domenica 10 agosto 2014

Dialogo notturno con F. KAFKA sulla figura del padre

di Vincenzo D'Alessio


Iniziare un dialogo con te che hai scritto nel 1919 una bellissima Lettera al padre è per me difficile: uno scrittore del quale la bibliografia mondiale ha raggiunto una quantità di testimonianze enormi, alle quali è difficile aggiungere altro. Mi provo a dirtelo semplicemente. Ho scelto la notte, quando intorno la marea umana dei giovani si lascia trasportare dalla “movida” cittadina, per accarezzare l’idea che tu prenda corpo in quest’ombra e possiamo finalmente dialogare sul tema del padre senza essere segnati dal Tempo. In quel momento era finita la Prima Guerra Mondiale e nei popoli prendeva corpo l’idea che servissero poteri forti per uscire dall’amara miseria sociale, di ritorno anche oggi le crisi economiche mondiali ravvivano idee nazionalistiche in questa direzione.

Scrive Italo Alighiero Chiusano nell’introduzione al tuo libro che reca il titolo La disperazione si racconta: “Oggi siamo meno ottimisti (o faziosi, che spesso è la stessa cosa). Sappiamo che il cancro della convivenza familiare non è legato che superficialmente a determinati regimi e statuti socio-politici.” 

Proprio per il dolore che non manca mai di mostrare il suo volto violento oggi il sociologo Massimo Recalcati ha preso in considerazione il pensiero lacaniano, nel suo buon libro Cosa resta del padre? (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011), l’idea che la figura del padre sia evaporata da tempo.

Prendo dal suo libro: “ (…) L’esperienza del venir meno del padre e della sua funzione simbolica non è un’esperienza nuova, specifica del tempo ipermoderno, ma caratterizzava già l’epoca di Freud. Arditamente Lacan in I complessi familiari prova a pensare che tutta la teorizzazione freudiana dell’Edipo possa avere sullo sfondo questo sbriciolamento dell’Imago paterna e del suo potere simbolico. Orfano di questo rifugio, caduta l’autorità paterna come punto di riferimento ideale, saldo e inamovibile, l’uomo occidentale ricerca figure autoritarie capaci di offrire stabilità e identità. Il grande corpo della Comunità sostituisce quello smembrato della famiglia senza centro e minacciata dalla precarietà economica e sociale successiva alla crisi legata alle vicende della prima guerra mondiale. Esso assicura appartenenza e protezione della vita in cambio della rinuncia all’uso della ragione critica. Lo spazio già segmentato e disorientato della famiglia borghese sembra così trovare una ricomposizione folle nell’identificazione a massa” (pag. 39).

La realtà di oggi, Kafka, è questa descritta e quotidianamente esasperata dalle guerre che agitano il nostro pianeta. Guerre intraprese soprattutto per sopravviverci: energie, acqua, terra per seminare e disgraziatamente continuare a costruire, alimenti. Una follia collettiva che porterà alla distruzione totale di questo padre/madre pianeta. Scriveva nel 1984 David Attenborough nel suo prezioso libro Il pianeta vivente (Istituto Geografico De Agostini, Novara): “Soltanto due grandi ambienti sono rimasti fisicamente immutati per periodi di tempo immensi: la foresta tropicale e il mare. Persino qui però le condizioni biologiche si sono modificate gradualmente quando l’evoluzione, all’interno o all’esterno dei loro confini, ha prodotto nuovi tipi di organismi, ponendo perciò ai loro precedenti abitanti nuovi problemi di sopravvivenza.” 

Abbiamo perso il dialogo padre-figli perché i mercanti del denaro ci hanno fatto credere che ci si salva solo mediante quest’unica strada.

Credimi, in anni difficilissimi e di paura atomica appena trascorsi, da studente partecipe dei movimenti scolastici dettati sul tema del Sessantotto vedevo passare su una delle ultime carrozzelle tirata da un cavallo, in una città moderna, un signore che reggeva un enorme cartello: “Se i figli non ti obbediscono è perché hanno troppi soldi in tasca!” Più tardi ho saputo che era un professore al quale era scomparso un figlio giovane a causa della droga. Quella scritta mi accompagna ancora oggi e le tue parole sostengono di più le mie idee: “(…) Da sempre mi rimproveri (quando siamo soli e di fronte ad altri, non hai mai avuto sensibilità per l’umiliazione insita in questo secondo caso, i fatti dei tuoi figli sono sempre stati pubblici) che grazie al tuo lavoro ho vissuto senza privazioni nella tranquillità, nel calore e nell’abbondanza. (…) Da casa non ho mai avuto un soldo, nemmeno durante il militare, ero io che mandavo soldi a casa; Eppure, eppure… il padre era sempre il padre. Chi le sa, oggi, queste cose! Che ne sanno i figli ! Nessuno ha patito queste cose! Le capisce oggi un figlio?”
In altre circostanze questi racconti avrebbero potuto essere un eccellente strumento educativo, avrebbero incoraggiato, con una sferzata di energia, a superare le piaghe e le privazioni che già il padre aveva subìto.

Kafka oggi le tue parole risuonano come un presagio terribile verso i figli che si debbono vestire come fanno tutti gli altri, tanto che è difficile distinguerli. Chiedono soldi senza desiderare, noi ci siamo riscattati da subito con poco guadagno dalla miseria degli anni Cinquanta del secolo appena trascorso attraverso l’apprendistato anonimo, per una sola volta l’umiliazione di un lavoro dipendente. Noi abbiamo cercato di portare qualche soldo a casa o a metterlo da parte per le piccole spese. Da padre ho dovuto assecondare la paghetta senza lavoro che oggi ha assunto il volto del ricatto.

Le donne, come scrivi, non sono più le mamme che descrivi: “(…) Occorre però tenere sempre in mente come la posizione della mamma nella famiglia sia sempre stata straziante e, fino all’ultimo, snervante. Si strapazzava nel negozio e a casa, soffriva doppiamente per tutte le malattie della famiglia, ma a coronamento di tutto ciò c’era quello che ha dovuto patire nella posizione di intermediaria tra noi e te.”
Oggi la posizione delle donne “in carriera” sovrasta di gran lunga quella del padre che mi descrivi nella tua lettera: “(…) Non contribuiva certo positivamente all’educazione dei figli il modo in cui tu – senza colpa da parte tua, naturalmente – la tormentavi a causa nostra.”

Il tormento della ricerca della mia identità di padre passa per quel terribile meccanismo della rimozione dei disagi subiti nell’infanzia e che Massimo Recalcati nel lavoro che abbiamo richiamato descrive nel capitolo “Eredità e trasmissione del desiderio”. Nel chiudere questo breve dialogo notturno riprendo le parole dell’introduzione al tuo lavoro di Italo Alighiero Chiusano: “(…) E questa Lettera al padre è un documento terribile e per nulla letterario, meno ancora filosofico-razionale, di questa spaventosa incongruenza, di questa ostinata follia
senza metodo che fin dalla notte dei tempi avvelena ogni nostra più promettente giornata.”

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