta, scivola svelto  sul letto di bianca pietra, inciampa su rotondi ciottoli, gli gira intorno, poi continua a scendere, scorge ai bordi ciuffi di erba e, quando si alza, piante di lecci, boschi  di  faggio e roverella, e più lontano, prati e pascoli. Fa amicizia con foglie di ruta, con bacche di ginepro, saluta passando i fiori  di violacciocca, abbarbicati su basse rocce. Alle sue fresche acque, piante e fiori si dissetano, si rinfrescano, godono del loro fruscio.
Scopre di avere un fratello quando si sente abbracciare da un piccolo corso d’acqua, il canto di alcuni uccelli festeggia la loro unione e così il mio fiume s’allarga, comincia a sentirsi importante e si regala una cascata.
Nelle sue acque sono rotolati enormi macigni, la pietra dura lo costringe a restringersi in un budello, lui cerca spazio, fa delle curve, riesce ad allargarsi di nuovo quando arrivano gli abbracci dei nuovi fratelli che portano altra sabbia e ghiaia. E l’acqua cresce, canta, si diverte a cambiare colore,il verde,l’azzurro, il trasparente dove luccicano spinarelli, carpe, trote e tra boscaglie di salici e ontano si posano il passero solitario, il pendolino e, nei canneti, l’usignolo di fiume.
A metà percorso, il mio fiume è cresciuto ancora, si è fatto ragazzo, si guarda intorno e vede apparire delle  rupi che emergono nella valle come zolle galleggianti, si ergono in scoscese pareti rocciose, lui alza gli occhi e vede in alto rocche e castelli, ha tempo e voglia, curioso com’è, di ascoltare i loro  racconti di storia, di guerre, le loro leggende misteriose.
Sa che di lassù si godono splendidi panorami e magnifici paesaggi, anche “lunari” per i calanchi dalla forma curiosa e crudele. (…)


Giudizi
Semplice e immediato nella schiettezza e nell’affetto per i protagonisti, quello “detto” e quello che emerge chiaramente solo alla fine. Lo stile genuino e limpido permette di seguire lo scorrere della vita del fiume con la meraviglia con cui si vedrebbe crescere una persona cara. Armonioso nella visione globale dei rapporti tra uomo, tempo, ambiente, dando un senso di compattezza e solidità mai statico e fissato, al contrario sempre in movimento, sempre in fieri come lo scorrere continuo dell’acqua dalla fonte. La vetta è certamente costituita dai versi finali: uno sguardo gentile, delicato e allusivo del mistero del fiume e dell’uomo. (Emanuele Rimoli)
Tra memoria e contemplazione, un coinvolgente viaggio controcorrente nel passato personale e di una comunità. (Alessandro Zaccuri)

Quarti classificati ex aequo

Di castello in bosco
di Vincenza Scuderi (Catania)

[Vincenza Scuderi è nata a Catania nel 1972, dove vive e dov’è germanista presso l’università. È saggista, traduttrice, e poeta. Nelle sue vesti germanistiche si occupa di letteratura di lingua tedesca (in particolare austriaca), cultura visuale, gender studies, traduttologia, e qualcos’altro. Con Accade soprattutto per la strada ha vinto il concorso “Pubblica con noi 2013” di Fara Editore, raccolta poetica poi apparsa nel volume collettaneo Scelte vincenti (Fara 2013).]


Ogni stanza del castello è ampliamento della principale, in tutte risuona equamente la mia voce e si diffondono i riflessi e i tremolii d’ombra delle mie lampade, accese la sera e durante le giornate poco luminose. Ognuna di esse è insomma ampliamento di me, e non le abbandono mai come non abbandono mai me stessa agli spazi esterni. I tempi degli incantesimi sono passati, mi dicono a volte visitatori occasionali, la magia non ha posto in un mondo che non è più neppure moderno. Qui tutto è “dopo” e io mi ostino a vivere nel “prima”. Ma ricordo con ebbrezza di visione il giorno in cui fui condannata a queste mura, l’intimo piacere d’essere costretta – ma la strega lo ignorava – alla mia più grande aspirazione. Raramente le malvagità sortiscono effetti così benigni in chi ne è vittima, ne faccio rito di ringraziamento al cielo tutti i giorni, quando i miei occhi si spalancano. Del resto avrei potuto opporre un antidoto alla formula, per esempio svanendo prima che la strega avesse il tempo di completarla, o pietrificandola nel momento stesso dell’incantesimo. Invece ho preferito pietrificare le mie arti, che comunque conservo ancora intatte.
I visitatori a cui accennavo sono i miei involontari araldi. Da essi ho appreso, nei secoli, catastrofi e carestie, paventate fini del mondo e teorie di liberazione del (dal?) genere umano. Eppure ho sempre la certezza d’aver già sentito gli stessi racconti migliaia di volte. Altri volti, altre voci, nuovi vocaboli per oggetti nuovi, vestimenti cangiati per le stesse idee, spiraliformi nel volgere e rivolgersi. Cosa resta di meglio da fare a una vecchia maga, principessa nubile, se non ritrovare i nessi e sorridere come una parca constatando che il suo sapere lontano (cioè il mio) ha ancora corso ben oltre la modernità? (…)

Giudizio
Racconto che sfrutta l'evocazione visiva, in un incedere che contemporaneamente scopre e vela, incuriosendo e affascinando il lettore. (Stefano Gorla)
Un giorno di follia
di William Protti (Santarcangelo, RN)

[William Protti è nato a San Marino nel 1965 e vive a Santarcangelo (RN). Non uno scrittore ma un creatore di personaggi e storie; ha illustrato alcuni libri (di poesie e rivolti ai bambini) e ha ideato strisce e tavole a fumetti a livello locale. Sue poesie sono apparse (inserite, a sorpresa, da alcuni amici artisti) su cataloghi d'arte, a Rimini e in Repubblica Ceca. Limpegno in campo culturale e artistico lo ha portato a supervisionare e impaginare alcuni libri.]



Quel mattino, Roby si svegliò pieno d’energia e s’avviò gioioso verso la doccia. Qui, distrattamente utilizzò al posto della saponetta un topino di passaggio; il topino, naturalmente, non approvò!
Dopo la doccia forzata, mentre Roby s’aggiustava la cravatta, il topino salì sul comò e si divertì a osservare la propria figura riflessa nello specchio; d’un tratto, notò che “quell’altro” gli faceva l’occhiolino.
«Ma tu stai sempre lì dentro?» gli domandò. “L’Idiota” però non rispose.
Roby si ricordò improvvisamente di non aver mai posseduto una cravatta e corse in camera per togliersela.
«Mia non è!» replicò il topino.
Entrato nella camera, Roby s’accorse che la camera non c’era più, sostituita da un campo da Rugby, dove un vecchio piantava delle rape. Una massa di persone, tante quante ce ne possono stare in un cucchiaino da tè, correva, imprecando silenziosamente.
Roby, confuso, chiese al vecchio il perché di tanta assenza di trambusto e se avesse visto passare una camera, magari con tutta la casa attorno. Quello rispose: «La casa? La casa l’ho piantata con le rape! E anche con l’assenza di trambusto è ora di piantarla!»
Tutto era immerso nel caos, e se anche qualcosa era emerso non gli si trovava il verso! Il topino osservò, come ubriaco, un ladro inseguire una civetta della polizia, che cinguettava all’ombroso sole d’estate.
Le altre auto guidavano… nei musei, e i semafori passavano immancabilmente col rosso. Raggi di luna salivano al cielo, mentre la televisione faceva capolino nelle case delle città di tutto il mondo, il quale, forse per ripicca, già da tempo s’era trasferito altrove.
In piazza Utopia un messo comunale veniva potato da un albero… e sorrideva pure, il tapino!
«È un lavoro pubblico! Sia serio!» gli gridava l’albero. E il pubblico applaudiva.
Roby salì sul terrazzo (benché non ci fosse più la casa). Dal basso un tale gli bisbigliò di scendere ulteriormente.
Roby si ritrovò così a testa in giù, senza peraltro sentirsi sollevato. Il mondo era impazzito? O era impazzito solo lui? Se il diritto era rovescio non v’era che una soluzione: capovolgersi! (…)


Giudizio
Davvero un originale intreccio di parole annodate ad immagini e flashback spaziotemporali. (Stefania Zanetti)



Che il cielo mi abbia in gloria
di Tullio Bugari (Jesi, AN)

[Tullio Bugari è nato a Jesi, dove risiede. nel 1958. Si occupa da sempre di ricerca sociale, formazione, intercultura e raccolta di storie; in particolare negli ultimi anni ho pubblicato: nel 1999, insieme a Giacomo Scattolini, Izbjeglice/Rifugiati, storie di gente della ex-Jugoslavia, con un racconto di Predrag Matvejevic (ed. Pequod, Ancona); nel 2000, “Itinerari, storie di viaggio dentro al mondo”, racconti di migranti raccolti nelle Marche, in Catalogna, in Svezia e in Germania (programma europeo Comenius); nel 2004, Parole condivise (Franco Angeli, collana La Melagrana), il racconto a più voci di un’esperienza di accoglienza scolastica dei minori stranieri nelle scuole di Ancona; nel 2007 e nel 2008 le due antologie Alfabetica, dedicate ai poeti e scrittori migranti che hanno partecipato a Jesi ad Alfabetica, incontri letterari con i nuovi autori in lingua italiana; nel 2011, il romanzo La ragazza che corre (affinità elettive, Ancona); nel 2011, insieme a Giacomo Scattolini, Jugoschegge, storie e scatti di guerre e di pace (Infinito edizioni); nel 2013, In bicicletta lungo la Linea Gotica, in viaggio con la Staffetta della Memoria dal Tirreno all’Adriatico (Infinito edizioni). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista on line Sagarana diretta da Julio Monteiro Martins: www.sagarana.it]


Ma che succede? C’è una strana atmosfera oggi al bar aziendale, sembra d’essere in un film! Nessuna ressa, tutto in ordine, ovattato: quale bizzarra garberia s’è impossessata dei colleghi? In realtà mi puntano, mi studiano, sono attenti, ma fingendosi distratti, hanno lo sguardo diretto con noncuranza altrove. Non proprio disinvolti a dire il vero, li tradisce una certa imbranataggine mentre s’aprono a ventaglio ai miei lati per lasciarmi passare: non sono maestosi come le acque del Mar Rosso con Mosè, è evidente che si preoccupano solo di evitarmi, gli stronzi. Mah! Adesso ci scivolo dentro, fingo anch’io di guardare altrove mentre li osservo, gli stronzi. Avanzo con un passo asettico, come immobile su un tapis roulant. Cerco con lo sguardo i miei amici di caffè per riderci insieme e snobbarla questa misera performance ma non li vedo, dove i sono cacciati? Li hanno confinati in qualche perverso impegno di palazzo? In uno di quei gruppi di lavoro strappapalle che non producono mai un lavoro di gruppo? Peggio per loro, io l’avevo messi in guardia. Anche loro potevano avvisarmi, perché abbandonarmi qui con questi che non mi scrutano smorfiosi, ma che vadano a quel paese me lo gusto da solo il caffè, raccolgo il respiro e mi appoggio al bancone. Toh, è pure pronto, che solerzia! Si dev’essere sparsa voce di qualcosa di speciale che io non so ancora ma elettrizza già l’aria, hanno contagiato anche la barista, magari persino lei è stata informata ma io non ho il tempo di chiederle nulla: con i suoi modi spicci mi sbatte la tazzina sotto il naso e sparisce. Ancora un po’ e me lo tira il caffè, che il cielo se la porti in gloria.
Ora posso gustarlo. Gustarlo? Si fa presto a dirlo! Forse è meglio trangugiarlo in fretta. Già il solo aspetto mi mette ansia, è una cacchetta liquida, la solita mirabile ciufega. Secondo me ci mescola di nascosto nella miscela una polvere di ghianda bruciata, non c’è altra spiegazione. Oppure sarà l’acqua, sarà la mano sarà un colpo che se lo piglia quel caffè dal retrogusto che si appiccica al palato e non lo raschi più via. E le ali di folla del Mar Rosso che fingono di non guardarmi, che fanno? Eccoli là che sorseggiano ‘e ridendo e scherzando’, non prestano attenzione al caffè fingono che sia buono. Che avranno da ridere? Continuano a non filarmi e mi aprono di nuovo un varco appena accenno a muovermi: è forse un delicato invito a sloggiare in fretta da questo luogo, dove ero sceso per rilassarmi un poco, illuso di trovarmi immerso nel calore amico? Non sono più forse parte di questo branco? Che il cielo li abbia in gloria. (…)

Giudizio
Si tratta di un racconto brutale nell’evoluzione e sincopato nel dispiegarsi degli eventi. È un racconto che rispecchia molto la durezza crescente e, per certi versi, abietta del nostro vivere relazionale e non è un caso se sia stato ambientato in un luogo che, più di altri, riflette una anonima e mediocre lotta per la sopravvivenza mentre il buffet della sala mensa rimane intoccato e ben fornito. (Stefano Martello)


Viaggio fra i silenzi (ballata dell’anima viandante)
di Attilio Melone

[Attilio Melone, ingegnere e scrittore, ha pubblicato alcuni romanzi nei quali indaga il rapporto fra l'uomo di oggi alle prese con i vantaggi, i problemi ed i pericoli che derivano dal progresso scientifico e tecnologico. Ha una idea: tutto deve essere affrontato senza mai dimenticare che al centro ci sono la persona umana e la natura. In questo modo, tutti i suoi scritti diventano storie d'amore. Anche l'ultimo che si intitola Ventunesimo Secolo e che qualcuno crede essere un romanzo di fantascienza.]


“Godrà la pace colui che in questo mondo non è mai stato in pace,

colui che non si è radicato nella vita di questo mondo,

che come un fulmine l’ha attraversata nascendo e morendo.
Nel mondo del transeunte non ti arrestare, se non vuoi averne dolore:
a colui che mette radici in questo mondo,la pace del cuore rimane preclusa.
Soltanto chi è morto a questa vita sarà vivo nell’altra.”
(Nisami)

Silenzio…
La cupola del cielo rimanda un silenzio lontano.
“Quale cielo? Quello che sta dentro di me? Quello che vedo fra le giogaie dei monti alle mie spalle o quello che si riflette sul mare, dove svanisce persino il ricordo inquieto che potrei lasciare?”

   L’aria sussurra.
“Hai viaggiato per strade conosciute e per vie inesplorate. Hai compreso l’ignoto e ti sei smarrito dove tutto ti era consueto. Hai imparato che non c’è nulla d’abitudinario al mondo. Neppure la volta celeste che appare immutabile. Neppure il suo silenzio. E ora, guardi, sorpreso, una nuova partenza?
 Hai appena gettato quello che ti legava ad una Terra. I resti di colui che sei stato danzano sul confine fra la tenue luce della notte e l’oblio. Presto, ghermiti dalla risacca, affonderanno poco più al largo.
La luna, tramonta: il buio renderà invisibili le tue lacrime d’addio.
Puoi lanciare lontano il pensiero, ormai. È libero, perché nascosto; è vivo perché è la parte più importante di te.
Seguilo e ricorda: l’eternità non vive qui.”

Silenzio…
È tramontata la luna. La notte è,ormai, soltanto delle stelle. Il firmamento è profondo.
“La tenebra è punteggiata di facole sperdute.  Sono miraggi? Illusioni, come speranze che bruciano?”

   L’aria racconta
“Hai viaggiato per vie conosciute e per altre incerte lungo le quali hai incontrato la vita. Essa, forse, è presente soltanto lontano dalla propria origine. Ha percorso una lunga strada per giungere dalla sua primitiva dimora ai luoghi in cui l’hai trovata.
Vedi laggiù? Un raggio di luna trema ancora sul mare. È un ultimo fantasma: fra te e l’orizzonte.”

Silenzio…


Giudizio
Nel paese che tanto ti assomiglia… (Baudelaire, Invito al viaggio). È un racconto onirico, “spazioso” e abissale, ricorda i testi dei mistici renani. A tratti perfino incorporeo e sbilanciato (affondato?) in un flusso di pensieri di cui è possibile cogliere i collegamenti solo per intuizione. Ha il pregio di essere arioso, non tanto per l’ambientazione e i riferimenti, ma per il respiro variegato e fatto di colori tenui e non aggressivi. Ci si può leggere lo struggimento di un Addio, tanto di chi è partito che di chi è rimasto; non sarebbe estraneo al malinconico scrutatore del cielo, né all’accorato, e forse anche un po’ romantico, indagatore dei desideri umani. È per incoraggiare e per rallentare le corse affannate – come la sabbia: in una clessidra per concorrere col tempo, o all’aperto per affondarvi i piedi come delle radici che attingono linfa. (Emanuele Rimoli)


Quinti classificati ex aequo

La sofferenza delle stelle
di Assunta Barbara Filice (Cosenza)

[Assunta Barbara Filice ha 35 anni. Ha conseguito la Laurea in Scienze Politiche e poi in Giurisprudenza. Si è perfezionata attraverso una serie di Master e Corsi di Specializzazione in ambito giuridico. Ha conseguito anche il titolo di Dottore di ricerca (sempre in ambito giuridico) presso lUniversità Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è autrice di due monografie ed alcuni articoli in discipline di diritto. Per il momento esercita la professione di avvocato all'interno dello staff legale di un Ente regionale… ma si sa… “le vie del Signore sono infinite”.]

“Mondi e mondi…e sistemi di sistemi…
Viaggi… nelle infinite distese dell’etere…che piccoli e grandi astri diffusamente popolano…
Isole del cielo senza tempo… guide di navigatori erranti… eppure immobili…
Figlie obbedienti di uno Spirito creatore…
Signore del tempo e della storia…
Luci… prigioniere di un buio che sussurra sogni e speranze mortali…
custodi di passato, presente e futuro, vegliano…anelando la semplicità di una carezza.
Volgendo lo sguardo al mio cielo… vedo… la sofferenza delle stelle.”


Giudizio
L’empatia con le stelle è una emozione storica ed arcaica... con la loro sofferenza è una variabile che non avevo mai sentito e di questo ringrazio e terrò conto. (Stefania Zanetti)



Il nome dei colori
di Monica Mainikka Mainardi (Ponte San Pietro, BG)


[Monica Mainardi è nata a Milano nel 1966. È laureata in lettere classiche. All’esperienza didattica e alla passione per i classici e l'etimologia ha unito una formazione artistica (dizione e lettura espressiva) e interculturale. Ora si diverte tra attività di editing, formazione, letture pubbliche, percorsi didattici, laboratori ludico-culturali e interculturali. Lavora da sola oppure in collaborazione con educatori, animatori stranieri, grafici… I suoi spazi preferiti sono le scuole, le biblioteche e le librerie. È ideatrice del servizio bibliotecario BabyBiblio, che ha animato per anni in biblioteche della Provincia di Bergamo, secondo gli intenti del progetto nazionale Nati Per Leggere. Ha pubblicato: Le bambole pericolose di Euripide, in De Amore, Atti del Convegno Internazionale Humanitatis Symposium, Centrum Latinitatis Europae, Genova (Delta 3, 2012); La chiave delle parole: guida e strumenti per la riflessione etimologica, (Youcanprint Edizioni 2012).]



Com’era bella quella città sul pianeta Terra! 
Era grande e luminosa, seduta ai piedi dei monti e con lo sguardo rivolto verso il mare. Kopì ci viveva da oltre un anno e non si sentiva più un estraneo come i primi tempi.
Ormai aveva imparato abbastanza bene le abitudini degli umani e il loro linguaggio. Aveva tanti amici con cui giocava e scherzava e che lo facevano sentire a suo agio, come uno di loro.
Ma c’era una cosa, una cosa sola, che proprio ancora non capiva: lo stranissimo modo che gli umani avevano di concepire i colori. 

– Kopì, questa è una fragola: dimmi, di che colore è?
Be’ certo, all’inizio a scuola si era sforzato non poco di imparare il nome dei colori nella nuova lingua. La maestra gli mostrava con un largo sorriso alcuni esempi da riconoscere e da nominare e i colori degli oggetti coincidevano sempre perfettamente con quelli che aveva in mente lui.
Intendo dire: se la maestra gli insegnava a chiamare ROSSO il colore delle ciliegie e delle fragole mature stampate sul libro di scuola, quel ROSSO corrispondeva pienamente alla sua idea di rosso…
Lo stesso valeva per il giallo del limone e del sole, e anche per il bianco della neve e dello zucchero, il rosa delle rose e delle nuvole al tramonto, il verde dei prati e delle piante, il nero del petrolio e del caffè e così via...
– Bene, Kopì, vedo che fai progressi, continua così!
E quindi? Tutto a posto allora? Eh no, proprio no! 
Il problema, infatti, si presentava quando si trattava di indicare il colore dei suoi compagni di classe. Sì, perché in quella città vivevano bambini e adulti coloratissimi, spesso diversi gli uni dagli altri per il colore dei capelli, per il colore degli occhi e per quello della pelle. (…)

Giudizio
Giocoso, profondo e divertente: una lettura adatta a ogni età e utilissima per far dialogare le età fra di loro. (Alessandro Zaccuri)

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