mercoledì 3 giugno 2015

Expoesia




Laboratorio didattico coordinato da Rosamaria Rita Lombardo (v. intervista di Giovanni Pacchiano su Sette del Corriere della Sera) presso l'Istituto Bertrand Russell di Milano  (Dirigente Scolastico Laura Gamba, che ringraziamo per l'attivo sostegno).



GUSTATEVI UN’EMOZIONE

PRESENTAZIONE

In occasione dell’EXPO 2015 abbiamo pensato, come classi I B scientifico, II A scienze umane e II B scienze umane, insieme alla nostra docente di lettere e latino, professoressa Lombardo, di effettuare e realizzare, nell’ambito dell’insegnamento di italiano, un inusitato e curioso percorso didattico dedicato al cibo nella poesia: una storia in versi dell’alimentazione, del gusto e della cultura della terra. Ma si può parlare di cibo in versi? Farlo non è facile: la letteratura poetica in cui compaiono i prodotti della terra sia come fonte d’ispirazione ,sia come semplice passaggio estemporaneo, da noi affrontata mediante l’analisi di splendide poesie di molteplici autori, ci ha condotto a scoprire il vino, “stellato figlio della terra” , pane, “miracolo ripetuto / volontà della vita” , la patata, “rosa bianca e interrata” , il pomodoro, “sole fresco e profondo” , la cipolla, “più bella di un uccello dalle piume accecanti” , il carciofo, “dal tenero cuore” , la castagna, il limone, la mela, la prugna, il cocomero, etc. 
I diversi poeti ,di seguito menzionati, esaltano, nella sfavillante ed indimenticabile luce dei loro versi, l’unicità e la bellezza del loro singolare incontro con i prodotti del nostro pianeta terra e, non da ultimo, del nostro paese Italia, “cuore “del Mediterraneo . 
Speriamo di farvi cosa gradita nel sottoporre alla vostra attenzione il “frutto” del nostro modesto lavoro. 

CLASSI I B SCIENTIFICO (EXPOMERICA-EXPOMEDICA)
II A SCIENZE UMANE (EXPOESIA) 
II B SCIENZE UMANE (EXPOESIA)




PABLO NERUDA

Pablo Neruda, nome d’arte di Ricardo Eliezer Neftalí Reyes Basoalto, è stato un poeta, diplomatico e politico cileno, considerato una delle più importanti figure della letteratura latino-americana contemporanea. Scelse lo pseudonimo di Pablo Neruda, in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda, che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. Definito da Gabriel García Márquez “il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua” e considerato da Harold Bloom tra gli scrittori più rappresentativi del canone occidentale, è stato insignito nel 1971 del Premio Nobel per la letteratura. Ha anche ricoperto per il proprio Paese incarichi di primo piano diplomatici e politici. Inoltre è conosciuto per la sua adesione al comunismo (per cui subì censure e persecuzioni politiche, dovendo anche espatriare), la sua candidatura a Presidente del Cile nel 1970, e il successivo sostegno al socialista Salvador Allende. Morì in un ospedale di Santiago poco dopo il golpe di Pinochet nel 1973, ufficialmente di tumore, ma in circostanze ritenute dubbie, mentre stava per partire per un nuovo esilio.



ODE AL POMODORO

Ode dedicata al pomodoro, che assume il suo vero valore in  pranzi e cene estive, con quel sapore, unico ed inconfondibilmente fresco, con cui si accompagna alla mozzarella e alle bruschette sulla tavola, per rinfrescare le nostre giornate più calde. Si ripresenta poi impetuoso nella stagione fredda, riuscendo ad abbracciare caldamente il nostro inverno, sulla pizza ed in quei così saporiti sughi di carne, di funghi, all’amatriciana. In uno dei versi  più significativi, il pomodoro appare diviso in due emisferi e , presentato come un cervello aperto, si mostra nel colore della passione, espressione d’amore che alla fine riesce ad essere simbolo  di serenità e appagamento. È come se fosse un essere sociale, che sta bene da solo, ma che può essere degno compagno dell’insalata, della cipolla e di qualunque ingrediente gli venga accostato.

La strada
si riempì di pomodori,
mezzogiorno,
estate,
la luce
si divide
in due
metà
di pomodoro,
scorre
per le strade
il succo.
In dicembre
senza pausa
il pomodoro,
invade
le cucine,
entra per i pranzi,
si siede
riposato
nelle credenze,
tra i bicchieri,
le matequilleras
la saliere azzurre.
Emana
una luce propria,
maestà benigna.
Dobbiamo, purtroppo,
assassinarlo:
affonda
il coltello
nella sua polpa vivente,
è una rossa
viscera,
un sole
fresco,
profondo,
inesauribile,
riempie le insalate
del Cile,
si sposa allegramente
con la chiara cipolla,
e per festeggiare
si lascia
cadere
l'olio,
figlio
essenziale dell'ulivo,
sui suoi emisferi socchiusi,
si aggiunge
il pepe
la sua fragranza,
il sale il suo magnetismo:
sono le nozze
del giorno
il prezzemolo
issa
la bandiera,
le patate
bollono vigorosamente,
l'arrosto
colpisce
con il suo aroma
la porta,
è ora!
Andiamo!
E sopra
il tavolo, nel mezzo
dell'estate,
il pomodoro,
astro della terra,
stella
ricorrente
e feconda,
ci mostra
le sue circonvoluzioni,
i suoi canali,
l'insigne pienezza
e l'abbondanza
senza ossa,
senza corazza,
senza squame né spine,
ci offre
il dono
del suo colore focoso
e la totalità della sua freschezza.


ODE ALLA CIPOLLA

Ode alla cipolla è una poesia tratta da una delle opere più conosciute di Pablo Neruda, Odi elementari. Egli  vuole valorizzare alcuni “alimenti elementari” alla base della nostra cucina, della nostra vita. L'idea è semplicemente quella di raccontare il bello e il "buono" di questi alimenti.
La cipolla rappresenta per il poeta un cibo di salvezza, semplice ed essenziale per “sfamare” la fame.

Cipolla, anfora luminosa,
petalo e petalo
si formò la tua bellezza,
squame di cristallo ti accrebbero
e nel segreto della terra oscura
si arrotondò il tuo ventre di rugiada.
Sotto la terra
fu il miracolo
e quando apparve
il tuo rozzo stelo verde,
e nacquero
le tue foglie come spade nell'orto,
la terra accumulò il suo potere
mostrando la tua nuda trasparenza,
e come in Afrodite il mar remoto
duplicò la magnolia
innalzando i suoi seni,
così ti fece,
cipolla,
chiara come un pianeta,
e destinata
brillare,
costellazione costante,
rotonda rosa d'acqua,
sopra
la tavola
della povera gente.
Generosa
disfi
il tuo globo di freschezza
nella consumazione
fervente della pentola,
e la parete di cristallo
al calore acceso dell'olio si trasforma in arricciata penna d'oro.
Anche ricorderò come feconda
la tua influenza l'amor dell'insalata,
e sembra che il cielo contribuisca
dandoti fine forma di grandine
a celebrare la tua chiarità sminuzzata
sugli emisferi di un pomodoro.
Ma alla portata delle mani del popolo,
innaffiata di olio,
spolverata
con un po' di sale,
uccidi la fame
dell'operaio nella dura strada.
Stella dei poveri,
fata madrina
avvolta
in delicata
carta, esci dal suolo,
eterna, intatta, pura
come seme d'astro,
e nel tagliarti
il coltello in cucina
sale l'unica lacrima
senza pena.Ci hai fatto piangere senza affliggerci.
Io ho cantato quanto esiste, cipolla,
ma per me tu sei
più bella di un uccello
dalle penne abbaglianti,
sei per i miei occhi
globo celeste, coppa di platino,
danza immobile
di anemone niveo,
e vive la fragranza della terra
nella tua natura cristallina.



ODE ALLE PATATE FRITTE

Pablo Neruda con questa poesia  vuole esprimere l’amore per le patate fritte e le paragona  alle “nivee piume del cigno del mattino” prima di entrare nella crepitante ambra di ulive, per poi uscire semidorate. Il poeta paragona anche le patate fritte alla “felicità”.

Scoppietta
nell'olio
friggendo
l'allegria
del mondo:
le patate
fritte
entrano
nella padella
come nivee
piume
del cigno del mattino
ed escono
semidorate dalla crepitante
ambra delle ulive.
L'aglio
aggiunge ad esse
la sua terrena fragranza,
il pepe,
polline che attraverso' le scogliere,

vestite 
a nuovo

con abito d'avorio, riempiono il piatto
ripetendo l'abbondanza
e la saporita semplicità della terra.




ODE ALL’APE

La poesia che segue ha come soggetto l'ape, un genere di insetto che ha il ruolo diretto nella produzione di miele “misterioso,ricco e pesante, spesso aroma,liquida luce che cade a goccioloni”, come  ben lo definisce il poeta.

Moltitudine di api!
Entra ed esce
dal carminio, dall’azzurro,
dal giallo,
dalla più tenera
morbidezza del mondo:
entra in
una corolla
precipitosamente,
per affari, esce
con un vestito d’oro
e gli stivali
gialli.      
Perfetta
dalla cintura,
con l’addome rigato
da sbarre scure,
la testolina
sempre
pensierosa
e le 
ali
bagnate:
entra
in tutte le finestre odorose,
apre
le porte della seta,
penetra nei talami
dell’amore più fragrante,
inciampa

in
una
goccia 
di rugiada
come in un diamante
e da tutte le case
che visita
estrae 
il miele
misterioso,
ricco e pesante
miele, spesso aroma,
liquida luce che cade a goccioloni,
finchè al suo
palazzo
collettivo
ritorna
e nelle gotiche merlature
deposita
il prodotto
del fiore e del volo,
il sole nuziale serafico e segreto!

Moltitudine d’api!
Elevazione sacra
dell’unità,
collegio
palpitante!

Ronzano
sonori
numeri
che lavorano
il nettare,
passano
veloci
gocce
d’ambrosia:
è la siesta
dell’estate nelle verdi
solitudini
di Osorno. Sopra
il sole inchioda le sue lance
nella neve,
risplendono i vulcani,
ampia
come
i mari
è la terra,
azzurro è lo spazio,
ma
c’è qualcosa
che trema, è
il bruciante
cuore dell’estate,
il cuore di miele
moltiplicato,
la rumorosa
ape,
il crepitante
favo
di volo e oro!

Api,
lavoratrici pure,
ogivali
operaie, 
fine, scintillanti
proletarie,
perfette,
temerarie milizie
che nel combattimento attaccano
con pungiglione suicida,
ronzate,
ronzate sopra
i doni della terra,
famiglia d’oro,
moltitudine del vento, scuotete l’incendio
dei fiori,
la sete degli stami,
l’acuto
filo
di odore
che raccoglie i giorni,
e propagate
il miele
oltrepassando
i continenti umidi, le isole
più remote del cielo
dell’ovest.

Sì:
la cera innalzi
statue verdi,
il miele
sparga
lingue
infinite,
e l’oceano sia
un alveare, 
la terra
torre e tunica
di fiori,
e il mondo
una cascata,
chioma,
crescita
inesauribile
di favi!


ODE AL PANE

Neruda con la poesia Ode al pane dà la descrizione perfetta di quello che il pane rappresenta: terra, bellezza e amore. Non si potrebbe descriverlo in maniera migliore.
Il pane è metaforicamente il sapore delle cose semplici. In questo momento tutti avremmo bisogno di pane, per riscoprire il valore delle cose essenziali come la terra da cui ogni cosa ha origine e l’amore, motore del mondo.

Dal mare e della terra faremo pane,
coltiveremo a grano la terra e i pianeti,
il pane di ogni bocca
di ogni uomo
ogni giorno
arriverà perché andammo a seminarlo 
e a produrlo non per un uomo 
ma per tutti
la terra,
la bellezza,
l’amore 
tutto questo ha il sapore di pane




ODE ALLA PRUGNA

La poesia Ode alla prugna ritrae la prugna come frutto della memoria, poiché il poeta, tenendola tra le mani, rivive i momenti e le emozioni della sua infanzia e adolescenza.
In essa l'Autore riporta le emozioni che si provano durante la giovinezza e li paragona alle sensazioni che si provano all'assaggio di una prugna.

Da allora
la terra, il sole, la neve
le raffiche
della pioggia in ottobre
per le strade,
tutto,
la luce, l'acqua,
lasciarono
nella mia memoria
odore
e trasparenza
di prugna.
La vita
ovalizzò in un calice
il suo splendore, la sua ombra,
la sua freschezza.
Oh bacio
della bocca
nella prugna,
denti
e labbra
pieni
dell'ambra odorosa
della liquida
luce della prugna.




ODE ALLA MELA

Ode alla mela di Pablo Neruda è un componimento incluso all’interno dell’opera Terzo libro delle odi. L’io lirico si rivolge alla mela. Attraverso l’atto del mordere la mela, l’Autore vuole rappresentare il passaggio dall’innocenza primordiale all’evento della modernità .

Te, mela,                                                         
voglio
celebrare
riempiendomi
la bocca
col tuo nome,
mangiandoti.
Sei sempre
nuova come niente altro,
sempre
appena caduta
dal Paradiso:
piena
e pura
guancia arrossata
dell’aurora!

Quanto difficili
sono
paragonati
a te
i frutti della terra,
le uve cellulari,
i manghi
tenebrosi,
le prugne
ossute, i fichi
sottomarini:
tu sei pura manteca,
pane fragrante,
cacio vegetale.

Quando addentiamo
la tua rotonda innocenza
torniamo per un istante
ad essere
creature appena create :
abbiamo ancora qualcosa della mela.

Io voglio
un’abbondanza totale,
la moltiplicazione
della tua famiglia,
voglio una città,
una repubblica,
un fiume Mississippi
di mele,
e alle sue rive
voglio vedere
tutta
la popolazione
del mondo
unita, riunita,
nell’atto più semplice che ci sia:
mordere una mela.




ODE AL LIMONE

Le odi di Pablo Neruda trasmettono in qualche modo non solo il gusto del cibo ma contengono anche dei messaggi, a volte evidenti, a volte nascosti, riguardo il vero valore della vita presente nelle cose semplici e raggiungibili da chiunque.
Nella poesia che segue, Neruda esalta i limoni come alimento semplice che nutre la nostra vita e la nostra anima.
Parla di essi, dall’inizio della loro maturazione con i loro fiori profumati fino al momento in cui cadono sulla terra.
Da quando i mercati vengono riempiti di questa merce lucente fino all’assaporare, grazie ad essi, il liquore dal sapore intenso.
La descrizione che Pablo Neruda fa del limone è un capolavoro e rende questo frutto un’opera d’arte.
Dovremmo solo imparare ad apprezzarlo di più fermandoci un attimo a guardarlo, gustarlo, odorarlo e a riflettere sulla sua importanza nella nostra vita quotidiana.

Da quei fiori
sciolti
dalla luce della luna,
da quell’odore d’amore
esasperato,
immerso nella fragranza
sorse
dall’albero del limone il giallo,
dal suo planetario
discesero i limoni sulla terra.

Tenera merce!
Si riempirono le costiere, i mercati,
di luce, di oro silvestre,
e aprimmo due metà 
di miracolo, 
acido congelato
che scorreva
dagli emisferi
di una stella,
e il liquore più intenso
della natura, intrasferibile,
vivo, irriducibile,
nacque dalla freschezza
del limone, 
della sua casa fragrante,
dalla sua acida, segreta simmetria.

Nel limone i coltelli 
han tagliato
una piccola cattedrale
l’abside nascosto
aprì alla luce le acide vetrate
e in gocce 
scivolarono i topazi,
gli altari,
la fresca architettura.

Così, quando la tua mano
impugna l’emisfero
del tagliato
limone sul tuo piatto,
un universo d’oro spargi,
una coppa gialla con miracoli,
uno dei capezzoli profumati 
del petto della terra,
il raggio della luce ch’è diventato frutta,
il fuoco minuto di un pianeta.




ODE ALL’ARANCIA

Questo componimento poetico si trova all’interno del Terzo libro delle odi scritto nel 1957. In questa poesia il poeta vuole trasmettere al lettore che l’arancia simboleggia la terra, cioè il mondo e la paragona alla sua amatissima patria. Secondo Neruda la terra ha la forma di un’arancia. 
“L’arancia” è la luce che illumina il suo cammino e il Cile, il suo paese, è rappresentato da un recinto d’aranceti.

A tua somiglianza
e a tua immagine,
arancia,
fu fatto il mondo:
rotondo il sole, circondato
da corteccia di fuoco.
Così fu e così fummo,
scoperti, o terra, pianeta a forma d’arancia.

Patria
mia,
gialla
chioma,
spada dell’autunno,
quando
alla tua luce
ritorno,
alla zona
deserta
del salnitro lunare,
quando
penetro
il tuo contorno, le tue acque,
lodo
le tue donne,
osservo come i boschi
bilanciano
uccelli e foglie sacre,
comprendo che sei,
un’arancia,
un frutto del fuoco.

Sulla tua pelle s’aggruppano
i paesi
uniti
come settori di una sola frutta,
e il Cile, sul tuo fianco,
elettrico,
acceso
sopra
le fronde azzurre
del Pacifico
è un lungo recinto di aranceti.



ODE AL VINO

Neruda con questa poesia elogia il vino e le sue proprietà. Il vino è figlio della terra, è il frutto del lavoro paziente dell'uomo, è l'occasione della socialità, è il trionfo della vita, è il tramite dell'amore. E infatti la parte centrale dell'ode si concentra sui paragoni tra il corpo della donna ed elementi enoici per un' esaltazione dei sensi, per poi tornare a riprendere i temi della socialità del vino e del lavoro comune di uomo e natura per produrlo.

Vino color del giorno,
vino color della notte,
vino con piedi di porpora
o sangue di topazio,
vino,
stellato figlio
della terra,
vino, liscio
come una spada d’oro,
morbido
come un disordinato velluto,
vino inchiocciolato
e sospeso,
amoroso,
marino,
non sei mai presente in una sola coppa,
in un canto, in un uomo,
sei corale, gregario,
e, quanto meno, scambievole.



ODE AL CARCIOFO

Pablo Neruda , poeta dell’ amore, della natura e della passione civile, decide di dedicare un’ode al “fiore” dell’orto: il carciofo. Inserendo la poesia in Ode al vino e altre odi elementari, il cantore Nobel cileno, ne esalta unicità e bellezza a dispetto degli altri ortaggi dall’animo irrequieto che lo circondano.

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell'orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso,
e un bel giorno,
a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo,
non lo teme,
lo esamina,
l'osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,
lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta
del suo cuore verde.


ODE AL COCOMERO

La poesia  Ode al cocomero di Pablo Neruda mostra come le persone nella stagione estiva, visto il caldo e le alte temperature, si sentano stanche e spossate. Provando arsura, gli uomini spengono la loro sete mordendo il cocomero, considerato la pianta della sete.

La pianta dell'estate
intensa,
invulnerabile,
è tutto cielo azzurro,
sole giallo,
stanchezza a goccioloni,
è una spada
sopra i cammini,
una scarpa bruciata
nelle città:
il chiarore, il mondo
ci spossano,
ci colpiscono
gli occhi
col polverone,
con improvvisi colori d'oro,
ci affliggono
i piedi
con spine,
con pietre surriscaldate,
e la bocca 
soffre
più di tutte le dita:
hanno sete
la gola,
i denti,
le labbra e la lingua:
vorremmo
bere a cateratte,
la notte azzurra,
il polo,
e allora
il cielo ci offre
il più fresco di tutti
i pianeti,
lo sferico, supremo
e celestiale cocomero.

È il frutto della pianta delle sete.
È la balena verde dell'estate.

L'universo secco
d'improvviso
cosparso
da questo firmamento di freschezza 
lascia cadere 
la frutta 
traboccante:
s'aprono i suoi emisferi
mostrando una bandiera
verde, bianca, scarlatta, 
che si dissolve
in cascata, in zucchero,
in delizia!

Scrigno dell'acqua, placida
regina
della frutta,
cantina 
della profondità, luna 
terrestre!
Oh, pura, 
nella tua abbondanza
si sciolgono rubini
e ciascuno
vorrebbe 
morderti
affondando
in te
la faccia,
i capelli, 
l'anima!
Ti scorgemmo
assetati
come 
miniera o montagna
di splendido alimento,
ma 
tu diventi
tra i denti e il desiderio
soltanto 
fresca luce
che si scioglie, 
fonte 
che ci ha sfiorato 
cantando.
E così 
non sei indigesto
durante la siesta
ardente,
non sei indigesto,
passi soltanto
e il tuo gran cuore di brace fredda
si trasforma nell'acqua 
d'una goccia.




FEDERICO GARCIA LORCA

Nasce il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, non lontano da Granada ,da una famiglia di proprietari terrieri. I suoi studi regolari sono segnati da numerosi problemi legati ad una grave malattia. Tempo dopo (nel 1915), riesce a iscriversi all'università. All'inizio degli anni '20 è invece a Madrid dove si forma grazie ai contatti con artisti della fama di Dalì, Buñuel ed in particolare Jimenez. Contemporaneamente si dedica alla scrittura di lavori teatrali i cui esordi furono accolti con una certa freddezza. 
Dopo la laurea la sua vita si riempie di nuovi lavori e conferenze. Viaggia molto, soprattutto tra Cuba e gli Stati Uniti, dove ha modo di saggiare in presa diretta i contrasti e i paradossi tipici di ogni societá evoluta. Attraverso queste esperienze si forma in modo più preciso l'impegno sociale del poeta, ad esempio con la creazione di gruppi teatrali autonomi la cui attivitá è finalizzata allo sviluppo culturale della Spagna. L'anno 1934 è segnato da altri viaggi e dal consolidamento delle numerose e importanti amicizie, sino alla morte del grande torero Ignacio Sánchez Mejías, avvenuta in quello stesso anno (ucciso proprio da un toro infuriato durante una corrida), che lo costringe ad un soggiorno forzato in Spagna. Nel 1936, poco prima dello scoppio della guerra civile, Garcia Lorca redige e firma, assieme a Rafael Alberti, altro esimio poeta, ed altri trecento intellettuali spagnoli, un manifesto d'appoggio al Frente Popular, che appare sul giornale comunista Mundo Obrero il 15 febbraio, un giorno prima delle elezioni vinte per un soffio dalla sinistra. 
Il 17 luglio 1936 scoppia l'insurrezione militare contro il governo della Repubblica: inizia la guerra civile spagnola. Il 19 agosto Federico García Lorca, che si era nascosto a Granada presso alcuni amici, viene trovato, rapito e portato a Viznar, dove a pochi passi da una fontana conosciuta come la Fontana delle Lacrime, viene brutalmente assassinato senza alcun processo. 

IL CANTO DEL MIELE

Il canto del miele è un componimento di Federico Garcia Lorca facente parte dei Libros de poemas. La poesia è un’ode dedicata al miele, che canta la dolcezza attraverso il liquido che ne è il simbolo, alimento divinizzato e paragonato alla parola di Cristo che, come il miele, nutre la consapevolezza dell’uomo e lo salva.
Lorca pone il miele come emblema della purezza, dell’amore e della felicità e insieme rappresenta la dolcezza materna della figura femminile (e infatti non bisogna dimenticare che la parola miele in spagnolo è femminile) e infatti viene chiamato epopea dell’amore e materialità dell’infinito. Oltre questo l’alimento viene associato all’atto del fare poesia, “miele dell’uomo”, poesia che però nasce dal dolore per tutto quello che non c’è più e dal segreto dell’anima del poeta.
Come nelle altre sue liriche Garcia Lorca utilizza suggestioni poetiche e immagini vivide e ricche di dolcezza, conferendo a questi versi quella morbida sensualità che caratterizza la sua poesia.


Il miele è la parola di Cristo,
l’oro del suo amore.
Il meglio del nettare,
la mummia della luce di paradiso.

L’alveare è una stella pura,
pozzo d’ambra che alimenta il ritmo
delle api. Seno dei campi
tremulo d’aromi e di ronzii.

Il miele è l’epopea dell’amore,
la materialità dell’infinito.
Anima e sangue dolente di fiori
condensati attraverso un altro spirito.

(Così il miele dell’uomo è la poesia
che emana dal suo petto addolorato,
da un favo con la cera del ricordo
creato dall’ape nell’intimità.)

Il miele è la bucolica lontana
del pastore, la zampogna e l’olivo,
fratello del latte e delle ghiande,
regine supreme dell’età dell’oro.

Il miele è come il sole del mattino,
con tutta la grazia dell’estate
e il fresco antico dell’autunno.
E’ la foglia appassita ed è il frumento.

Oh divino liquore dell’umiltà,
sereno come un verso primitivo!
Tu sei l’armonia incarnata,
lo spirito geniale di liricità.

In te dorme la malinconia,
il segreto del bacio e del grido.
Dolcissimo. Dolce.
Questo è il tuo aggettivo.

Dolce come il ventre di una donna.
Dolce come gli occhi dei bimbi.
Dolce come le ombre della notte.
Dolce come una voce.

O come un giglio.
Per chi ha in sé la pena e la lira
tu sei il sole che illumina il cammino.
Equivali a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni.

O  liquore divino della speranza,
dove anima e materia unite
trovano il perfetto equilibrio
come nell’ospite corpo e luce di Cristo.

E’ la superiore anima dei fiori.
Oh liquore che hai unito queste anime!
Chi ti gusta non sa che inghiotte
lo spirito d’oro di liricità.


GIOVANNI PASCOLI

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine Ottocento. La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del “nido” familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano. L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto. Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita. Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi. La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione, sicché la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.
La poesia che segue di Giovanni Pascoli si intitola Il Risotto romagnolesco. È ispirata a quello che pare fosse il suo piatto preferito, glielo cucinava sempre la sorella Mariù. Questo componimento lirico nacque quando Pascoli rispose alla lettera dell’amico Augusto Guido Bianchi in cui esaltava l’arte del risotto alla milanese, suggerendogliene la ricetta. Pascoli lesse, e rispose sotto forma di poesia.


IL RISOTTO ROMAGNOLESCO

Amico, ho letto il tuo risotto in …ai! 
È buono assai, soltanto un po’ futuro, 
con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”! 
Questo, del mio paese, è più sicuro 
perché presente. Ella ha tritato un poco 
di cipolline in un tegame puro. 
V’ha messo il burro del color di croco 
e zafferano (è di Milano!): a lungo 
quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco. 
Tu mi dirai: “Burro e cipolle?”. Aggiungo 
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo. 
Che buon odor veniva dal camino! 
Io già sentiva un poco di ristoro, 
dopo il mio greco, dopo il mio latino! 
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro; 
ha lasciato covare chiotto chiotto 
in fin c’ha preso un chiaro color d’oro. 

Soltanto allora ella v’ha dentro cotto 
il riso crudo, come dici tu. 
Già suona mezzogiorno… ecco il risotto 
romagnolesco che mi fa Mariù.



GALLINE

La scena cui si ispira la poesia è tratta dalla vita reale contadina: in autunno, infatti, al posto della veglia serale, tutta la famiglia si riuniva sull'aia per ripulire le pannocchie e ricavarne il granturco che sarebbe servito sia per l' alimentazione umana (se ne ricavava farina per la polenta), sia per quella animale (cibo per polli e maiali). La spannocchiatura era un' occasione di festa e veniva celebrata con i canti delle ragazze e con i giochi dei ragazzini che si rincorrevano e saltellavano sulle foglie secche del granturco.


Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
che d' arguti galletti ha piena l' aia;

e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo, il granaio, il vin canta nel tino

Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano, e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.


LA POLENTA

La seguente poesia è contenuta nel libro de I Poemetti di Giovanni Pascoli. Essa è composta in terzine dantesche e tratta di argomenti che riguardano la vita di tutti i giorni, in particolare quella di una umile famiglia contadina della Garfagnana.

Ubbidì Rosa al subito comando.
Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale
gettò nell’acqua che fremé ronzando.
Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,
frullò tra le sue mani, e la farina
gialla com’oro nevicava uguale.
Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina
tela si stese. Il bollor ruppe fioco.
Ella ne sparse un’altra brancatina.
E poi spentala tutta a poco a poco,
mestò. Senza bisogno di garzone,
inginocchiata nel chiaror del fuoco,
mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,
fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,
l’ammucchiò nel paiolo, col cannone
di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.



GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nacque a Recanati, città marchigiana , il 29 giugno 1797. È ritenuto il maggior poeta dell’800, ed è una delle più importanti figure letterarie mondiali ed una delle principali del Romanticismo. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso celebre nel panorama letterario europeo. Le sue posizioni materialistiche derivano dall’Illuminismo, a cui unisce però il suo pessimismo. Egli morirà a Napoli il 14 giugno 1837.
Non in molti sanno che Giacomo Leopardi, l’animo filosofico più sensibile del diciannovesimo secolo, odiava la minestra. Nel 1809 a soli undici anni, scrisse una poesia a proposito dell’abominevole minestra.



A MORTE LA MINESTRA

Metti, o canora musa, in moto l'Elicona
e la tua cetra cinga d'alloro una corona.
Non già d'Eroi tu devi, o degli Dei cantare
ma solo la Minestra d'ingiurie caricare.
Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l'oggetto,
e dirti abominevole mi porta gran diletto.

O cibo, invan gradito dal gener nostro umano!
Cibo negletto e vile, degno d'umil villano!
Si dice, che resusciti, quando sei buona, i morti;
ma il diletto è degno d'uomini invero poco accorti!

Or dunque esser bisogna morti per goder poi
di questi benefici, che sol si dicon tuoi?
Non v'è niente pei vivi? Sì! Mi risponde ognuno;
or via su me lo mostri, se puote qualcheduno;
ma zitti! Che incomincia furioso un tale a dire;
ma presto restiamo attenti, e cheti per sentire:
"Chi potrà dire vile un cibo delicato,
che spesso è il sol ristoro di un povero malato?"

È ver, ma chi desideri, grazie al cielo, esser sano
deve lasciar tal cibo a un povero malsano!
Piccola seccatura vi sembra ogni mattina
dover trangugiare la "cara minestrina"?



GUIDO GUSTAVO GOZZANO

Guido Gustavo Gozzano nasce a Torino il 19 dicembre 1883,da una famiglia borghese benestante. Dopo gli studi liceali, poco brillanti,, si iscrive nel 1903 alla facoltà di giurisprudenza a Torino preferendo però ai corsi di diritto quelli storico-letterari del poeta Arturo Graf e in particolare le lezioni libere del sabato pomeriggio. Nel 1909 abbandona definitivamente gli studi giuridici per dedicarsi alla poesia e nel 1911 pubblica il suo libro più importante, I colloqui, che rimangono il suo capolavoro.
Morì a Torino, a soli 32 anni, il 9 agosto 1916.

LE GOLOSE

Il poeta tramite questa poesia vuole ironizzare sulla golosità delle donne, descrivendo le situazioni comiche che gli accadono intorno mentre si trova in una pasticceria.

Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!

Perchè niiun le veda,
volgon le spalle in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la pasta.

C'é quella che s'informa
penosa della scelta;
ne cura tinta e forma.

L'una,pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo,al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.

Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano!che la crema
esce dall'altra parte!.

L'una,  senz'abbondare
a giovine che addocchi,
divora in pace. Gli occhi
alta solleva, e pare

sugga in supremo annunzio,
non crema e cioccolate,
ma superliquefatte
parole di D'Annunzio.

Fra questi aromi acuti,
strani,commisti troppo,
di cedro,di sciroppo,
di creme, di velluti

di essenze parigine,
di mammole, di chiome:

Oh!Le signore come
ritornano bambine!



ALCEO

Alceo nacque nel 630 a.C. a Lesbo da una famiglia aristocratica. La sua vita fu segnata dal vivo interesse politico e dalla lotta contro il potere assolutistico dei tiranni Melancro, Mirsilo e Pittaco: questi scontri lo portarono più volte all'esilio.
I temi delle sue liriche sono la passione per la politica, l’amore, la battaglia e la precarietà della vita e il suo stile è caratterizzato dall'alternanza di toni espressivi, ora più raffinati e simili alla prosa, ora più forti e potenti.
Due dei suoi componimenti poetici sono invece dedicati al vino.

OBLIVIOSO VINO

Nel frammento lirico riportato, Oblivioso Vino percorriamo le tappe fondamentali del simposio secondo la tradizione greca arcaica. Il poeta esorta, dopo il brindisi iniziale, ad ubriacarsi e dunque non ad un bere pacato.
Oltre alla particolare attenzione che dà al vino, egli pone molto interesse anche al modo di bere. Alceo utilizza il verbo “miscelare”, e questo derivava dal fatto che il vino, donato dal figlio di Semele e Zeus per sciogliere l'animo umano dai dolori, non poteva essere bevuto puro, ma veniva mescolato all'acqua per diminuirne la densità e dunque gli effetti sulla mente umana.

Beviamo. A che attendere le tenebre? 
Fugace è il giorno.
Prendi, caro, le grandi coppe variopinte. 
Di Zeus e Sèmele il figlio, ai mortali 
il vino largì, oblio agli affanni.
Mesci! Fino all'orlo sian colme le coppe 
e l'una cacci l’altra.


ANACREONTE

Le sue poesie furono dagli antichi distribuite in cinque libri: tre di poesie propriamente liriche, uno di elegie, uno di giambi. A noi sono pervenuti soltanto frammenti in dialetto ionico con qualche traccia di eolismo.
La sua poesia lirica, dal tono di soffuso edonismo, raffinata e ironica canta innanzi tutto dei piaceri dell'amore, rivolti sia verso le giovani donne sia verso i bei ragazzi, abbinati alla gioia dell'ebbrezza data dal vino; altri suoi temi caratteristici sono il ripudio della guerra, il tormento causato dalla vecchiaia e il culto dionisiaco.


VINO CANORO

Una piccola focaccia
ebbi solo a desinare,
ma di vino colmo un orcio
tutto quanto tracannai.
Or la cetra con passione dolcemente fo
vibrare
e d’amore una canzone
alla bella vo’ cantare



ALDA MERINI 

Alda Merini, poetessa milanese, nasce nel capoluogo lombardo il 21 marzo 1931. Minore di tre fratelli, le condizioni della famiglia sono modeste. Alda frequenta le scuole professionali all'Istituto “Laura Solera Mantegazza”; chiede di essere ammessa al liceo Manzoni, ma – sembra incredibile – non supera la prova di italiano. In questi anni dedica molto tempo anche allo studio del pianoforte. Spinta da Giacinto Spagnoletti, suo vero scopritore, esordisce come autrice alla tenera età di quindici anni. Spagnoletti sarà il primo a pubblicare un suo lavoro, nel 1950: nella Antologia della poesia italiana 1909-1949 compaiono le sue poesie Il gobbo e Luce. Nel 1947 incontra quelle che definirà come “prime ombre della sua mente”: viene internata per un mese all'ospedale psichiatrico di Villa Turmo. Nel 1951, anche su suggerimento di Eugenio Montale, l'editore Scheiwiller stampa due poesie inedite di Alda Merini in Poetesse del Novecento. In questo periodo frequenta, per interesse di lavoro ma anche per amicizia, Salvatore Quasimodo. Sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano, nel 1953. Esce poi il primo volume di versi intitolato La presenza di Orfeo. Due anni dopo pubblica Nozze romane e Paura di Dio. Sempre nel 1955 nasce la primogenita Emanuela: al medico pediatra dedica la raccolta Tu sei Pietro (pubblicata nel 1961). La poetessa inizia poi un triste periodo di silenzio e di isolamento: viene internata al “Paolo Pini” fino al 1972, periodo durante il quale non manca comunque di tornare in famiglia, e durante il quale nascono altre tre figlie (Barbara, Flavia e Simonetta). Dopo alternati periodi di salute e malattia, che durano fino al 1979, la Merini torna a scrivere; lo fa con testi intensi e drammatici che raccontano le sue sconvolgenti esperienze al manicomio. I testi sono raccolti ne La Terra Santa, pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1984. Nel 1981 muore il marito e, rimasta sola, la Merini dà in affitto una camera della sua abitazione al pittore Charles; inizia a comunicare telefonicamente con il poeta Michele Pierri che, in quel difficile periodo del ritorno nel mondo letterario, aveva dimostrato numerosi apprezzamenti sui suoi lavori. I due si sposano nel 1983: Alda si trasferisce a Taranto dove rimarrà tre anni. In questi anni scrive le venti “poesie-ritratti” de La gazza ladra (1985) oltre ad alcuni testi per il marito. A Taranto porta a termine anche L'altra verità. Diario di una diversa, suo primo libro in prosa. Dopo aver nuovamente sperimentato gli orrori del manicomio, questa volta a Taranto, torna a Milano nel 1986: si mette in terapia con la dottoressa Marcella Rizzo alla quale dedicherà più di un lavoro. Dal punto di vista letterario questi sono anni molto produttivi: naturale conseguenza è anche la conquista di una nuova serenità. Negli anni, diverse pubblicazioni consolideranno il ritorno sulla scena letteraria della scrittrice. Nel 1993 riceve il Premio Librex-Guggenheim “Eugenio Montale” per la Poesia, come altri grandi letterati contemporanei prima di lei, tra i quali Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Franco Fortini. Nel 1996 le viene assegnato il “Premio Viareggio” per il volume La vita facile; l'anno seguente riceve il “Premio Procida-Elsa Morante”. Nel 2002 viene pubblicato da Salani un piccolo volume dal titolo Folle, folle, folle d'amore per te, con un pensiero di Roberto Vecchioni il quale nel 1999 aveva scritto Canzone per Alda Merini. Nel 2003 la “Einaudi Stile Libero” pubblica un cofanetto con videocassetta e testo dal titolo Più bella della poesia è stata la mia vita. Nel febbraio del 2004 Alda Merini viene ricoverata all'Ospedale San Paolo di Milano per problemi di salute. Un amico della scrittrice chiede aiuto economico con un appello che le farà ricevere da tutta Italia, e-mail a suo sostegno. La scrittrice ritornerà successivamente nella sua casa di Porta Ticinese. Nel 2004 esce un disco che contiene undici brani cantati da Milva tratti dalle poesie di Alda Merini. Il suo ultimo lavoro è datato 2006: Alda Merini si avvicina al genere noir con La nera novella (Rizzoli). Alda Merini muore a Milano il giorno 1 novembre 2009 nel reparto di oncologia dell'ospedale San Paolo a causa di un tumore osseo. In memoria della sua persona e della sua opera, le figlie Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta, hanno dato vita al sito internet www.aldamerini.it, un'antologia in ricordo della poetessa, un elogio all'ape furibonda, alla sua figura di scrittrice e madre. 

Questa poesia parla dell’incontro vero con l’Altro, grazie alla quale la poetessa vede, riconosce, accetta e rispetta le differenze senza volerle annullare. È stata scritta nel periodo in cui ella frequentava il caffè-libreria Chimera, situato poco  lontano dalla sua abitazione sui Navigli, e ove offriva agli amici del caffè i suoi dattiloscritti.


LA CIOCCOLATA

La dolcezza del cuore
viene da dolci bevande
nere come la notte,
bianche come il paradiso.
Su queste cioccolate si imbastiscono versi o parlate leggere.
È questa l’amicizia che nasce a tavolino
quando tu mi sorridi come la cioccolata.


WISLAWA SZYMBROSKA

Wislawa Szymborska premiata con il nobel e con altri riconoscimenti è considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi tempi. Nasce il 2 luglio 1923 a Kornik.  All’età di sette anni si trasferì con la famiglia a Cracovia. Proprio da quella città inizierà gli studi, e nonostante l’inizio della seconda guerra mondiale Wislawa continuerà i suoi studi liceali fino a conseguire, e si diplomò nel 1941.
Riuscì persino a non essere deportata come lavoratrice forzata. E proprio in questo periodo inizierà la sua carriera di artista.
Dal 1945 comincerà a frequentare l’università, ma per la sua situazione economica dovette lasciarla.
Nel 1948 si sposò ma nel 1954 divorziò. Nel 1996 le fu consegnato il premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette alla situazione storica e biologica di essere scoperto in frammenti d'umana realtà».
Le sue opere sono contraddistinte, dal punto di vista linguistico, da una grande semplicità. Inoltre è una poetessa “miniaturista”, le cui poesie compatte spesso evocano ampi enigmi esistenziali.
Benché molte delle sue poesie siano lunghe una pagina appena, esse toccano spesso argomenti di respiro etico che inducono a riflettere sulla condizione delle persone, sia come individui che come membri della società umana. Lo stile di Szymborska si caratterizza per l'introspezione intellettuale, l'arguzia e la succinta ed elegante scelta delle parole. Non mancano, d'altra parte, aperte denunce di carattere universale sullo stato delle cose.

Con questa poesia intitolata La cipolla, Wislawa pone l’accento su come una cosa così semplice come la cipolla sia più coraggiosa di noi esseri umani che a malapena riusciamo a guardarci dentro. Infatti la cipolla è uguale sia dentro sia fuori. Noi umani invece tendiamo ad avere più caratteri.
La cipolla in sostanza è emblema della perfezione 


LA CIPOLLA

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.




JOHN FULLER

John Fuller è un poeta britannico, nato nel 1937. Ha insegnato nella State University of New York e alla University of Manchester, per poi diventare membro e insegnante alla Magdalene College ad Oxford. Egli ha pubblicato quindici collezioni di poesie, diverse storie brevi ed un romanzo, vincitore del premio Whitbread First Novel Award. Wild Rasperries è tratta dalla collezione Collected poems.



WILD RASPBERRIES

All’interno della poesia John Fuller descrive i lamponi selvatici che crescono in una silenziosa valle, dove l’unico rumore è quello di qualche casuale fischio, paragonandoli a immagini suggestive come ruderi senza tetto, lanterne con la loro luce flebile e  carrozze in attesa. 

Wild raspberries gathered in a silent valley
the distance of a casual whistle from
a roofless ruin, luminous under sprays
like faery casques or the dulled red of lanterns
when the flame is flow and the wax runs into the paper,
little lanterns in the silence of crushed grasses
or waiting chaises with a footman’s lights
curtains hooked aside from the surprising
plump facets padded like dusty cushions
on which we ride with fingers intertwined
through green spiky tunnels, the coach swaying
as it plunges down and the tongues slip together,
the jewels fall to the flood to be lost forever,
the glass shatters and the heart suddenly leaps
to hear one long last sigh from an old blind house
that settles further into its prickly fronds,
speaking of nothing, of love nor of reproaches,
remembering nothing, harbouring no ghosts,
saving us nothing at all but raspberries.


LAMPONI SELVATICI 
(traduzione)

Lamponi selvatici raccolti in una valle silenziosa
la distanza di un fischio casuale da
un rudere senza tetto, luminoso sotto il ramoscello
come caschi fatati o il rosso offuscato delle lanterne
quando la fiamma è flebile e la cera scorre sulla carta,
piccole lanterne nel silenzio dell’erba schiacciata
carrozze in attesa illuminate dalla luce del domestico
tende scostate dai sorprendenti
lati tondi come polverosi cuscini imbottiti
sui quali passeggiamo con dita intrecciate
attraverso gallerie verdi e spinose, la carrozza ondeggia
quando precipita e le lingue scivolano insieme,
i gioielli cadono a terra per essere persi per sempre,
il vetro si frantuma ed il cuore improvvisamente sussulta
per ascoltare un ultimo lungo spettacolo da una vecchia casa nascosta
che si deposita ulteriormente nel suo fronte pungente,
parlando del nulla, né di amore né di vergogna
non ricordando nulla, non ospitando alcun fantasma
nulla ci salva se non i lamponi.




EDUARDO DE FILIPPO

Eduardo De Filippo, (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre1984), è stato un drammaturgo, attore, regista, poeta e sceneggiatore italiano. Fra i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento, è stato autore di numerosi drammi teatrali da lui stesso messi in scena e interpretati e, in seguito, tradotti e rappresentati da altri anche all'estero. Autore molto produttivo e versatile, lavorò nella sua lunga carriera anche nel cinema con gli stessi ruoli ricoperti nell'attività teatrale. Per i suoi alti meriti artistici e i contributi alla cultura, fu nominato senatore a vita dal presidente della repubblica Sandro Pertini. Fu anche candidato per il Premio Nobel per la letteratura.

O 'RRAÙ

Questa poesia è tratta dal libro SI CUCINE CUMME VOGL’Ì. La cucina povera di Eduardo. Si tratta di un poemetto gastronomico che Eduardo cominciò negli anni’ 60, in cui descrive in versi i vari piatti della cucina popolare napoletana da lui più amati fin dall’infanzia con toni rievocativi e "saporiti". In apertura del primo capitolo del libro c'è la poesia dedicata a Sua Maestà ‘O Rraù.

'O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel' 'a miezo st'uso

Sì,va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avéssem' appiccecà?
Tu che dice? Chest' 'è rraù?
E io m' 'o  mmagno pè m' 'o mangià…
M' ' a faja dicere na parola?…
Chesta è carne c' ' a pummarola




IL RAGÙ

Il ragù che a me piace
me lo faceva solo mammà.
Da quando ti ho sposato,
ne parliamo tanto per parla’.
Io non sono difficile;
Ma togliamoci quest’abitudine

Sì, va bene: come vuoi tu.
Ora vorremmo pure litigare?
Tu che dici? Questo è ragù?
Ed io me lo mangio tanto per mangiare…
Ma me la fai dire una parola?…
Questa è carne col pomodoro.




KAHLIL GIBRAN

Autore libanese, di religione cristiano-maronita, emigrò negli Stati Uniti; le sue opere si diffusero ben oltre il suo paese d'origine: fu tra i fondatori, insieme a Mikha'il Nu'ayma, dell'Associazione della Penna che era non altro che punto d'incontro dei letterati arabi emigrati in America. 
Le sue poesie vennero tradotte in oltre venti lingue.
Gibran ha cercato di unire nelle sue opere la civiltà occidentale e quella orientale.

LA MELA 

In questo testo poetico si parla del modo in cui sarebbe giusto mangiare una mela, del fatto che sarebbe giusto far entrare dentro di noi ogni singola parte di ciò che mangiamo, metaforicamente si intende che dovremmo far entrare ogni esperienza della nostra vita dentro alla nostra persona, per far  sì che ci aiuti a crescere, che ci migliori e che renda migliore il nostro futuro. 

E quando addentate una mela,
ditele nel vostro cuore:
i tuoi semi vivranno nel mio corpo
e i tuoi germogli futuri
sbocceranno nel mio cuore,
la loro fragranza sarà il mio respiro,
e insieme gioiremo in tutte le stagioni.



ORAZIO CLARI

Nato a Vado Ligure in provincia di Savona il 15 maggio 1951, figlio di Giuseppe ed Anna Ravera, trascorre la sua gioventù nella città dove è nato, una città prevalentemente industriale della Riviera di Ponente della Liguria, la cui popolazione è costituita prevalentemente dal mondo operaio. L'Autore ritiene che colui che scrive poesie sia una persona che vuole esprimere con esse tutto quello e tutto ciò che non riesce ad esprimere nella vita di tutti i giorni con la parola, spesso è uno sfogo, una ricerca d’aiuto.
Le sue poesie raccontano fatti di vita vissuta, sensazioni, sentimenti, stati d’animo, esperienze del tutto comuni a tutti gli umani.

LA VENDEMMIA

La poesia racconta dello svolgersi della vendemmia che è ricordata dalla fine dell’estate. Sono presenti molti aspetti di essa, tra cui la raccolta dell’uva, il trasporto nelle cantine, la pigiatura e il mosto che ribolle nelle botti. Inoltre, nella lirica, il poeta vuole esprimere l’importanza della vendemmia per un semplice paese di campagna.

L'estate ormai finita
ricorda la vendemmia,
le corse tra i filari
di bimbi gioiosi
con le mani appiccicose
dai zuccheri dell'uva,
mentre coltelli affilati
spogliano i tralci
e riempiono le ceste
che i carri trasportano in cantina.
I grappoli nella botte
aspettano di essere pigiati
dai piedi nudi
di bimbi felici
che sguazzano
dentro il succo prezioso,
mentre le donne
organizzano la cena,
frittelle di patate
e caldarroste,
che tutti assieme
attorno al tavolo
alla fine gusteranno
sorseggiando il mosto,
che nelle botti
inizia a ribollire.



GIOACCHINO ROSSINI

Gioachino Rossini, o Gioacchino, all'anagrafe Giovacchino Antonio Rossini (Pesaro, 29 febbraio1792 – Parigi, 13 novembre1868), è stato un compositore italiano. La sua attività ha spaziato attraverso vari generi musicali, ma è ricordato principalmente come uno dei più grandi operisti della storia della musica, autore di lavori famosissimi e celebrati quali Il barbiere di Siviglia, L'italiana in Algeri, La gazza ladra, La Cenerentola e Guglielmo Tell. Nato a Pesaro il 29 febbraio 1792, tre mesi dopo la morte di Wolfgang Amadeus Mozart, il Cigno di Pesaro – come fu definito – impresse al melodramma uno stile destinato a far epoca e del quale chiunque, dopo di lui, avrebbe dovuto tener conto; musicò decine di opere liriche senza limite di genere, dalle farse alle commedie, dalle tragedie alle opere serie e semiserie. Conosce Isabella Colbran, cantante lirica, maggiore di età, che sposerà a Castenaso il 16 marzo 1822 e da cui si separerà intorno al 1830. Si spense dopo aver lungamente combattuto contro il cancro nella sua villa di Passy, presso Parigi, il 13 novembre 1868.

OPERA BUFFA

Rossini fu un grande personaggio anche a livello culinario.
Era dotato di un palato non solo goloso, ma anche pronto agli abbinamenti più calorici e bizzarri. Grazie a questa poliedrica personalità, musica e cucina s’incontrano in una danza frenetica e giocosa, consegnataci dalla storia attraverso una serie interminabile di aneddoti, lettere, ricette e pagine musicali. 
Nella sua lirica Opera buffa, sono presenti versi in cui spicca la sua passione per il cibo: [Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita…]


Dopo il non far nulla, 
io non conosco occupazione
per me più deliziosa del mangiare,
mangiare come si deve,
intendiamoci.
L’appetito 
è per lo stomaco 
ciò che l’ amore 
è per il cuore.
Lo stomaco vuoto rappresenta
il fagotto o il piccolo flauto, 
in cui brontola il malcontento
o guaisce l’ invidia;
al contrario,
lo stomaco pieno
è il triangolo del piacere 
oppure 
i cembali della gioia.
Quanto all’ amore, 
lo considero la prima donna per eccellenza,
la diva che canta nel cervello
cavatine di cui l’ orecchio
si inebria 
e il cuore ne viene rapito.
Mangiare e amare, 
cantare e digerire: 
questi sono in verità 
i quattro atti 
di questa Opera Buffa
che si chiama vita, 
e che svanisce 
come la schiuma 
di una bottiglia di champagne .
Chi la lascia fuggire
senza averne goduto, 
è un pazzo.


GIANNI RODARI

Gianni Rodari, pedagogo e giornalista, considerato il maggior favolista del '900, nacque ad Omegna il 23/10/1920 e dopo la morte del padre si trasferì a Vignate. Dopo essersi diplomato ed aver insegnato, nel 1924 divenne funzionario del Pci, in seguito divenne dirigente del giornale del partito a cui si era iscritto, ed è così che scoprì la sua vocazione per la scrittura. Negli anni '50, iniziò a dedicarsi alla scrittura per l'infanzia, favole, poesie, filastrocche etc. Nel 1970 ricevette il premio Andersen. Morì nel 1980 a Roma, dove viveva dal 1950.



PESCI! PESCI!

Il poeta in questo componimento narra di un pescatore e della voglia che ha di pescare
più pesci possibili per poter comperare a suo figlio un paio di scarpe.
I verso chiave di questa breve poesia sono:
“Ma ce ne vogliono di sardine 
per fare un paio di scarpine...”
Questo componimento dimostra l'attivismo e la creatività che ha caratterizzato gli anni '50
della scrittura di Rodari, essi corrispondono alla ribellione del “militante comunista”,
impegnato in una battaglia civile contro preconcetti, oscurantismi e ideologie 
pedagogicamente conservatrici.


Pescatore che vai sul mare
quanti pesci puoi pescare?

Posso pescarne una barca piena
con un tonno e una balena,

ma quel chilo cerco nella rete
forse voi non lo sapete:

Cerco le scarpe del mio bambino
che va scalzo, poverino

Proprio oggi ne ho visto un paio
nella vetrina del calzolaio:

ma ce ne vogliono di sardine 
per fare un paio di scarpine…



IL PANE

Il pane è una poesia tratta da Filastrocche in cielo e in terra. Rodari in essa  esprime un sentimento altruista, in virtù del quale prende in considerazione uno degli aspetti più gravi del nostro tempo, il problema della fame. È sorprendente come sia riuscito a comporre poesie anche sul cibo.
Questi versi sono un grande omaggio alla solidarietà nei confronti di adulti e bambini in stato di bisogno.

Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane
così grande da sfamare tutta, tutta la gente
che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole, dorato, profumato
come le viole.
Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili
i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia. 



MARIELLA MULAS

Mariella Mulas ha ricevuto numerosi riconoscimenti, a partire da 2006, come seconda e prima classificata nel concorso di poesia dell'Associazione “Cagliari si risveglia” con le sillogi Null'altro che emozioni e
Fessure di Pensieri. Ha pubblicato numerose poesie con l'Aletti Editore, Ibiskos Edizioni e altre case
editrici. Nel 2010, con Akkuaria di Vera Ambra, ha pubblicato il volume di Poesie Al rumore di risacca l'onda della vita premiato poi al secondo posto di opere edite nel concorso “Contro la violenza alle donne” promosso dalla stessa casa editrice. Nel 2010 e 2011 onorata del secondo posto e successivo primo posto nei concorsi nazionali promossi dal “Teatro dell'anima” con le poesie Sono qui e Bianchi i tuoi capelli. Per finire vincitrice del primo concorso nazionale di poesia e narrativa on-line “Una perla per l'oceano” organizzato dal sito L'oceano nell'anima.

La tazzina / ondeggia il mescolare scuro / con il dolce / per un sentore amaro / che inebria il palato…

UN BUON CAFFÈ

Profumo arabescato
in voluttuose
spire leggere
che sfiorano i sensi
e li avvolgono
pian piano
di sublime piacere..
La tazzina
ondeggia il mescolare scuro
con il dolce
per un sentore amaro
che inebria il palato..
mentre veleggia tutt’intorno
l’aroma
che come magia
ricompensa l’anima…



YVES MONTAND

Nacque a Monsummano Terme il 13 ottobre del 1921, in provincia di Pistoia, ultimo di tre fratelli. Poiché i genitori erano attivisti socialisti, nel 1923, la famiglia dovette emigrare in Francia, a Marsiglia. Non ancora ventenne, Ivo Lisi si avviò verso le luci della ribalta con lo pseudonimo di Yves Montand. Proprio a Marsiglia, nel 1939, il non ancora diciottenne Ivo Lisi si esibì in pubblico la prima volta sul palcoscenico dell'Alcazar, con un brano scritto apposta per lui da Charles Humel, musicista non vedente. Nel 1942 partecipò come attore alle riprese di La Prière aux étoiles un film di Marcel Pagnol. Fu solo nel 1944 che il giovane Ivo Lisi si trasferì a Parigi, dove prese il nome di Yves Montand. Lo pseudonimo è derivato dalla francesizzazione del suo nome italiano e dall'esclamazione della madre che lo richiamava in casa dal cortile. Pochi mesi dopo essere arrivato a Parigi, sostituì un debuttante che doveva fare da spalla a Edith Piaf in uno spettacolo al Moulin Rouge. La “regina” dello spettacolo parigino lo aiutò in maniera determinante a sfondare ma l'evento decisivo per la sua carriera scaturì dall'incontro con Marcel Carné e Jacques Prévert. Dopo la guerra, Montand entrò in contatto con numerosi altri artisti quali Léo Ferré e Charles Aznavour. Si sposò con Simone Signoret presso il municipio di Saint-Paul-de-Vence il 22 dicembre 1951. Morì a Senlis, in Francia, il 9 novembre del 1991.



PIANTARE CAFFÈ

In questa canzone, Yves Montand, illustra il faticoso lavoro che si fa per piantare il caffè nei campi. Come dice egli stesso: “[…] ed è troppo per un solo uomo […]” piantare caffè è un lavoro pesante specie se si fa al caldo estivo, sotto il sole. 


Piantare caffè
Non fa per le persone fragili 
Non rimane che chinarsi
Ma è proprio questo che è difficile 

Fa caldo d'estate 
Il sole pesa delle tonnellate 
Ci si fa portare 
Ed è troppo per un solo uomo 

Il mio principale dirà quello che vorrà
Il mio sonno è mio

Sognare caffè 
Non conosco niente di peggio
Per innervosirmi 
Questo mi impedisce di dormire

Portare caffè
Fino al ventre delle navi
Non rimane che arrampicarsi
E fare finta di sorridere 

Il tuo mestiere contro il mio
Ma soprattutto ti avviso

Piantare caffè
Non fa per le persone fragili 
Non rimane che chinarsi
Ma è proprio questo che è difficile
Difficile
Difficile




EUGENIO MONTALE

Eugenio Montale, nato a Genova il 12 Ottobre 1896, è stato un poeta, giornalista, critico musicale e scrittore italiano. Combatté durante la Prima Guerra mondiale e questa esperienza influì molto sulla sua produzione letteraria. Fu uno dei più grandi poeti del Novecento, per questo nel 1975 ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Egli morì a Milano nel 1981.



I LIMONI

I limoni è una poesia di Eugenio Montale che appartiene alla raccolta Ossi di seppia. È composta da quattro strofe di versi liberamente rimati con rime imperfette. Il linguaggio della poesia è sia colloquiale che dotto, e si tratta dunque di alternanza di stili. Questa umile pianta, diventa simbolo della poetica di Montale che canta povere e semplici cose.  L'apertura della poesia ha un tono polemico: Montale rifiuta i “poeti laureati” che hanno falsato la realtà rappresentandola con uno stile aulico, per avere onori e gloria. 
Egli ama il linguaggio comune, familiare, per descrivere il paesaggio aspro e brullo della sua Liguria, ama le stradette che conducono ai fossati, le “pozzanghere mezzo seccate”, dove i ragazzi “agguantano qualche sparuta anguilla” e le viuzze che portano agli orti ravvivati dal giallo dei limoni dove ha tregua per l’uomo il conflitto di sentimenti e delle sofferenze, distratto dal loro profumo.


Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.





EXPOMERICA

In occasione dell’Expo 2015, come studenti della classe 1^B scientifico, indirizzo biomedico, abbiamo ideato, insieme alla nostra docente di italiano, professoressa  Lombardo, un modulo didattico nell’ambito dell’insegnamento di tale disciplina volto ad approfondire il ruolo dei cibi all’interno dei poemi omerici.


I CIBI NEI POEMI OMERICI

La presenza del cibo nelle opere letterarie è attestata fin dall’antichità. Nell'Iliade e nell'Odissea il cibo è assurge ad elemento simbolico per indicare uno “status” sociale. Con il volgere dei secoli e dei millenni, la presenza del cibo nella letteratura ha rivestito anche altri significati come “testimone della memoria” di un popolo. In questo nostro lavoro di Expomerica si intende fare un “excursus”, non di certo esaustivo di passi tratti dai poemi omerici in cui l' elemento cibo è significativo nella cornice delle terre del Mediterraneo.
Dallo studio della cultura greca si rileva in modo manifesto l' importanza della commensalità e dei rituali connessi con il mangiare e bere; la commensalità, presso i Greci, si configura come una delle più importanti forme di socializzazione che fa parte integrante a pieno titolo dell'organizzazione politico-sociale della polis. Le attività legate al concetto di commensalità assumono tutte una grande valenza sociale e sono: il banchetto,il simposio, i rituali dell'ospitalità, le feste sia di ordine civile che religiose. Fin dall'età arcaica le pratiche del banchetto e del simposio vengono ritualizzate tanto che la partecipazione ad esse suggella il senso di appartenenza del gruppo ad una stessa comunità, appunto accomunata in un’esperienza di piacere e di festa che include sia gli uomini sia le divinità. Nei poemi omerici tutto il mondo greco è strutturato secondo i riti della commensalità e l'Iliade è incentrata sull'ira di Achille che si palesa in particolar modo nel rifiuto di partecipare al pasto comune. Nella Grecia ma anche nella Magna Grecia del V secolo a.C., il rituale della commensalità si esprime  attraverso la separazione delle attività connesse con il cibo cioè il banchetto (deipnon) e quelle connesse alle bevande cioè il simposio (symposion), secondo precise abitudinie specifiche regole invariate.
Era diffusa la pratica di mangiare sdraiati secondo un'usanza mutuata probabilmente mdal mondo fenicio; i commensali mangiavano semisdraiati su letti conviviali (klinai) appoggiati al braccio sinistro sorretto da alcuni cuscini. I servi collocavano davanti ai letti piccoli e bassi tavolini (trapezai) su cui erano disposti i piatti con le vivande. Nel corso del vero e proprio pasto non si beveva vino, non si usavano né tovaglie né tovaglioli e nemmeno posate, ma i cibi, già tagliati, venivano serviti su piatti di vario genere e presi con le mani. Al banchetto faceva seguito il simposio; in questa fase venivano tolte le prime mense e portate le seconde e si servivano cibi stuzzicanti, dolci e vino in abbondanza. Il vino veniva servito sempre annacquato con acqua fredda  o tiepida ed era compito del simposiarca deciderne le proporzioni. Quindi veniva preparata in un cratere centrale la miscela di acqua e vino dalla quale i coppieri attingevano con mestoli la bevanda da versare nei calici dei convitati. Durante il simposio i convitati si adornavano la testa con bende, fiori e corone, offrivano libagioni in onore delle divinità, si davano ai divertimenti ed assistevano a spettacoli musicali o di altro genere. Il vino greco fu considerato il migliore nel mondo antico e molti scrittori come Varrone, Columella, Catone ne descrissero le modalità di produzione; noto era il vino prodotto a Myndo, a Coos e ad Alicarnasso, ma i migliori erano quelli di Chio, Thasio, Lesbo e quello prodotto a Nasso che il poeta Archiloco paragona al nettare degli dèi. Importante fu anche la produzione dell'olio che ebbe vasto impiego in tutto il mondo mediterraneo ma l'alimento base del mondo greco fu sicuramente il pane che era prodotto in diverse forme (fiori o animali) e con vari tipi di farina di cereali quali il frumento e l'orzo; molto diffuso era l'uso di cospargere il pane con semi di papavero, ma anche con cumino, semi di lino e sesamo come tramanda Alcmane; oltre che per il pane, i cereali, soprattutto il farro e l'orzo, venivano impiegati per preparare pietanze simili alla polenta  che venivano servite piuttosto liquide. Più che per la carne, usata soprattutto nelle cerimonie religiose, la gastronomia greca si caratterizzava per l'uso di vegetali (in particolare quelli che crescevano spontanei nei campi come cipolle, rape, asparagi, lattuga…) del pesce (seppie, tonni, gamberi, polipi, anguille, frutti di mare e crostacei…) e dei dolci. Molto usate erano anche le zuppe di fave, lenticchie e di ceci.

L'ODISSEA
Nei poemi omerici, come nelle nostre vite, il cibo-nutrimento compare in infinite vesti e svolge varie funzioni. Omero, che pare condividere il piacere del cibo insieme ai suoi personaggi, sa benissimo che il nutrimento è indispensabile alla sopravvivenza fin dal rapporto madre-figlio ma sa anche che il cibo ha molte altre funzioni e che può anch'esso diventare segno, linguaggio e comunicazione.
L’Odissea ne è un esempio. Omero è l’artefice di un multiforme quanto incredibile “excursus” nel mondo non solo del cibo ma anche della sua produzione, infatti nella sua opera troviamo agricoltori, pastori e cacciatori. È bella e singolare la descrizione dell’orto dei Feaci, dove, ben curati, germogliano e fruttificano senza sosta meli, peri e melograni, dolcissimi fichi ricchi di nettare e ulivi mediterranei , vigne dai molti frutti, erbaggi d'ogni specie,  graticci carichi di formaggi,  stabbi pieni di agnelli e capretti,  i vasi, le secchie e le conche traboccano di siero: «Fuori dall’atrio, vicino alle porte, si apre un vasto giardino: da una parte all’altra lo cinge una siepe. Grandi alberi crescono qui rigogliosi, peri, melograni, meli dai frutti lucenti, fichi dolcissimi, olivi fiorenti. Non finiscono mai di dar frutto, per tutto l’anno fioriscono, d’inverno e d’estate per tutto l’anno e sempre il soffio di Zefiro fa nascere alcuni altri matura la pera sulla pera invecchia, sulla mela la mela, l’uva sull’uva, il fico sul fico.» (Odissea, canto VII, vv. 112-121). Una descrizione quella omerica ricca di struggente poesia.
Poi ci sono i pastori come lo stesso Ulisse ed i Ciclopi nella spelonca di Polifemo «Entrati, guardavamo con meraviglia ogni cosa: i graticci carichi di formaggi, i recinti pieni di agnelli e capretti, separati gli uni dagli altri, i primi nati e poi i secondi e ancora i lattanti. Erano piene di latte le brocche ben lavorate e  i vasi e i secchi nei quali mungeva.» (Odissea, canto IX, vv. 219-223). 
L’Odissea è il racconto di un viaggio tra genti sconosciute e lontane, per ritornare dopo vent’anni e scoprire che tutto quello, che si era lasciato, uomini tradizioni e cibo o non esiste più oppure è mutato a tal punto da costringerci a ri-scoprire il nostro mondo.
Nel “nostos” dell’ eroe Ulisse di questo splendido poema, il cibo è la misura delle popolazioni che s’incontrano, con esso si testa il loro grado di benessere e di civiltà.
Nell’Odissea, diverso è anche il valore spirituale o magico del cibo.  La ninfa Calipso accoglie Ulisse nell'isola di Ogigia e lo sfama, poi se ne innamora al punto da offrirgli la possibilità di mangiare un cibo che lo renda: «immune da vecchiezza per sempre», mentre le sue ancelle gli offrono «ambrosia e nettare». Sconfitta dalla “ratio” di Ulisse e dalla sua tenace volontà di tornare in patria, Calipso caricherà la zattera dell’eroe con «Un otre di vino nero, un altro grande di acqua e viveri in una sacca: dentro mise molti, ottimi cibi » (Odissea, canto V, vv.135-136). Diverso è l’approccio con la “dedalea” Circe, le sue “magarie” e droghe malefiche, che trasformano gli uomini in maiali, che mangiano «ghiande di leccio e di quercia e corniole, quello che mangiano sempre i maiali» (Odissea, canto X, vv.242-243).  A Ulisse pensò Ermes, offrendogli l’antidoto per prevenire i malefici della “diva” maga: un’erba « nera la radice e bianco candido il fiore: Gli dèi la chiamano “Moly”».(Odissea, canto X, vv. 304-305)
La bellissima Circe verrà ammaliata da Ulisse a tal punto, che lo istruirà sul rito necessario per accedere all'Ade. Una volta arrivato colà l’eroe itacese dovrà offrire una libagione a tutti i defunti, prima una bevanda di latte e miele, poi il dolce vino e poi ancora acqua; dovrà quindi sacrificare loro un montone ed una pecora nera: «Scava una fossa larga un cubito e lunga altrettanto: intorno ad essa versa le libagioni per tutti i defunti, prima latte con miele, poi vino dolcissimo, e poi acqua. Supplica infine i morti e prometti che; tornato a Itaca, immolerai nella tua casa una giovenca che non ha ancora figliato. Per Tiresia soltanto sacrificherai, a parte, un montone tutto nero, il migliore del gregge, ed una nera pecora, volgendo in direzione dell’Erebo; tu invece guarda lontano verso le acque del fiume». (Odissea, canto X, vv. 517-530).
L’Odissea è ricchissima di metafore sul cibo e sulle bevande ed è un documento importantissimo che eleva il cibo al di sopra del semplice bisogno di nutrirsi, perché il cibo lì, svolge anche una importante funzione sociale. Nutrire e sfamare i viaggiatori e  i viandanti è il primo sacro dovere di ogni padrone di casa e dunque i banchetti sono assai numerosi tra le pagine di questo poema di viaggi e l’espressione che ricorre più spesso è «dopo che si furono tolta la voglia di mangiare e bere».
Il cibo come il bottino e le prede è sempre diviso equamente, questa è una importante allegoria, che lega il nutrimento all'idea di giustizia e alla sfera del sacro: una parte deve infatti essere destinata agli dei. Nell'Odissea al cibo viene attribuita anche una funzione collettiva, spesso a inaugurare i banchetti ricorrono i sacrifici e i rituali, secondo regole fisse, che richiedono determinati cibi o bevande: cosce di tori in sacrificio a Poseidone, grani d'orzo quando s’invoca Atena, giovenche in onore a Zeus. Con i molteplici banchetti, Omero sottolinea i “tempi” del racconto; nei lascivi bagordi dei Proci nella reggia di Itaca, viene testimoniato invece il legame profondo tra il cibo, il piacere e il divertimento: «vino e acqua… carni in abbondanza… pane», cui seguono immancabili «gli ornamenti del banchetto», il canto, la danza, i giochi e le gare; il cibo in questo contesto assume una funzione sociale davvero di rilievo.
Tra “nostoi – ritorni”, tappe forzate e partenze, ci siamo sorpresi nello scoprire come Omero, minuziosamente, presti un’attenzione quasi maniacale alle provviste per il viaggio: Telemaco, prima di fare vela alla ricerca del padre, chiede alla nutrice Euriclea dodici anfore di vino e venti misure di farina: «Madre, versami nelle anfore del vino dolce, il più dolce dopo quello che conservi pensando all’infelice Odisseo. Dodici me ne riempi e metti dei tappi a ciascuna. Versa poi della farina in sacche di pelle ben cucita: venti misure di farina di grano ben macinata» (Odissea, canto II, vv. 349-355)
Quando invece Telemaco parte da Pilo alla volta di Sparta, la dispensiera di Nestore gli mette sul carro: pane e vino e pietanze “come son soliti mangiarne i re”. E come in ogni civiltà contadina dove è bandito lo “spreco” alimentare, anche gli avanzi sono graditi, il porcaro Eumeo festeggia l’incontro di Telemaco ed Ulisse offrendo loro i resti della cena della sera precedente. Eroi e dèì, seduti alla stessa tavola, mangiano gli stessi cibi. Per gli umani ci sono tabù alimentari, che, se non vengono rispettati, conducono e condannano ad uno spietato destino. Questo accade, ai compagni di viaggio di Ulisse, quando, ignorando ogni avvertimento e divieto si nutriranno delle giovenche sacre al Sole.
Ai marinai di Ulisse, il cibo ed il vino viene somministrato per dimenticare, per dare l’oblio dalle fatiche e dagli affanni del loro peregrinare lontani dall’amata patria. A Sparta Elena, conosce bene le erbe medicinali: «E ad altro pensò Elena: nel vino che essi bevevano gettò rapida un farmaco che placava furore e dolore, che faceva dimenticare ogni pena.» (Odissea, canto IV, vv. 283-285). 
Naturalmente non dimentichiamo il potere dionisiaco del vino. Ulisse, facendo ubriacare Polifemo, riuscirà a sfuggire al Ciclope antropofago, che ha già ucciso e divorato alcuni dei suoi marinai: «ed eccoci di nuovo per mare. Alla fine sbarcammo su un' isoletta disabitata, piena solo di capre selvatiche. Li vicino c'era la terra dei Ciclopi, selvaggi, mostruosi giganti con un solo occhio proprio in mezzo alla fronte. Sono rozzi e incivili. Non coltivano la terra, non costruiscono navi e non hanno città né leggi. Se ne stanno rintanati dentro grotte profonde e allevano capre. Si cibano solo di latte e formaggio. Io ero pieno di curiosità: volevo vedere da vicino una di queste strane creature. Così, con dodici fidati compagni, e un otre di vino da portare in dono, raggiungemmo una grotta. Dentro non c'era nessuno. Per terra si vedevano secchi di latte appena munto e dai muri pendevano grasse caciotte. I compagni, timorosi, insistevano: Odisseo, ascoltaci. Finché siamo in tempo, prendiamo un po' di questo bel formaggio e scappiamo veloci. Non sfidiamo la sorte”. Ma io nemmeno li ascolto: voglio vedere il ciclope.» (Odissea, canto IX, vv. 195-224).
Anche il ritorno di Ulisse a casa avrà il suo banchetto sacrificale, l’ultimo offerto ai Proci prima della loro uccisione.

L'ILIADE
Anche nell'Iliade, seppure con meno frequenza che nell' Odissea, rinveniamo in vari passi del poema la presenza del cibo inteso come ristoro e come ridonatore di forze. È un fatto che di rado il potente Agamennone, nell’intero corso dell’Iliade, prende una decisione o consulta i principali capi del suo esercito se non di fronte alle carni fumanti degli animali arrostiti, raramente ordina o discute se non tenendo in mano uno di quei calici che il traduttore Vincenzo Monti chiama “nappi”, sempre colmo di vino, sia pure diluito come gli antichi usavano fare.
Anche per i misteriosi Inni omerici è consentito immaginare il cantore intento ad esibirsi nella sala da pranzo di questo o di quel signore locale mentre intorno a lui si beve e si mangia vino e cibi ai quali, terminata la recitazione, anche all’aedo sarà concesso accostarsi. Valga, per tutto il poema, l’esempio della notte narrata nei canti IX e X. L’inattività di Achille sta compromettendo la situazione degli Achei a tutto vantaggio dei Troiani, in particolare di Ettore che dà sfoggio del proprio valore sul campo di battaglia.
Achille, del resto, non si è limitato ad incrociare le braccia ed a ritirare dalla flotta il nutrito contingente di Mirmidoni del quale è comandante, ma ha chiesto alla sua divina genitrice, la nereide Teti, di intercedere per lui presso Zeus perché, con la disgrazia degli Achei, soddisfi il suo astio e la sua sete di vendetta. Teti lo ha accontentato e dal canto suo Zeus, sempre sensibile al fascino femminile, non ha saputo negare alla ninfa marina il favore richiesto.
Quella notte, dunque, il morale dei Greci era prossimo alla disperazione ed è un ben triste banchetto quello che Agamennone offre ai suoi più fidati consiglieri. Gli eventi hanno portato l’altero monarca a stemperare la propria superbia ed egli è ora pronto a ricompensare Achille di ogni offesa e a promettergli grandi onori e doni degni di un re, ma Achille si trova nel suo accampamento, inavvicinabile e lontano dal cibo.



EXPOMEDICA

In occasione dell’Expo 2015, come studenti della classe 1^B scientifico – indirizzo biomedico, abbiamo ideato insieme alla nostra docente di lettere-latino, Professoressa Lombardo, un modulo didattico nell’ambito dell’insegnamento di italiano volto ad approfondire il  ruolo di erbe e  piante curative nell’ambito della terapia medica nonché a produrre un piccolo glossario medico–scientifico (prefissoidi-suffissoidi).















ERBE  MEDICHE 
I benefici delle Erbe Mediche



Con il termine erbe medicinali o erbe mediche, si intendono tutte quelle specie vegetali impiegate nella terapia sia medica che farmacologica. Ma come sono state scoperte le capacità curative e medicamentose delle piante? Con molta probabilità questo è avvenuto osservando l’effetto che queste avevano sugli animali (verosimilmente i primi a farne uso) e scoprendo di volta in volta il loro valore terapeutico. I primi testimoni furono proprio gli Egizi, che trascrissero su papiri tutte le loro conoscenze, ma abbiamo testimonianze anche da parte degli Assiri, dei Greci e dei Romani. Moltissime erbe medicinali crescono in modo spontaneo e sono diffuse in tutto il mondo, non può stupire quindi il fatto che queste siano state utilizzate da secoli non solo nel campo della medicina, ma anche nell’industria dei profumi e nell’arte culinaria. Tutte le piante medicinali contengono dei principi attivi, quali oli essenzialialcaloidi, glucosidi, saponine ecc, che possiamo trovare nei fiori, nelle foglie, nelle bacche, nelle radici, nella corteccia e via di seguito.



Aglio

Famiglia: Alliaceae
Parti Utilizzate: Bulbilli (spicchi)

Descrizione e origine dell'aglio
L'aglio è un' erbacea perenne con foglie carnose di colore verde-grigio, teste fiorali arrotondate. La parte sotterranea è formata da numerosi piccoli bulbi (bulbilli) che crescono in gruppo a formare la ben nota testa daglioÈ di origine mediorientale e dellAsia centrale.

Principi attivi di riferimento dell'aglio
Ci sono numerosi composti solforati responsabili del caratteristico odore dell'aglio. Tra questi lalliina (1%) la quale in presenza dellenzima allinasi (liberato dai tessuti cellulari quando si schiaccia laglio) viene convertita in allicina, uno dei principali principi attivi.

Attività principali
L'aglio ha un effetto polipemizzante, espettorante, antisettico, leggero ipotensivo, antiossidante.

Uso dell'aglio
L'utilizzo dell'aglio ha effetti beneifici in generale per la circolazione soprattutto come preventivo dei fenomeni arterosclerotici. L'aglio può contribuire a mantenere bassi i grassi nel sangue. Usato tradizionalmente nelle infezioni delle prime vie aeree e nelle affezioni catarrali.

Uso prolungato per il massimo beneficio
È certamente da considerarsi una pianta officinale/spezia e per il suo effetto benefico sullapparato cardiovascolare è indicato nelluso prolungato (a dosaggi bassi equivalenti a circa uno spicchio al giorno o preparati che forniscano 6-10 mg/die di alliina o 3-5 mg di allicina/die). Per uso prolungato si intende molti mesi o anni.

Artiglio del diavolo
Famiglia: Pedaliaceae
Parti Utilizzate: Le radici secondarie tuberiformi

Descrizione e origine dell'artiglio del diavolo
L'artiglio del diavolo è un'erbacea perenne con fusti striscianti che si originano da una spessa radice primaria dalla quale si dipartono radici secondarie tuberiformi. Ha foglie verde-grigio irregolarmente lobate, e fiori tubulari gialli e violetti. I frutti sono tipicamente provvisti di spine (artigli) e sono la causa del singolare nome della pianta. L'artiglio del diavolo è originario del sud Africa. La maggior parte della droga deriva da raccolta spontanea, ma sono in corso colture sperimentali. Fu per la prima volta introdotta in Europa nel 1953.

Principi attivi di riferimento dell'artiglio del diavolo
Glucosidi iridoidi tra cui il principale è larpagoside.

Attività principali dell'artiglio del diavolo
L'artiglio del diavolo è un' antinfiammatorio, antireumatico, debolmente analgesico, tonico-amaro.

Uso dell'artiglio del diavolo
L'artiglio del diavolo è utilizzato nell'artrosi, dolore articolare, osteoartriti, mal di schiena. Per stimolare la digestione e lappetito in virtù dei principi attivi fortemente amari.

Note
Non indicato in caso di bruciore allo stomaco, o ipersecrezione acida.


Biancospino
Famiglia: Rosaceae
Parti Utilizzate: Sommità fiorite

Descrizione e origine del biancospino
La specie Crataegus comprende arbusti e piccoli alberi (fino a 10 m), con foglie lobate, e rami spinosi. I fiori sono bianchi e tipicamente rilasciano dei particolari composti denominati ammine che fungono da attrattori per gli insetti impollinatori. Ai fiori seguono dei frutti rossi. È originario dellEuropa e dellAsia.

Principi attivi del biancospino
I principi attivo del biancospino sono la procianidine di cui le più importanti sono le procianidine oligomeriche (circa 3%), flavonoidi quali vitexina, ed iperoside.

Attività principali del biancospino

Protettivo del cuore e circolazione, antiossidante, ipotensivo, rilassante.

Uso
Disturbi cardiovascolari di origine nervosa. Supporta e protegge le funzioni cardiache e circolatorie. Nella tendenza alla pressione alta. Quale rilassante. In generale come protettivo dellapparato cardiovascolare.


Borragine (olio di)
Famiglia: Boraginaceae
Parti Utilizzate: Olio ricavato dai semi

Descrizione e origine della borragine
La borragine è una robusta erbacea annuale alta 20-70 cm, pubescente (i.e. dotata di peli) con ampie foglie ovali. Fiorisce da Maggio a Settembre. I fiori della borragine sono portati su lunghi peduncoli, e sono di colore blu-celeste. Originaria del sud Europa e della regione del Mediterraneo.

Principi attivi di riferimento della borragine
Lolio ricavato dai semi si caratterizza per un elevato contenuto di acidi grassi essenziali (omega-6 ed omega-3) in particolare acido gammalinolenico circa 21%, acido linoleico 30- 40%, ed oleico circa 15%.

Attività principali
Gli acidi grassi polinsaturi sono componenti fondamentali delle membrane cellulari ed importanti precursori di molte sostanze (prostaglandine, leucotrieni etc.) responsabili della regolazione di molte funzioni biologiche.

Uso della borragine
Integrazione dietetica di acidi grassi essenziali (omega-6, omega-3). Sindrome premestruale. Dermatiti.

Camomilla

Famiglia: Asteraceae (Compositae)
Parti Utilizzate: Capolini

Descrizione e origine della camomilla
La camomilla è una pianta erbacea annuale, alta fino a 40 centimetri, a fusto eretto e ramificato con foglie bipennatosette e fiori raccolti a formare capolini dal lungo peduncolo. Alla periferia del capolino ci sono i fiori femminili bianchi e ligulati, mentre al centro si trovano quelli tubulosi di colore giallo. La Camomilla cresce spontanea in tutto il continente europeo, si trova comunemente nei luoghi erbosi, lungo le strade campestri e le siepi e fiorisce da Maggio a Settembre.

Principi attivi di riferimento della camomilla
I capolini della camomilla contengono un olio essenziale (0,5-1,5%) costituito principalmente da camazulene e alfa-bisabololo; derivati flavonici quali apigenina-7-glucoside (0,5% circa), cumarine (erniarina e umbelliferone), acidi fenolici e polisaccaridi (fino al 10%).
Attività principali della camomilla
La camomilla ha attività antinfiammatoria, antispasmodica, antimicrobica, antiulcerogenica, cicatrizzante e blandamente sedativa.
Uso della camomilla
Tradizionalmente utilizzata come blando sedativo la camomilla è indicata nel trattamento sintomatico dei disturbi gastrointestinali quali spasmi minori, distensione epigastrica, flatulenza ed eruttazione. Esternamente si può utilizzare nelle lievi infiammazioni ed irritazioni cutanee e della mucosa, comprese cavità orale e gengive (colluttori), tratto respiratorio (inalazioni) e aree genitali e anali (bagni e unguenti).

Centella
Famiglia: Umbelliferae
Parti Utilizzate: Parti aeree
Descrizione e origine della centella
La centella è un' erba strisciante, perenne, di luoghi umidi, fusti sottili, foglie semplici ed arrotondate, fiori incospicui. Originaria della fascia pantropicale si trova in ampie parti dellAfrica, Madagascar, nord e sud America, Asia e Australia.
Principi attivi di riferimento
Saponine triterpeniche quali asiaticoside, e madecassicoside con i loro rispettivi agliconi: acido asiatico e acido madecassico. Diversi polifenoli e composti ad attività antiossidante.

Attività principali
Trofodermica, protegge i capillari, combatte il gonfiore alle gambe (antiedemigena), tonica nervina.

Uso della centella
La centella viene usate per trattare problematiche come gambe pesanti, cattiva circolazione venosa, cellulite, come tonico cerebrale (importante uso tradizionale nella medicina ayurvedica).


Echinacea
Famiglia: Compositae
Parti Utilizzate: Radice

Descrizione e origine dell'echinacea
L'echinacea è un'erbacea perenne con fusti corti e non ramificati, foglie strette in rosetta basale. Il sottile stelo fiorale dell'echinacea può essere alto fino ad un metro e porta un singolo capolino con petali (fiori ligulati) porpora chiaro e ricadenti. Originaria degli Stati Uniti, oggi ampiamente coltivata.

Principi attivi di riferimento dell'echinacea
Derivati caffeoilici quali echinacoside, olio essenziale, ed altri composti.

Attività principali
Immunomodulante (sostiene l’attività del sistema immunitario), antinfiammatoria.

Uso dell'echinacea
L'echinacea viene usata come coadiuvante e nella prevenzione delle infezioni ricorrenti del tratto respiratorio superiore (es. raffreddore, mal di gola etc.). Può essere utilizzata come preventivo, ma anche al bisogno, magari in associazione con altre piante o sostanze naturali più specifiche: ad esempio come la Propoli nel mal di gola, oppure con piante balsamiche (Eucalipto, Pino, Grindelia, Timo) quando sono interessate le cavità nasali, o le prime vie aeree.


Escolzia

Famiglia: Papaveraceae
Parti utilizzate: Sommità fiorite

Descrizione e origine dell'escolzia
L'escolzia è una piccola pianta erbacea alta da 40 a 50 centimetri con fusti sdraiati e diffusi a cespuglio e foglie glauche, alterne e molto incise. I fiori sono costituiti da 4 petali obovati, di colore giallo intenso più scuro alla base. L'escolzia è originaria della California, cresce in zone aride e sabbiose, è divenuta spontanea anche in alcune zone dell'Europa centrale e viene ampiamente coltivata anche come pianta ornamentale sia in America che in Europa.

Principi attivi di riferimento dell'escolzia
Alcaloidi, in particolare protopinici (protopina, criptopina) e pavinici (escholtzina e californidina).

Attività principali
Spasmolitica, rilassante muscolare, ansiolitica, sedativa, analgesica.

Uso dell escolzia
L'escolzia viene usata nel trattamento dell'insonnia di lieve e media gravità. Viene anche utilizzata in preparati ad azione sedativa/rilassante soprattutto in associazione con altre piante medicinali quali Valeriana, Melissa, Passiflora e Luppolo e anche per i bambini. 


Finocchio
Famiglia: Umbellifereae
Parti Utilizzate: Frutti essiccati (spesso erroneamente chiamati semi).

Descrizione e origine del finocchio
Ilfinocchio è un’erba perenne, eretta, alta fino ad 1,5 m. Il picciolo fogliare si avvolge attorno al fusto principale, le foglie sono finemente divise, dando l’impressione di piume. I fiori sono piccoli, gialli e raccolti in tipiche ombrelle. Originaria della regione del Mediterraneo viene ampiamente coltivata. La specie maggiormente utilizzata a scopo medicinale è il finocchio dolce (Foeniculum vulgare subsp. vulgare var. dulce).

Principi attivi di riferimento del finocchio
Olio essenziale caratterizzato da anetolo; diversi glicosidi idrosolubili.

Attività principali
Carminativo, digestivo, antimicrobico, espettorante, (diuretico). Il finocchio riduce il carico di sostanze fermentabili nel colon con ovvia riduzione anche della formazione di gas

Uso del finocchio
Il finocchio è usato nei disturbi dispeptici quali lievi affezioni gastrointestinali caratterizzate da gonfiore, spasmi e flatulenza. Catarro del tratto respiratorio superiore.


Gymnema
Famiglia: Asclepiadaceae
Parti Utilizzate: Le foglie

Descrizione e origine della Gymnema
La gymnema è un rampicante legnoso di grande dimensioni, le foglie sono opposte, ellittiche, i fiori piccoli e gialli. Ha il suo habitat nellAsia orientale e nella parte nord e occidentale dellIndia.

Principi attivi di riferimento della gymnema
Saponine denominate gimnemosaponine ed acido gimnemico.

Attività principali
Antidiabetico, ipoglicemizzante, ipocolesterolemizzante, riduttore del peso.

Uso della gymnema
La gymnema viene utilizzata per ridurre lappetito e lintroito calorico. Lazione ipoglicemizzante può essere utile nel diabete mellito (ovviamente di tipo II ); in questultimo caso luso va protratto per molti mesi.


Lavanda
Famiglia: Lamiaceae
Parti Utilizzate: I fiori
Descrizione e origine della Lavanda
La lavanda è un arbusto sempreverde e perenne di piccole dimensioni (60-100 cm.) con fusti eretti, legnosi alla base e rami laterali leggermente prostrati. Ha foglie lineari e lanceolate di colore verde-grigiastro. I fiori alquanto profumati, sono raggruppati in sottili spighe blu violette. Originaria della macchia mediterranea, la lavanda è una pianta che resiste molto bene sia alle temperature torride che a quelle rigide invernali.

Principi attivi di riferimento della Lavanda
olio essenziale (linalolo, acetato di linalile, limonene, cineolo, canfora, alfa-terpineolo, beta-ocimene), tannini, acido ursolico, flavonoidi e sostanze amare.

Attività principali
È utile per mal di testa, insonniatosse e punture di insetto.

Uso della Lavanda
Una delle principali proprietà dellolio di lavanda è quella di agire come calmante e riequilibrante del sistema nervoso. Il colore della lavanda, infatti, viene associato alla calma e alla tranquillità. Le proprietà di questo olio sono davvero numerose e si orientano in diversi ambiti. Ecco come gli effetti benefici della lavanda si riscontrino, ad esempio, sulla digestione, aiutandola e agendo anche come disinfettante. Ma non solo, un rimedio palliativo per calmare i dolori reumatici si può ottenere con lolio e lessenza di lavanda. Sotto forma di vapore, invece, funziona perfettamente contro i problemi respiratori come la bronchite o il raffreddore.
  
Melissa
Famiglia: Lamiaceae
Parti Utilizzate: Le foglie
Descrizione e origine della Melissa
La melissa è un'erbacea perenne alta fino a 0,9 m, fusto angolare a sezione quadrata, foglie venate e rugose opposte. Fiori di colore dal bianco al crema. Originaria delle regioni del Mediterraneo orientale ed Asia minore.

Principi attivi di riferimento
Olio essenziale responsabile del caratteristico odore limonato, flavonoidi, glicosidi monoterpenici, fenilpropanoidi tra cui in particolare lacido rosmarinico.

Attività principali
Carminativa, spasmolitica, sedativa leggera.

Uso della melissa
La melissa è efficace per curare la tensione, irrequietezza, irritabilità. Trattamento sintomatico dei disturbi digestivi caratterizzati da spasmi di lieve entità.

Pilosella
Famiglia: Compositae
Descrizione e origine della pilosella
La pilosella è una piccola erbacea, perenne (5-25 cm). Le foglie sono distribuite in una tipica rosetta basale e si caratterizzano per una forma a spatola e per la presenza di densi peli, da cui il nome. Dalla rosetta si diparte un unico stelo che porta un unico capolino (fiore) giallo zolfo, simili ma meno aranciati di quelli del tarassaco. È ampiamente diffusa dal piano al monte e predilige prati aridi, brughiere, pendii sassosi.

Principi attivi di riferimento della pilosella
Umbelliferone (nella sua forma eterosidica), derivati orto-idrossi cinammici, flavonoidi, triterpeni.

Attività principali
Diuretico

Uso della pilosella
La pilosella è utile per il drenaggio delle vie urinarie e nella ritenzione idrica.



Salvia
Famiglia: Labiatae
Descrizione e origine della salvia
La salvia è una pianta diffusa in tutti i paesi a clima mite ed ha un portamento cespuglioso. Il fusto è dapprima verde, poi con la maturità diventa legnoso, a sezione quadrangolare e molto ramificato e può raggiungere anche il metro d'altezza. Le foglie, portate da un corto picciolo, sono ovali-lanceolate, di un bel colore grigio-verde con i bordi dentellati e con la pagina superiore vellutata mentre quella inferiore è più ruvida e con nervature evidenti. I fiori della salvia sono per lo più riuniti nella parte terminale dello stelo in spicastri e sono di colore violetto. Fiorisce a partire dalla primavera.

Principi attivi di riferimento della salvia
olio essenziale, acido organico, flavonoidi, saponine.

Attività principali
Stimolante, digestiva, emmenagoga, espettorante, cicatrizzante, tonica del sistema nervoso, antispasmodica, antisudorifera, carminativa, ipoglicemizzante. 

Uso della salvia
La salvia è usata come decotto o infuso per stimolare la digestione, per la bronchite, per la depressione e la stanchezza.




Piccolo glossario medico-scientifico 
(prefissoidi e suffissoidi)

GASTRO (STOMACO): gastroenterite, gastrologia, gastroscopia, gastroscopio, gastrointestinale, gastroepatite, gastroenterologo, gastroenterologia
OTO (ORECCHIO): otorino, otite, otopatia, otoematoma, otoplastica, otosclerosi, otomeningite
ARTRO (ARTO): artrosi,  artropatia, artroplastica, artrocentesi
PSICO: psicologia, psicoacustica, psicoanalisi, psicoattivo, psicobiologa, psicobiologia, psicochirurgia, psicofisico, psicofarmaci
DERMA (PELLE): dermascheletro, dermatite, dermatologia, dermatologico, dermatologo, dermatopatologia, dermatopatologo, dermatosi
GINECO (DONNA): ginecologo, ginecologia, ginecologico, ginecomastia
GERONTO (VECCHIO): gerontocomio, gerontofilia, gerontoiatria
PENUMO: pneumopericardio, pneumonectomia,pneumotorace
MENINGO: meningite, meningioma, meningismo
FOBIA (PAURA): claustrofobia, aracnofobia, omofobia, altofobia, idrofobia,agorafobia, panofobia
CEFALEO (TESTA): cefalea, onfalocele,  arctocefalo, macrocefalo
TERAPIA (CURA): peterapia, ippoterapia, fisioterapia, chemioterapia
REGIA: emorragia, metrorragia
IATRIA: pediatria, geriatria, fisiatria
LISI: paralisi, termolisi, odinolisi, acidolisi, analisi
RACHI (SPINA DORSALE): rachialgia (dolore localizzato nella colona vertebrale), rachicentesi (puntura lombare), rachide (spina dorsale), rachitico, rachitismo (malattia dell’infanzia dovuta ad un effetto di calcificazione delle ossa per deficienza della vitamina D), rachideo
ANGIO (VASO SANGUIGNO): angiopatia (malattia sistema vascolare), angioma (alterazione tumorale dei vasi sanguigni), angiosarcoma (tumore maligno che ha origine nel sistema vascolare), angiospasmo (intensa contrazione dei vasi sanguigni)
RINITE: infiammazione mucosa nasale
BIOPSIA: rimozione del tessuto di un organismo vivente per scopi diagnostici
TERATOGENESI: cisti mostruose
DIPLOPIA: doppia immagine perché un occhio paralizzato
EMIPARESI: debolezza dei muscoli di una parte del corpo
EPATITE: infiammazione del fegato
IPOTERMIA: temperatura troppo bassa
FARMACO: dal greco veleno
GASTROECTOMIA: rimozione di tutto o parte dello stomaco
GLICOSURIA: zucchero nell’urina
GLOSSITE: infiammazione della lingua 


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