venerdì 9 gennaio 2015

Lettera su Volevo essere Bill Evans di Sergio Pasquandrea

di Vincenzo D'Alessio

Caro Sergio,


ho letto il tuo libro, Volevo essere Bill Evans, pubblicato da Fara Editore in ottobre dell’anno scorso ed ho pensato di scrivere la mia recensione in forma epistolare, per sentirti più vicino come musicista e cultore della tradizione del Jazz. Hai fatto bene a raccogliere i tuoi interventi apparsi sui blog La poesia e lo spirito e Jazz nel pomeriggio in quest’unica plaquette utilissima a chi ama il Jazz e più importante ancora per chi lo vorrebbe conoscere.
In primo luogo amo la sincerità nella tua scrittura e il dono di rendere con una ironia appassionante un genere musicale poco frequentato dal pubblico italiano: oggi, come sai, la coscienza popolare ha portato alla ribalta quanto scrivi a pag. 38 del tuo libro: «(…) Forse aveva ragione il vecchio Pino Daniele (quello d’antan intendo). I napoletani, e tutti noi meridionali, siamo “neri a metà”. Per me, è quella metà lì che conta.»
Oggi con la scomparsa di Pino Daniele il Jazz ha perso una parte dell’uomo “nero”, figlio di quella luce meridiana che ci permetteva ascoltandolo di immergerci nelle acque del fiume che bagna New Orleans.


Ogni pagina del tuo libro mi ha trasportato nella memoria degli anni migliori dei miei trascorsi musicali: avevo quindici anni anch’io, tu ne avevi tredici (pag. 56) quando il soul mi ha fulminato con le voci di Aretha Franklin, Diana Ross and the Supremess, James Brown con la sua voce graffiante nell’esecuzione di Papa’s got a brand new bag, che è stato il primo brano che ho interpretato da uomo bianco con l’anima dell’uomo nero. Il primo gruppo musicale che ho formato portava il nome “New Souls” (vedi foto sotto) e la musica che suonavamo non piaceva alla gente di questi luoghi del mio Sud abituata a Tarantella e Tammorra.
 
Come hai scritto nelle tue pagine abbiamo suonato Whole Lotta Love dei Led Zeppelin e Sex Machine di James Brown, di entrambi conservavo LP lasciato in dono ai miei figli, musicisti anch’essi, poi sempre lungo le rive del fiume abbiamo interpretato quasi tutti i brani dei “Creedence Clearwater Revival”, voci graffianti, come le sentivo nell’anima accettate però solo da un pubblico giovane, allora, sessantenne oggi.
Non sono riuscito, come hai fatto tu, a visitare i luoghi come la casa di Louis Armstrong, ho viaggiato pochissimo all’estero: i miei viaggi erano nelle terre del Sud rallegrate dall’odore delle salsicce arrostite durante le Feste dell’Unità o dai MakP100 degli Istituti Scolastici Statali. Sono stato sveglio molte notti per seguire “Umbria Jazz” quando veniva trasmessa in televisione, specialmente nel 1996 quando le mani Jazz di Michel Petrucciani, da me amate, suonarono i percorsi del Jazz che desideravo: “la sorgente primordiale del Jazz” (come scrivi tu a pag. 23).
Mi devi scusare se non riesco a ricordare l’episodio del grillo che era entrato in sintonia con le improvvisazioni di Petrucciani: sono convinto che quello che amavo definire il Giacomo Leopardi del Jazz abbia potuto godere di questo connubio in perfetta armonia di dissonanze.
“Il Jazz è musica di attimi”, scrivi in chiave allo sviluppo della tua “Spoon River Jazz” e quel drammatico filo rosso di esistenze consumate anzitempo si realizza ancora oggi nell’anima e nel cuore, di chi ama questa musica rivoluzionaria. Mio figlio Nico che ha recensito il tuo lavoro prima di me scriveva: “Una celebre frase di Zappa, che Pasquandrea usa da introduzione (pag. 69) al capitolo “Certificato di Esistenza in Vita” – il jazz non è morto ma emana solo uno strano odore – ci riporta ad un aspetto conclusivo del suo libro: gli uomini sono impegnati a sforzarsi di catalogare-criticare la musica, i suoni, le immagini, gli individui, ecc., che a viverli con gli occhi, le orecchie, di un bambino senza preconcetti!”
I tuoi disegni, caro Sergio, sono meritevoli di far parte in futuro di un possibile Museo del Jazz in Italia: sono morbidi, umani, quasi vivi. Concordo con te che questa musica, la Musica Jazz, va ascoltata con tutti i sensi, specialmente il profumo, come il Colore Viola che promana dai suoi interpreti. Tu volevi essere “Bill Evans” e in parte ci sei riuscito. Io ti seguo nel corpo mistico di Michel Petrucciani e nell’armonia delle note del brano Honky Tonk Train Blues  eseguita da Keith Emerson, un boogie-voogie che ho cercato tante volte di suonare come “uomo nero” ma non ci sono riuscito.
Grazie del bel viaggio che ho realizzato attraverso le pagine del tuo libro.

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