lunedì 15 giugno 2015

Anna Silvia Armenise e Claudio Roncarati vincono ex aequo Faraexcelsior 2015 sez. racconto/romanzo

Fara Editore e i giurati della sez. Racconto/romanzo (per la sez. Poesia v. farapoesia) Alessandra Carlini, Giorgio Massi, Gloria Visani, Simona Mulazzaani e Stefano Martello sono lieti di comunicare che risultano vincitori ex aequo del concorso Faraexcelsior 2015 con pubblicazione premio:


Anna Silvia Armenise (Bellaria, RN)
con Le ragioni della carne (v. infra)


Claudio Roncarati (Cattolica, RN)
con Antipsichiatria Extragalattica


Claudio Roncarati è Psichiatra (AUSL di Rimini) e Psicoterapeuta. Vive a Cattolica (RN). Accogliendo il magistrale insegnamento di Calvino, scrive per sconfiggere Medusa. Alla scrittura chiede leggerezza, sandali alati ed uno scudo per riflettere lo sguardo pietrificante della Gorgone… Questo è il suo primo romanzo. Precedentemente ha scritto altri tre libri. Il primo, consiste in un collage di racconti brevi e poesie, si intitola: Manuale di Psichiatria Poetica (Alpes editore 2009). Il secondo libro è una raccolta di poesie: La fata fatua e lo psichiatra, co-edizione Alpes e CFR con cui ha vinto il Premio Fortini 2011. Il terzo è un'altra silloge ,“Per/le rime” con cui ha vinto il concorso Pubblica con noi ed è stato inserito ne La forza delle parole (Fara 2012). Stanco di ricevere premi e non vendere copie ha lasciato la poesia e si è dato alla narrativa, per dirla con Alessandro… ad maiora! In collaborazione con Alessandro Ramberti (Fara Editore) ha organizzato il Concorso letterario nazionale Insanamente per racconti e poesie dedicate alla lotta allo stigma in psichiatria. Come psicoterapeuta ha scritto articoli dedicati al rapporto tra poesia e psicoanalisi.


Antipsichiatria Extragalattica

Il nostro daffare al momento / è saltare è saltare è saltare / se no sulla coda ci mettono il sale (Elio Pagliarani)


PREMESSA

Tanto tempo fa, c'era una volta (c’è e ci sarà sempre) la Coscienza Cosmica, Grande Energia Primigenia, Matrice dell'Universo. Come è scritto nei Veda, nei tempi prima del tempo, prima di dare inizio alla Creazione, la Coscienza Cosmica era una sorta di grembo dorato sospeso nel nulla. Fiduciosa ed ottimista fino all’imprudenza, quando decise di dare vita all'Universo, si fece prender la mano dall'impeto creativo – il Big Bang – e perse la misura. Potevano bastare una manciata di Soli con qualche decina di corpi celesti ad orbitargli attorno. Già sarebbe stato un lavoro grandioso e stupefacente. La vita intelligente si sarebbe sviluppata su un paio di pianeti e la Coscienza Cosmica avrebbe avuto un discreto controllo su quello che combinavano gli esseri dotati di intelletto; sarebbe potuta intervenire con un miracolo qua ed un miracolo la, per stabilire ovunque la pace e l'armonia; invece, dalla trasformazione dell'Energia in Massa, saltarono fuori miliardi di corpi celesti - per non parlare degli universi paralleli! La vita prese forma in innumerevoli luoghi e come se non bastasse prese ad evolvere a modo suo. In ogni dove nuove specie di viventi comparivano ed altre si estinguevano mentre, tutt'attorno, nuove stelle nascevano ed altre morivano continuamente. Davvero troppo perché la Coscienza Cosmica riuscisse ad avere in mente cosa diavolo accadesse in tutta quella immensità in trasformazione. Dovette cominciare a mandare in giro per l'Universo degli Angeli Esploratori affinché le inviassero informazioni e rapporti, in modo così da avere una qualche conoscenza, per quanto vaga ed approssimativa, di cosa lei stessa avesse combinato.



CAPITOLO I – L'arrivo

Lido d'Italia ha avuto un breve momento di notorietà alla fine degli anni sessanta, quando sembrava che dovesse avere un notevole sviluppo turistico. Quando, a detta di molti, c'era ancora un futuro. Allora, accanto al nucleo originario formato da porticciolo, chiesa e un gruppo di casette con orti e pollai, sorsero le prime pensioncine che come germogli incerti occuparono gli spazi mezzi derelitti tra la spiaggia e la ferrovia.
Stagione dopo stagione, contro ogni aspettativa, le "Pensione Luigia" e le "Pensione Eden" cominciarono a riempirsi, tutto esaurito!, e finirono per sbocciare in grandi alberghi dai nomi ancor più improbabili che lampeggiavano nelle insegne al neon nelle notti ancora piuttosto buie.
A ridosso della spiaggia sorsero otto grandi condomini, alveari di appartamenti da vendere o affittare ai turisti che si pensava - si sperava! - sarebbero sciamati proprio là; negozietti, bazar e baracche - macchine per far soldi di ogni foggia e colore. Insomma, in quel periodo Lido di Italia, che ancora si chiamava Mezzo Cuculo al mare, bruciava per la febbre del mattone. Tanto potente era la spinta a costruire che anche al prete, tale Don Pierone, un nome una garanzia, era venuta l'idea di trasformare la canonica in un albergo per accogliere religiosi in vacanza. Ebbene sì. E se non si fosse scomodato il Vescovo in persona per fermarlo, l'avrebbe fatto, eccome se l'avrebbe fatto.
Fu allora, agli albori di questo boom economico, più presunto che reale, che Ugo Scanagalli comprò un appartamento di settanta metri quadrati in uno degli otto palazzoni di cemento – con vista mare di sbieco! – e annunciò trionfante in famiglia (con tanto di braccia alzate): “Ho fatto un affare! Un mio amico geometra mi ha assicurato che il valore crescerà tantissimo, Mezzo Cuculo sarà un'altra Riccione, solo un po' più a sud.”
Ma il raggruppamento dei palazzoni e degli alberghi risultò irrimediabilmente triste e brutto, capace di fare scomparire quel po' di bellezza che il paese aveva tenacemente conservato nei secoli. Malgrado il cambiamento del nome da Mezzo Cuculo al mare a quello più pomposo di Lido d'Italia, il risultato urbanistico fu così pessimo che il declino della località marina cominciò immediatamente. Nascita e declino in un sol colpo. Ad aggravare il tutto, gli scarichi fognari vennero fortemente indiziati di essere i responsabili di improvvisi eczemi ed enteriti che colpivano i bagnanti. Un vero disastro. A tutte le elezioni municipali, ormai da quarant'anni, gli aspiranti Sindaco si presentavano con programmi elettorali che titolavano: “Rilanciamo Lido d'Italia", “Fermiamo il declino”, “Forza Lido", tutti regolarmente irrealizzabili o disattesi.
(…)


Giudizi

È un bailamme vorace e onnicomprensivo dove bene e male, realtà e finzione, utopia e verismo s’impossessano del testo sprigionando un’energia buona a tratti iperbolica. Premiato l’enorme sforzo creativo che s’impone su una pianura allegorica che spesso declina fuori dal contesto concettuale. (Giorgio Massi)

Caotico, convulso, imponente – con i suoi diecimila personaggi – e apparentemente frammentario, è un testo che ricorda un Alex Celli più sobrio e cauto che – dietro il sorriso sempre splendidamente fanciullesco e un po’ guascone di chi osserva con aria (apparentemente) distaccata – nasconde una etica d’animo non indifferente. E poi siamo tutti un po’ Gnegno 732248: tutti vaghiamo con l’animo dell’esploratore, con l’istinto ad andare avanti; con la delusione negli occhi di fronte a panorami imperdibili che ci impediscono di vederne altri, sicuramente più memorabili. Per poi accorgerci – dopo tanti cambiamenti e trasformazioni ed avventure e rischi – che forse quel prato sotto casa non è poi così male. Che forse non dipende troppo dal Dove quanto dal Con chi. (Stefano Martello)

Racconto divertente, a volte esilarante, molto fantasioso ma con i piedi ben piantati per terra. (Gloria Visani)

Irriverente e geniale. Un susseguirsi onirico di incontri bizzarri con lo sfondo di una località di vacanze che sa di mare e di impulso ad abbandonarsi ai desideri più profondi e impronunciabili. Fa sorridere ma anche riflettere sulle ferite e domande dell'uomo. (Simona Mulazzani




Anna Silvia Armenise (Bellaria, RN)
Le ragioni della carne



Nata a Rimini, Anna Silvia Armenise ha sempre vissuto a Bellaria (RN). Si è diplomata al Liceo Classico “Giulio Cesare” a Rimini ed è dottore in Tecniche e Teorie psicologiche. Sta conseguendo la laura magistrale in Psicologia del Lavoro a Cesena. Fin da quando era bambina ha avuto sempre la passione per la scrittura e la lettura, in particolare per il genere horror e fantascientifico. Ogni momento libero lo passa, infatti, consumata da tale passione che vorrebbe diventasse la sua carriera di vita. Ha vinto il secondo posto al concorso “Patrizia Brunetti” 2013 e il terzo al medesimo nel 2014. Nel 2015 ha ottenuto il terzo posto al concorso Pubblica con noi con il racconto L’alchimia della colpa (inserito nell’antologia Emozioni in marcia di Fara Editore) e una selezione d’onore al “Premio Robot”. Ha pubblicato l’antologia Ai confini del crepuscolo (2014) con la casa editrice Biblioteca di testi brevi.

Incipit

Le ragioni della carne

Vigeva una legge a Qáyin:
è prima ragione della carne
il desiderio d'esser stretta in un sepolcro
attraverso la via dell'omicidio.
È dovere:
asseconda la sua brama.
Tale era giustizia nella città degli assassini.

  «Ricordo: il silenzio.
  Quel freddo spazio che in verità non era un vero spazio. Nero. Sconfinato. Tra me e loro. Nessuno a protendersi verso di me. Nessuna mano. Nessun calore. Nessun suono. Solo sulla lingua un gusto amaro di bile e putredine che mi rubava le parole ogni volta la bocca si aprisse. E anch'io, come il mondo, ero muto. Solo. In silenzio.
  Forse fu allora che mi scelse. Udito di lontano il mio urlo senza voce, la Musica volle me. Per tristezza. Per pietà. Per amore. Per non essere più, anche lei, così sola.
  Ricordo bene il silenzio, ed è un ricordo d'odio.»

  «Sono nato sulle rive di una terra maledetta dagli uomini e come la mia isola natia anch'io sono sorto dal lago nero che avvinghia le sue spiagge. Quando emersi dalla acque, mia madre vi affondava stremata dalle fatiche del parto. Entrambi sospesi sulla superficie di quel limbo, mi chiedo se lei abbia posato gli occhi su di me, solo per un momento, prima di chiuderli per sempre. Se sono stato io l'ultima cosa che vide, quando lei fu la prima per me.
  Esile e chiara era mia madre, della stirpe dei Bructeri[1] figli di Velleda[2] guerriera. Fratricida ed esule era mia madre, che si era sporcata del sangue dell'unico erede della sua famiglia per non macchiarsi d'incestuoso disonore. Dorata e taciturna era mia madre, la cui salute fragile mal sopportò l'aria palustre che le estinse le forze. Tuttavia ad ucciderla fui io. Solo io. Infine io. Quando emisi il primo dei miei respiri, lei spirò l'ultimo dei suoi. Nel lago dove tutte le figlie di Qàyin partoriscono i figli di Qàyin.
  Non mi dissero mai quale fosse il suo nome.
  La abbandonarono lì, così ordinò il Veglio[3] dell'Isola per onorare il primo omicidio del primo dei suoi figli, poiché avevo adempiuto alla prima e più sacra delle leggi senza saperlo: Uccidi tuo padre e, se puoi, tuo fratello. Uccidi tua madre e, se puoi, tua sorella. Uccidi la tua sposa e, se puoi, la tua prole. Uccidi il tuo migliore amico e, se puoi, te stesso. Non risparmiarti nulla, poiché non esiste libertà più grande dell'omicidio. Questa è la Legge che fa dei Qayiniti gli uomini liberi che sono.
  Issione mi raccolse spezzando il cordone che mi univa alla morta. Mi incise la fronte con la punta d'oro di freccia che portava al collo per donarmi il marchio di Qàyin, memento per tutti coloro che osano sfidarla, e che tu hai riconosciuto. Quando sugli scogli la folla esultò, l'uomo mi sollevava sopra il suo capo. Immagino gridasse la sua soddisfazione, mentre io sanguinavo su di lui. Quale ironia... Se solo avesse sospettato la delusione che sarei stato per il suo orgoglio, mi avrebbe lasciato divorare dalla palude. Come mia madre.»
  «Sono diverso. Fin da bambino mi sono reso conto con vergogna della mia mostruosità, che ero straniero in quella che mi era stata promessa essere la mia famiglia, la mia casa.
  Guardami.
  Cosa vedi?
  Nient'altro che un uomo.
  La mia differenza non è nel corpo.
  Fosse così semplice... perché Qáyin non vede differenze fisiche o di genere tra i suoi figli: sebbene
tu sia monco, infermo, malato o demente, resti sempre un figlio di Qáyin, finché puoi assecondare il
suo desiderio di sangue. E i suoi bambini più amati non hanno più nome. Sono i Testimoni di Morte.  Ultime vestigia di una tradizione troppo oscura per trovare un qualche significato alla luce del presente. Magri. Scuri. Claudicanti. Aleggiano a coppie per gli intestini dell'isola vestiti di bende e stracci sudici. Nascono da donne, ma vengono privati del diritto d'essere chiamati uomini non appena vengono al mondo. I neonati sono castrati. Strappata loro la lingua. Cucite loro le palpebre. Solo perché un sorteggio ha segnato la sorte di quei bambini. Ma nessun genitore si oppone! È un onore essere scelti. Quando il nome viene estratto, la madre avvolge il neonato nel sudario che durante la gravidanza ha tessuto per lui: è un pegno d'amore, l'ultimo, perché una volta che l'ombra della Morte lo avrà inglobato, non sarà più suo figlio. Sarà carne della carne di Qáyin. Creato per testimoniare ai suoi riti, perché la città non ha sacerdoti: all'interno della palude non esistono gli dei. Qàyin ha posto su sacri altari l'innaturale morte come puro piacere spirituale, così da commettere senza ribrezzo le più atroci opere. E i Testimoni vegliano. Ne vidi uno durante le Ippotee[4] a cui era stato sufficiente udire il suono poco tenero della carne della vittima per capire che non era stata torturata prima di morire. Sacrilegio! Ma l'accusato si difese. Allora l'altro Testimone si gettò al suolo e come un cane annusò il sangue sparso a terra. E confermò, poiché il sangue non sapeva dell'acido odore del terrore[5]. L'assassino pagò il prezzo: la gamba perché non dimenticasse più di mettere un piede in fallo, la mano perché si ricordasse sempre che i Qayiniti sono assassini, non bugiardi.
  “La menzogna ferisce molto più della verità” disse Issione. Io, dinnanzi a quella mattanza, non
riuscii a concordare con lui.
  Loro dormono. Mangiano. Si muovono come se dinnanzi a loro fosse tutto così chiaro. Vivono nei
vicoli sia che nevichi durante il più rigido inverno sia che picchi il più arido dei soli, e rifiutano con
gelida indifferenza di varcare la soglia della tua casa, se invitati a trovare un qualche rifugio. Per
questa loro serenità interiore, li ho sempre invidiati, perché anche se non avevano nulla più che se
stessi, sembravano felici. Ma ogni volta che penso a loro striscia dentro di me una consapevolezza:
da una parte sollievo perché quell'anno non scelsero me, dall'altra angoscia perché tra me e loro c'è
stato solo il caso a separarci.
  Ma se fossi stato scelto, sarei stato degno. Così ora sono il Perverso! Nato male. Deforme
dentro...»



[1] Antica tribù germanica. (N.d.A.)
[2] Famosa volva facente parte dei Bructeri. Le volve erano figure tra le streghe e le sciamane all'interno della tribù. Velleda è una famosa figura storica che ispirò la rivolta batava, guidata contro l'impero romano da Giulio Civile, principe batavo romanizzato (70 d.C.). Primo a narrarne le gesta fu Tacito in De Origine et situ Germanorum.(N.d.A.)
[3] Vecchio.(N.d.A.)
[4] Festività tipica di Qàyin. (N.d.A.)
[5] Le sostanze chimiche prodotte dall'amigdala del cervello influiscono sul sapore della carne, in quanto sono di composizione prevalentemente acida. Dunque la carne di un animale morto di terrore avrebbe un sapore più acre rispetto a un suo simile morto serenamente.(N.d.A.)

Giudizi

Un’opera matura, stilisticamente evoluta, intensa. In una struttura priva di ridondanze o fumose aggettivazioni, spicca la freschezza dei tratti narrativi all’interno di un’ossatura edificata con criterio. Agile la mano dell’autore, vero il suo sguardo interiorizzante. Il tutto con occhio vivace e piglio da sceneggiatore. (Giorgio Massi)

Il tema scelto dall'autore è disturbante, dal momento che descrive crudeltà e violenza come imprescindibili in una immaginaria società tribale. Questo sfondo fa emergere la potenza e la bellezza dell'arte come una forza viva, capace di salvare chi si affida alla coscienza per decidere delle proprie azioni. Il linguaggio utilizzato è teso nello sforzo di rendere vividamente la durezza e la violenza della vita dei protagonisti. (Alessandra Carlini)

Intenso, impegnativo, coinvolgente, intimo. Un racconto che scuote le viscere per il tema carico di tensione. Interroga sul valore dell'istinto, dell'originario pensiero filosofico dell'uomo che divora la vita, ma con la possibilità di un riscatto generato dalla coscienza e da una domanda di bene. (Simona Mulazzani



Opere segnalate

EMILIANA di Milena Ziletti (Asola, MN)

Milena Ziletti è una scrittrice per passione. Scrive fin dalle scuole elementari e non ha ancora smesso nemmeno ora alle soglie dei sessant’anni. Abito ad Asola (MN).
Primo Capitolo

È molto dura lavorare in fabbrica per dieci ore a fila.
Siamo in tante a fare questo dannato lavoro. La filanda è un posto da non augurare a nessuno; ma, senza lavoro non si mangia.
Mi chiamo Emiliana, ho 15 anni e da tre anni lavoro in questo inferno. Qui non si vive, si soffre; e a casa non va molto meglio. Chi ha inventato questo lavoro deve essere uno che odia le donne, ma le donne non sono odiate e sfruttate solo qui dentro, fuori di qui non è molto diverso.
Per esempio in casa mia. Vivo con i miei genitori e due fratellini più piccoli in una casa che sembra una stamberga, ma non possiamo permetterci di meglio. Mio padre è un ubriacone che non sa tenersi nessun lavoro. Mia madre subisce ogni sopruso da parte sua e non sa reagire. Sui miei fratellini e me, di conseguenza, si riversa tutta questa situazione. Certo, non è che siamo una eccezione, no, siamo praticamente la regola.
Che schifo di vita!
Se penso che fra pochi anni anch’io prenderò marito ed avrò dei figli, e forse ripeterò la vita che sta facendo mia madre, mi viene voglia di scappare lontano lontano.
Sono una sognatrice, ma i miei sogni ad occhi aperti mi portano solo solitudine e rabbia. La vita in paese scorre come se fosse su un nastro trasportatore: è tutto quasi uguale, ogni giorno uguale all’altro. Il lavoro in filanda che spezza la schiena, la domenica alla Messa e poi in compagnia con le mie amiche. Siamo un folto gruppo della stessa età: Cecilia, Rosa, Maria, Elena, Anna, Serafina, Giannina, e tante altre. Ci sono anche i maschietti, ma loro fanno gruppo a parte.
La maggior parte della nostra vita la passiamo lavorando. Sembriamo un branco di pecorone quando al mattino, ancora assonnate, entriamo in filanda. Il rumore dei telai è talmente forte che non c’è spazio per nessuna parola, anche se non sarebbe possibile, perché i sorveglianti sono molto severi. Intanto che lavoro cerco di pensare a cose belle, e qui mi frega il mio sognare a occhi aperti: sono svelta con le mani, ormai lavoro quasi senza pensarci, così, penso a cosa mi piacerebbe avere dalla vita.
Una ragazza della mia età sogna un principe azzurro ricco e innamorato, ma io cerco di stare con i piedi per terra, mi basta essere capace di resistere alle tentazioni dei ragazzi che mi circondano, io voglio qualcosa di più e sono sicura che lo troverò. Intanto nella mia vita non cambia niente e vengo un poco emarginata.
C’è la pausa per il pranzo. Tutte ci portiamo qualcosa da casa. In mezz’ora dobbiamo andare al gabinetto e mangiarci un pezzo di pane. Molte fumano, ma non io. Durante le ore di lavoro non possiamo assentarci per nessun motivo e, durante la pausa, c’è una fila talmente lunga alle latrine che passi davanti al quel posto maleodorante metà del tempo.
Io non capisco le mie compagne: ridono per niente, fanno le smorfiose con il gruppo dei maschi e mi sembra che si rendano ridicole. Poi, però, so che lo fanno per avere un minimo di distrazione e con la speranza di trovare qualcuno che le sposi e le tiri fuori da qui. Sono delle ingenue, se sposi uno di loro farai la stessa vita di adesso, magari con il pancione e un marito che non ti rispetta. Torno al mio lavoro, non voglio vedere altro. (…)


Giudizi

Nel 1992 scoprii, in un distretto militare, che esistevano persone che non sapevano leggere. Lo ricordo ancora, quel giovane che seguiva mansueto un sottoufficiale per farsi leggere domande e risposte multiple, e non riuscivo ad accettare la cosa. Ma ero un ragazzino abbronzato e strafottente e scossi la testa con un sorriso. Oggi, più indulgente nei confronti dei limiti di un mondo imperfetto, leggo questo racconto e ci ritrovo i sogni di uomini e donne che avevano ancora “fame”, per cui era una fortuna (guadagnata, sia chiaro) saper leggere e fare di conto. Oggi leggo di un mondo che forse esiste ancora, relegato in qualche oscuro cono d’ombra ai margini della foresta. Oggi, che il saper leggere e scrivere e fare di conto non serve nemmeno a farti guadagnare un incarico stagionale. E poi, chi lo vuole più? Non certo noi, pronti all’allunaggio e ancora più pronti alla gloria! (Stefano Martello)

La prevaricazione nella vita, nel lavoro, il difficile contesto familiare, il sogno di emigrare, sono temi novecenteschi che spiazzano in un racconto scritto nei nostri giorni. Eppure la protagonista è molto contemporanea quando cerca di sottrarsi alle logiche di una società chiusa, ed aspira a un altrove che resterà idealizzato. La prosa è semplice, senza fronzoli, come la vita di Emiliana, ed il racconto, virando con ottimismo verso una specie di happy end, si segue con piacere. (Alessandra Carlini)



Oscar Arnulfo Romero il santo d'America
di Francesco Di Sibio (Frigento, AV)

 Francesco Di Sibio, irpino, nato a Pontedera (PI) nel 1975, è uno dei curatori della collana foto-poetica “Pietre vive” edita da Delta3, di cui sono usciti i primi tre volumi: Abbazia del Goleto e Compsa nel 2012; Castello d’Aquino nel 2013). Nel 2013 e nel 2014 è stato terzo classificato al premio “L’inedito”, Lacedonia (AV), nella categoria narrativa-romanzo. Il suo testo “Un senso del viaggio: il ritorno” è inserito in Letteratura… con i piedi (Fara 2014). Il racconto “Pedalando senza fretta” è presente in Emozioni in marcia e il saggio “Caporetto e la Grande Guerra della letteratura” ne Il luogo della parola (Fara 2015). Ha realizzato varie manifestazioni culturali, soprattutto reading letterari.



Questa non è la storia di un uomo, ma di un popolo

Liberamente tratto da L’Arcivescovo deve morire di Ettore Masina, Edizioni Gruppo Abele


(Buio. Una voce fuori campo dice)
Voce fuori campo: Alla fine degli anni settanta in un piccolo stato del centro-america chiamato El Salvador…
  
Quadro 1

musica centro-americana
(i campesinos entrano in scena cantando. Tra loro c’è padre Davide “il biondo” che si stacca da loro a fine canzone e dice).

Padre DavidePerché aver paura di chi è più forte di voi, di noi? Perché rimanere fermi, immobili in questa situazione di dolore e sofferenza? E’ vero, siamo moscerini in confronto a loro. Hanno il potere economico e militare, ma è giusto restare per sempre sottomessi, schiacciati? Non è una guerra o una rivoluzione che dobbiamo fare. La nostra strada è un’altra. La nostra voce deve essere ascoltata.
Dio è con i poveri, gli ultimi, i bisognosi, gli emarginati… Dio è con noi! Come sapete, il mio nome è Davide. Voi mi chiamate anche “il biondo” per via di questi miei capelli, ma mi chiamo come il piccolo re degli ebrei che sconfisse il famoso gigante Golia con la sua povera, ma non inutile, fionda. Sconfisse Golia, perché Dio era con lui.
(durante la canzone si affaccia in scena la tunica bianca di Romero, che ascolta in disparte).

Davide e Golia
Cantata da: Padre Davide “il biondo”

Tu vieni a me con la spada
con la lancia e con l’asta.
Io vengo a te nel nome di Dio
che tu hai insultato.

Sono piccolo, sono Davide.
Sei un gigante, sei Golia,
su questa strada, la mia,
io non posso tacere.

Ogni giorno combattiamo
cattiveria, malvagità.
Oppressione, difficoltà,
sono pane quotidiano.

Sono Davide,
la mia fionda è qua,
sono piccolo,
mia forza è la verità.

Sono Davide
non conosco crudeltà,
sono piccolo,
mia forza è la verità.

Uniti noi possiamo,
combattere i giganti,
insieme noi vinciamo,
facciamo un passo avanti.

Sono Davide,
la mia fionda è qua,
sono piccolo,
mia forza è la verità.

Sono Davide
non conosco crudeltà,
sono piccolo,
mia forza è la verità.

(i campesinos si siedono a terra. Entra in scena un gruppo di persone ben vestite. Rappresentano le famiglie facoltose dello stato e cantano)

Oligarchia
Cantata da: rappresentanti delle famiglie

Le mie terre vanno dai monti al mare.
Le mie terre costeggiano il fiume.
Le mie terre sono una regione.
Le mie terre sono mie!

Le nostre terre inondate dal sangue.              (insieme)
Le nostre terre inondate dal sangue.

Le mie terre sono le più fertili.
Le mie terre hanno delle miniere.
Le mie terre sono le più estese.
Le mie terre sono mie!

Le nostre terre inondate dal sangue.
Le nostre terre inondate dal sangue.

I nostri soldi alimentano il governo.
I nostri interessi interessano il governo.
Le nostre milizie sostengono il governo.
Il governo siamo noi!

Le nostre terre inondiamo di sangue.
Le nostre terre inondiamo di sangue.

(…)

Giudizio

Nelle vesti leggere, ma di ottima fattura del musical, uno schiaffo alla coscienza di tutti noi. (Gloria Visani)



Juan delle Ande (il viaggio è nell’anima) 
di Nadia De Stefano (Viareggio, LU)

Nadia De Stefano nasce a Reggio Calabria dove vive fino alla maturità artistica,in seguito si trasferisce a Milano, in Piemonte per amore, infine a Viareggio dove vive e lavora. Scrittrice fin dall’adolescenza, ottiene vari premi e riconoscimenti per le sue opere in prosa e poesia, alcune sono pubblicate in antologie. Ha già pubblicato: la silloge poetica Fuori dal bozzolo (Aletti Editore 2011): Amore Condiviso un’antologia che raccoglie componimenti di quattro poeti (Gruppo Albatros Il Filo 2011); l’e-book Delirio di parole (La scuola di Pitagora Editrice 2011); una raccolta di racconti Cronache di vita ordinaria (CLD libri Editore 2014) e la silloge Sonorità Sommerse (Leonida Editore 2014).


Hai mai trovato quello che volevi?
Sei mai partita per dove sognavi?
Hai mai guardato dove nascono i venti?
(Piero Pelù)


Giorno 1° La partenza                                      

Mi sveglio.
Anche stanotte ho fatto tardi a scrivere, i miei occhi sono sacche profonde incavate e violacee, sacche viola a contorno dei miei occhi neri.
Ma non sono stanca. Oggi è il “giorno”.
Inizio il mio viaggio in solitaria, conosco il luogo da cui partirò, ma non so nulla del posto verso cui sono diretta e questo mi piace.
Mi faccio una doccia lunga e rilassante per preparare il corpo e la mente alle incognite future.
Le valigie sono pronte da una settimana, dal momento in cui il mio editore ha detto “ti do un paio di mesi di relax, non ti cerco e non ti stresso, ma alla fine di questi due mesi voglio il libro sul mio PC.”
Lui lo chiama relax, io lo definisco obbligo editoriale.
Sorrido e preparo i miei pensieri al prossimo romanzo. Di solito non programmo cosa scrivere, lo faccio e basta!Ma il libro di cui lui filosofeggia io l’ho già scritto mille volte dentro la mia testa.
Si tratta solo di organizzare la stesura e trovare le parole giuste per iniziare, poi tutto verrà da sé.


Aeroporto di Malpensa.
Il volo per Buenos Aires parte alle 21.
Non ho mai volato di notte, anche questa sarà un' esperienza nuova. Mi guardo intorno, mi piace questo mondo multirazziale, dove non si distingue nazionalità.
Africani che parlano un italiano corretto e donne con bambini che giureresti locali,  parlano invece una lingua a me sconosciuta che profuma di est.
Mi attardo nell’osservazione di questo mondo multicolore e non sento che il mio volo è stato annunciato, lo capisco dalla concitazione intorno a me.
È tutto un far su bagagli a mano, il mio in realtà è un cambio “volante” di vestiti.
L'inverno ha già attanagliato Milano e la nebbia la fa da padrona sulla pista di decollo, spero solo che questo non comporti ritardi.
Per fortuna non nevica ancora, nonostante si sia sottozero ormai da settimane.
Prendo il bagaglio a mano, la mia borsa e il portatile, tento di dimenticare il cappotto, ma una folata di vento gelido, che arriva da oltre le porte, me lo fa ricordare, lo metto su e mi giro la sciarpa intorno al collo.
Ho visto le previsioni del tempo sulla TV satellitare prima di uscire da casa, sole e caldo mi aspettano di là dall’oceano.
Sento il freddo penetrarmi le ossa mentre varco la soglia della sala d’aspetto e mi dirigo insieme con gli altri verso la navetta che ci porterà sull’aereo.
Penso al mio editore e rido.
Non sa del mio viaggio, non sa di cosa tratterà il mio libro.
Si fida di quello che tra due mesi troverà sul PC…

In perfetto orario.
L’aereo prepara i motori per il decollo. Chiudo gli occhi.
Non penso alla meta, penso al viaggio e rimango con gli occhi chiusi per assaporare l’adrenalina che mi regala il decollo.
Adoro questa sensazione di vuoto nello stomaco e sorrido di questa mia allegria.
Cerco di immaginare i volti intorno a me: stupore, meraviglia, paura, indifferenza, abitudine. C’è tutto intorno.
Ci siamo stabilizzati, riapro gli occhi e cerco di materializzare i miei compagni di volo.
Di fianco a me, che ho scelto di stare lato finestrino per godermi il panorama, c’è un uomo sui cinquantacinque anni, distinto, brizzolato, ha ancora gli occhi chiusi, ma non dorme, cerca di assaporare fino in fondo l’effetto adrenalinico del decollo.
La stessa che agita anche me.
Lo guardo finché non li riapre, i nostri occhi s’incontrano e il sorriso di condivisione nasce spontaneo sulle nostre labbra.
Cerco si scivolare oltre ma i suoi occhi mi chiedono parole.                                                 
Ne ho voglia! Parliamo un po’. Posso guardare gli altri più tardi.
Ha in effetti, cinquantasette anni e vive in altalena tra l’Argentina e l’Italia, dove ha le sue radici.
Possiede una piccola fabbrica tessile, parla del suo lavoro con passione, riesco a vederlo dentro la sua azienda, non come padrone, ma come uomo attento alle necessità di chi lavora per lui.
Istintivamente mi piace.
Molte cose ci accomunano: la politica, la cultura, la letteratura. Si! Mi piace.
I suoi occhi sono sinceri, lo capisco dall’assenza di esitazione del suo sguardo. Non ha letto nulla di mio, io ho casualmente in borsa una copia del mio ultimo lavoro e così gliela regalo.
Lui mi sorride ed è certo che gli piacerà il mio modo di scrivere.
(…)


Giudizi

Ripercorrere un frammento esperienziale senza cadere in voli pindarici o derive filmografiche: è questo l’impulso che induce l’autrice a intessere un diario di cronaca asciutto ed essenziale. Alla fine, emerge una ricerca vissuta e sincera, sulle orme voluttuose di nuove terre e nuove anime. (Girogio Massi)

A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quello che cerco. Michel Eyquem de Montaigne ha ragione – e le nostre vite spesso lo testimoniano – ma dimentica anche i tanti che fuggono per non ricordare ciò che sanno fin troppo bene, per lasciarlo in qualche spazio remoto sperando in ricordi ed emozioni e paesaggi “freschi” e nuovi. Indolori e poco pericolosi. Questo viaggio – ma è una considerazione personale, e sono pronto a tutte le ritorsioni del caso – è partito così, con una scusa banale a legittimarne la durata e la consistenza. Ed è finito ancora meglio, con una consapevolezza nuova sopraggiunta, con un risultato non scontato e con un gusto ritrovato per una avventura che nessun depliant di viaggi potrà mai descrivere in tutte le sue imperfezioni e sfaccetature. (Stefano Martello).


Di tutto un po' 
di Donatella Fassina (Sant’Urbano, PD)

Donatella Fassina è nata a Carceri (PD) nel ’59. È insegnante precaria… Ha vinto il concorso di poesia di Aletti editore con la poesia Migrante nostrum, inserita, insieme ad altre, in coda a questo racconto.

Introduzione

Non è una storia inventata. È il racconto di parte della mia vita.
L’inizio nasce dall’esperienza di crescere 5 gattini abbandonati, allattandoli con il biberon, aiutata dalla mia cagnolina di nome Gessi.
E’la mia voce unita alla loro, a quella non voce di chi è riuscito a volermi bene, nonostante tutto. Da loro ho imparato a voler bene, nonostante tutto.
Era il 1999, ed ero sola.
Il mio piccolo, non aveva visto il nostro mondo ed io non ero riuscita a vedere lui. L’avrei chiamato Peter.
Trisomia 18, ed è sparito, avvolto in un piccolo lenzuolo.
Da qui l’inizio dell’anima ed il bisogno di scrivere, di tutto un po’.


CAPITOLO UNO Inizio dell’anima

“Senti Gessi, non riesco proprio a dormire. Sai, mi metto a scrivere. Troverò la tranquillità per perdonarmi.”
Gessi, bionda con gli occhi strabici, caldi e di una intelligenza  loquace, le orecchie lunghe e morbide, l’ululato di gioia pura come risposta al saluto.
Lei non mi ha lasciata sola.
Da qui sono partita ed il primo insegnamento mi è entrato nell’anima: “Mai abbandonare chi è solo, mai.”. La solitudine comporta il suicidio dell’anima e del corpo.
Sta di fatto che l’insonnia era dura da riempire, lasciava troppo spazio vuoto,  confuso.
Il telefono squillò. “ Ciao, scusa se ti disturbo. So che ti occupi di animali abbandonati, e noi abbiamo trovato un sacchetto con cinque gattini con il cordone ombelicale ancora attaccato”
La voce arrivava dall’argine del fiume e non sapeva che anche Peter, mio figlio, se ne era andato lasciandomi il rumore del taglio del cordone ombelicale . Non sapeva che quel sacchetto miagolante sarebbe stato per me la salvezza, il ritorno al mio piccolo universo di bene.
Non sapeva nemmeno dei miei lunghi viaggi lungo gli argini, nei vecchi fienili dati in affitto ai ragazzi migranti, che vivevano nello stento fisico e mentale dell’abbandono, dell’ indifferenza, del lavoro nero e sottopagato.
“ Sì, diciamo che mi occupo o meglio  cerco di non ignorare, gli animali abbandonati Umani compresi, pensai. Se sai dove  sono, portali. T aspettiamo.”

Gessi aveva già partorito tre cucciolate, ma aveva un talentuoso istinto materno verso i gatti. Una volta ci provò anche con un riccio, ma la storia non ebbe seguito, diciamo per incompatibilità di pelliccia. Bastava dirle “ Micio piccolo, Gessi, cerca” ed era una festa scodinzolante.
L’ansia di vederli arrivare, era più forte in lei che in me.
A trovare quel sacchetto, era stato un enorme terranova, che chiamerò, cane d’acqua.
Durante la sua solita ,quotidiana passeggiata, venne attratto dal miagolio di fame, freddo e paura  di uno dei cinque pelosi, rinchiusi a soffocare in un sacchetto di plastica. Erano un rifiuto, non tanto inteso come “materiale da compostaggio”, ma proprio il rifiuto di una mente malata che insieme a tante altre, decide di rigettare la vita di un altro.
“Gessi, tra un po’ arriva un grande e meraviglioso cane d’acqua, che da eroe, ha salvato dei mici piccoli. Gessi, dove vai, no, non sono lì, aspetta…”
I ragazzi rumeni che conoscevo, avevano imparato a stare con Gessi. Lei mi seguiva anche quando andavo a trovarli. Non saliva ovviamente le scale per arrivare al fienile, ma mi aspettava a naso in su, tenuta maldestramente al guinzaglio da uno di loro.
Erano in tanti, tutti arrivati come clandestini. Giovani, ma anche no. Soli o accompagnati dalle loro compagne. Lavoro, cercavano lavoro. Ricordo soprattutto il gelo, riscaldato solo dalla puzza di sudore, aglio ed alcol, in quelle piccole baracche a ridosso della casa padronale di chi, cristianamente, dava loro lavoro. Andavano in chiesa questi che li facevano lavorare per pochi soldi e si sentivano anche in pace con la loro non anima. (…)

Giudizio

Racconto pieno di dolore, coraggio e dignità. (Gloria Visani)



Il mio nome è scritto nel libro della vita
di Antoaneta Simonescu (Bucarest-Rimini)


Antoaneta Simionescu autrice rumena 57 anni, nasce  nel 1957 a Bucarest, Romania, ed oggi vive a Rimini Italia. Ha conseguito diploma in filologia e storia a Bucarest Romania. Infermiera professionale presso  ospedali e varie cliniche private Italiane. Nel 1992 inizia un lungo percorso di introspezione di ricerca della sua identità. Con tempo incontra Dhyan Manish, psicoterapeuta e guida spirituale. Si dedica oggi agli altri e alla scrittura. Utilizza la danza e la musica come fonte di guarigione per mente, corpo e spirito. Studia preso Centro Studi e Ricerche di Rimini concetto operativo gruppale Josè Bléger.

LETTERE

Rimini 1 settembre 2013 -  ore 22.30

Ciao caro nonno, mi dispiace di non averti conosciuto personalmente, sentivo molto parlare di te. So che tu non avevi piacere di venire dal centro della capitale per andare a vivere in periferia, che per questa ragione ti sei ammalato. So che sei stato un uomo buono, un gran lavoratore, che facevi il telegrafista e che hai vissuto la guerra; crescendo e osservando le tue fotografie, vedevo un volto severo, provato, un’aria borghese. Seppi che eri anche un uomo esigente, pieno di regole e perfezionista e che ti prendevi cura della tua famiglia. Considerato che io sono entrata dopo la tua “partenza a miglior vita” così mi fu detto, non ho mai saputo se anche tu fossi stato a conoscenza del progetto di tua figlia e della nonna di adottare un figlio. In ogni caso eccomi qui, mi chiamo Gaby, al momento dell’adozione avevo quasi tre anni. Non ti ho mai visto ma ti confesso che abbiamo avuto un punto in comune: anche a me non piaceva il quartiere di periferia ma che dire… certe cose bisogna accettarle quando non si ha scelta. Sono stata una bambina fragile e delicata ma anche vivace e piena di vita. Caro il mio nonnino, sappi che avevi una nipote che avrebbe se desiderato tantissimo avere un nonno, dondolare sulle sue ginocchia, ascoltare qualche favola, ricevere delle coccole. Ora sono grande, ho 56 anni e vorrei dirti che sei bisnonno. Ecco, desidero presentarti Andrei, arrivato nel febbraio dell’87 dal mio matrimonio, oggi ha compiuto 26 anni ed è un ragazzo meraviglioso. Sono molto fiera di lui e mi considero oggi una mamma felice. È arrivato a sorpresa un po’ come a sorpresa fui arrivata anch’io nella tua famiglia un giorno e mi rammarico del fatto che tu non abbia potuto avere la possibilità di conoscermi. Oggi nel mio saluto ti auguro che la tua anima possa essere libera e leggera e se è vero ciò che si dice nella saggezza della filosofia orientale, spero che un domani le nostre anime si possano incontrare e abbracciare.
                                      Tua nipote Gaby


Rimini 23 settembre 2013 - ore 23.00

Cara nonna, quante cose abbiamo fatto insieme tu ed io nel bene e nel male, a volte ci siamo divertite, altre abbiamo avuto dei conflitti ma ora che ci ripenso capisco che in certe occasioni, nemmeno tu sapevi bene quel che stavi facendo. Ti perdono. Sappi che comunque mi manchi e seppur a modo mio ti ho voluta bene. Ti mando da parte mia un abbraccio affettuoso sperando possa arrivarti e ridarti la pace.
Tua nipote Gaby


Rimini 23 settembre 2013  - ore 06.00

Mamma, quando socchiudo gli occhi ti vedo ancora, triste, tuttavia sempre vigile, eri magra, piccolina, avevi mani stanche dal lavoro, e sapevo che non ti fermi mai. Quando è che ti sei mai fermata mamma? È arrivato il tempo di essere più serena, avrei voluto guardarti nel cuore. Ho voluto bene sia a te che a papà, anche se ci sono stati momenti in cui ho provato odio dentro di me, a causa di ciò che abbiamo vissuto. Desidero liberarmi da questo risentimento e dai rancori, ricordandomi che avete seppur a modo vostro, provato ad essere dei buoni genitori. Attraverso voi avrei potuto avvicinarmi all’amore di cui avevo bisogno, non l’ho avuto ma sono stata comunque capace di donarlo a mio figlio. In questo momento sento di avervi perdonati, che il cielo vi riceva amorevolmente e vi faccia ritrovare la serenità di cui probabilmente anche voi avevate.
Tua figlia


Bucarest, 1978 - Ai miei ex

Sono ancora arrabbiata con voi, ogni tanto mi mancate, quanto avrei voluto trascorrere del tempo a giocare ed essere compresa da bambina e quanto è stato facile poi a causa di ciò commettere errori… desidero comunque sappiate che vi considero e vi considererò sempre parte della mia vita.
Gaby

(…)

Giudizio

Un volo d'uccello sulla vita di una donna dell'Est, attraverso le tappe di un'esistenza travagliata: l'infanzia in orfanotrofio, l'adozione presso una famiglia con la quale stentano i rapporti, i problemi di salute, le prime relazioni sentimentali, la fuga verso l'Italia. Un racconto di riscatto, di testardaggine, di forza d'animo, con poche concessioni all'autocompatimento e frequenti citazioni letterarie, dalle quali l'autrice sembra trarre forza e saggezza. (Alessandra Carlini)


A occhi sgranati 
di Maria Clotilde Pesci Schiavo (Roma)

M. Clotilde Pesci Schiavo vive a Roma, è laureata in Scienze Politiche, è stata per lunghi anni insegnante di Materie giuridiche. Ha sempre amato, la Storia e i suoi approfondimenti. Un amore che l’ha  sostenuta nel raccogliere negli anni, a spizzichi e bocconi a causa degli impegni della famiglia e dell’insegnamento, testimonianze e ricerche bibliografiche relative agli anni della guerra civile 1943-45 in Italia, di cui si è avvalsa per ambientare il suo lungo romanzo … tranne la memoria, pubblicato nel 2011, premiato nel Concorso letterario AlberoAndronico e 1° classificato, ultimamente, a La Spezia, nel Concorso Lett. Internaz. “Antico Borgo”. I suoi racconti “Le qualità dell’amore”, “La marina” e “Park Kul’tury” sono stati premiati rispettivamente nei concorsi La Girandola, AlberoAndronico e Pubblica con noi di Fara editore. Ha avuto l’opportunità di abitare alcuni periodi all’estero, soprattutto in Unione sovietica, del cui soggiorno sta ora riordinando emozioni ed esperienze vissute. Ispirandosi a un dramma che ha sfiorato per lunghi anni la sua esistenza, ha iniziato la stesura di un nuovo romanzo.

   

Era un paese ai minimi termini, tanto striminzito che persino il nome si componeva di una sola sillaba: Vy. Un’altra sua particolarità consisteva nel fatto che, pur trovandosi nelle vicinanze del Lemano, era situato sull’altopiano, da dove le acque del lago nemmeno si scorgevano: nessuna umidità quindi, bensì una rigenerante aria di montagna che giungeva diretta dalla cornice delle Alpi, le cui cime, attraverso l’atmosfera rarefatta, sembrava di poter toccare stendendo semplicemente il braccio.
Il paesino non possedeva né mercato, né negozi di alcun tipo, neppure uno di quegli empori classici dei film western. L’unico punto vendita consisteva in una colonnina sulla quale venivano appoggiati i giornali giunti dalla città con la prima corsa della corriera. Si pagavano infilando la moneta del prezzo in una fessura, come in un salvadanaio.
Tuttavia, nonostante la sua esiguità, Vy non era frazione di un altro paese, ma un Comune in piena regola, perché possedeva una Mairie[1] (e dunque un maire[2]), la scuola elementare, un edificio di culto (il Tempio protestante), un proprio Corpo dei vigili del fuoco, nonché un bar birreria con due stanze da letto per il pernottamento di eventuali clienti. Quest’ultimo era gestito a spese della municipalità, perché nessun privato avrebbe intrapreso un’attività senza reddito o addirittura in perdita. Ma, soprattutto, Vy possedeva un Ufficio Postale che serviva anche tre o quattro paesi viciniori.
Nel territorio di Vy abitava anche una regina in esilio, in un castello che non possedeva i merli, le torri e le torrette evocati da simile termine, ma era, come tanti altri della zona, un’imponente villa di campagna del ‘600 con parco annesso. La sua vita non gravitava su Vy ma sul paese vicino, dove lo staff si recava per le compere e dove la regina era solita assistere alla Messa. Nei vari paeselli attraverso i quali si snodava la strada per Ginevra i luoghi di culto erano infatti equamente distribuiti di volta in volta tra cattolici e calvinisti.
L’amica che mi ospitava abitava l’ala di un’antica fattoria ristrutturata, destinata dal padrone di casa, monsieur Vivier, metà a se stesso e metà ad affittuari. Un ulteriore edificio affacciato sul cortile comune era affittato a una famiglia svedese. Ma la proprietà che rappresentava il fiore all’occhiello del padrone di casa era l’UFFICIO POSTALE, di cui egli era il gerente non si sa se per diritto divino o ereditario: un edificio rettangolare a un unico piano, la cui entrata posteriore si apriva sul cortile comune e quella principale sulla strada, proprio di fronte al capolinea della corriera.
Chiunque fosse stato per ipotesi obbligato a fare un identikit di questo monsieur Vivier si sarebbe trovato in forte imbarazzo, perché si trattava di un individuo assolutamente anodino, cui la natura non aveva concesso alcun segno distintivo né quanto a lineamenti né quanto a corporatura. Tuttavia cambiava aspetto, e in un certo senso anche personalità, diverse volte al giorno, secondo il copricapo che di volta in volta le sue molteplici mansioni lo obbligavano a calcarsi in testa. Il mattino presto, infatti, ostentando un berretto da portalettere, inforcava la bicicletta e assolveva il compito di postino; alle 9 rientrava, si toglieva il berretto, infilava due mezze maniche nere e apriva l’Ufficio postale, assumendo la qualifica di ufficiale postale; alle 12, sfilatesi le mezze maniche, chiudeva l’Ufficio e con pochi passi si recava a casa per pranzare (e questa volta, non avendo qualifiche particolari, esibiva un cranio desolatamente spelacchiato). Di lì, dopo una breve siesta, con un cappello di paglia a larghe falde e nella veste di proprietario terriero, si recava a curare i suoi vigneti. Quella era infatti una zona di vigne produttrici di un vino pregiato, che si estendevano, intercalate da qualche borgo, lungo buona parte della strada per Ginevra.


[1] Municipio
[2] Sindaco

Giudizio

Un simpatico giallo dalla fine forse scontata ma forse proprio voluta dall'autore che già dall'inizio strizza l'occhio al lettore per dargli i giusti indizi. Simpatico da leggere con un sorriso sornione. (Simona Mulazzani)

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