lunedì 17 agosto 2015

Un racconto per Antonio

  
Mio caro Antonio è andata persa la vocazione dei nonni nel raccontare favole, racconti di tesori, orchi, principesse, fantasmi, diavoli, da moltissimi anni.
L’ultima volta che ho memoria di questo raccontare ero un bimbo snello, con una maglietta a strisce, dei sandali ai piedi, che si addormentava sulla grande panca di legno accanto al focolare nella casa dei nonni materni. Ero felice, sai!, anche se nel mio piccolo stomaco c’era soltanto quell’unica fetta di pane fresco irrigata d’olio che mia nonna aveva sfornato la mattina precedente.
I racconti erano caldi come il fuoco del focolare, scaldavano la mente e raggiungevano i miei sogni: per prima cosa diventavo un ricco principe che aiutava i poveri e scacciava i prepotenti dal villaggio; oppure il coraggioso guerriero che sconfiggeva il diavolo che aveva preso possesso del tesoro nascosto, la paura mi attanagliava mentre i fantasmi lanciavano sassi nel buio delle notti quando i miei zii percorrevano i sentieri nei boschi.
Una lunga teoria di personaggi sono svaniti nei ricordi alla comparsa della televisione negli anni Sessanta. I cartoni animati hanno preso il posto dei racconti orali e i nonni un poco per volta li ho accompagnati al cimitero dove torno a trovarli e sorrido di fronte alle loro foto in bianco e nero.
Stamattina, mentre camminavo lungo le stradine del villaggio dove abito, è apparsa una figura straordinaria che è rimbalzata nello specchio della memoria riportandomi alla mente quegli anni Cinquanta fatti di molte necessità: un uomo con una sacca di colore chiaro sulle spalle, munito di una vecchia bicicletta nera  procedeva bussando ai campanelli delle abitazioni sparse lungo il cammino: “Signora potrebbe darmi qualcosa da mangiare?, qualcosa da bere?”
Mio piccolo Antonio sono rimasto piantato di fronte al lento incedere di quell’uomo, non tanto alto, calvo, spalle curve, vestiti sgualciti, scarpe da ginnastica rotte sui lati e  chiedevo: sono tornato indietro nel tempo!?   È bastato poco: un grosso Suv è passato sfrecciando sull’asfalto e lo scarico del carburante ha innescato il senso del risveglio da quel sogno.
“Tatillo 'o cardogne*” , così suonava nel nostro dialetto il nome dato a quell’uomo alto, almeno ottantenne, con un grande mantello nero a ruota sulle spalle, scarpe da militare, sacco bianco unto sulle spalle, che bussava alle porte del rione Misericordia dove abitavo allora. Arrivava quasi sempre all’imbrunire: mangiava un piatto di pasta e fagioli rimasto dal pranzo di mezzogiorno,  beveva avidamente il bicchiere di vino che mia nonna gli porgeva, mentre era seduto sulla pietra che precedeva la soglia di casa. Tirava fuori dal sacco una forchetta e un cucchiaio neri per l’uso, un fazzoletto a quadroni di colore blu e rosso, un coltello a serramanico come quello che mio zio Mario usava per potare le viti. Mangiava: il volto coperto da una lunga barba grigia, pochi denti, il naso aquilino che affondava nel cibo.  Le mosche gli giravano intorno come fosse già cadavere.
A me faceva un po’ paura perché era alto e quel mantello nero a ruota lo faceva somigliare alla figura della Morte dei racconti.
Non era così.  Era soltanto una persona sfortunata, povera, che i famigliari più poveri di lui  avevano messo alla porta.  Dormiva dove capitava, accettava di dormire anche nelle stalle che erano sotto le case dei contadini, insieme all’asino o alla mucca, non aveva rubato mai nulla nella sua vita, era silenzioso.
 Scomparve una notte gelida di febbraio di quegli anni Sessanta, quando la miseria era condivisa e le sagome delle case contadine sventrate dai bombardamenti alleati circondavano come fantasmi la mia infanzia. Il calore umano che dividevamo con quell’uomo non era bastato a salvarlo.
Credimi, figlio mio!, una cosa sola non riesco a ricordare in nessun modo di quell’uomo,  oggi  che viviamo con l’acqua calda in casa, la televisione a venderci menzogne e il benessere protetto in frigorifero: i suoi occhi… che colore avevano?
   

Nel dialetto irpino sta per nonno.

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