lunedì 3 giugno 2013

“Un po’ di perfidia ci vuole”: Subhaga Gaetano Failla intervista Paolo Poli


Se penso  ai pilastri del teatro italiano tra Novecento e nuovo secolo, quattro sono i nomi che mi giungono senza dubbio in mente: Eduardo, Carmelo Bene, Dario Fo, Paolo Poli. Il primo giorno di giugno del 2013, in un tardo pomeriggio che si apre dopo lunghe piogge al cielo azzurro, ho avuto la fortuna di intervistare Paolo Poli.
Giungiamo con la mia compagna e alcuni amici in un villaggio della Maremma grossetana, Ravi di Gavorrano, presso gli impianti delle miniere di pirite chiuse all’attività produttiva da diversi decenni. Assisteremo a una iniziativa culturale denominata “I Luoghi del Tempo” che coinvolge il vasto territorio di questa provincia del sud della Toscana.
Siamo arrivati con molto anticipo. L’iniziativa, che si svolgerà all’aperto con brevi passeggiate didattiche attraverso i siti degli impianti minerari dismessi, ha come fulcro, durante le soste del percorso, la preziosissima presenza dialogante di Paolo Poli, con infine uno spettacolo-reading dell’attore e scrittore Marco Baliani accompagnato dal musicista Mirco Mariottini.
Paolo Poli ci accoglie come vecchi amici. Con la mia compagna gli ricordiamo d’un suo  spettacolo su Palazzeschi a cui avevamo assistito molti anni prima in Calabria. Gli chiedo poi  titubante se può concedermi un’intervista. Con la semplicità, l’umorismo, il garbo e la straordinaria eleganza che lo contraddistinguono da sempre, accetta le mie domande. 

  

Quali sono oggi a tuo parere le condizioni di salute del teatro italiano?

Mah, io vedo poco, perché quando lavoro batto la provincia e faccio dei paesini sperduti nel nulla. E quindi nelle grandi città rimango poco, e quando lavoro io non vado a vedere gli altri. Comunque, siccome non girano tanti soldi in Italia, la gente fa risparmio sulle cose voluttuarie, come è il teatro. E quindi non va tanto bene. Anche quando si lavora, poi, a volte non si prendono i soldi, sicché… ma a me non m’importa dei soldi. È che anche le stagioni teatrali diventano sempre più brevi, perché i comuni  per non sbagliare tengon chiuso il teatro, e così non sbagliano. Non va né bene e né male. Non va. E quindi  io facevo stagioni lunghe in gioventù. Facevo da sei mesi in su. Fino a nove mesi, il tempo di fare il bambino. E invece, adesso, l’anno scorso ho fatto quattro mesi, e il prossimo anno cosa farò? Chi lo sa? Eh?

Questa domanda è collegata proprio a “chi lo sa?”… Hai portato in scena innumerevoli autori: Beckett, Genet, Giordano Bruno, Satie, Queneau, Palazzeschi, Landolfi,  Savinio, ecc. ecc., fino agli spettacoli più recenti tratti dalle opere di Parise, Ortese e Pascoli. Quali nuovi autori vorresti portare in futuro sulla scena e quali, tra gli autori da te già interpretati, incontreresti ancora e ancora?

Sai… Gassman diceva: “Il mio futuro è dietro le spalle”. Che vuoi… Non posso fare progetti in un  avvenire che… chissà se ci sono, se sarò ancora vivo a primavera. Eh, visto che piove in continuazione, ecco, si dice così. Mah… No, non penso più, perché  è una fatica pensare. Cosa si farà? Sai, quand’ero giovane ero avvantaggiato, perché per la religione c’era il papa, per la politica c’era Mussolini… E diceva Vitaliano Brancati: “L’unica alternativa per noi giovani era decidere se imparare il valzer oppure il foxtrot”. Anch’io mi sono trovato in queste condizioni… Ma insomma, poi ho fatto come meglio potevo.

In una delle sue ultime interviste, Mastroianni raccontò a Enzo Biagi di provare sempre una grande emozione sul palcoscenico, come se fosse una interminabile prima volta. Accade anche a te così?

E certo! E poi la paura. Solo gli imbecilli non hanno paura in guerra. Invece, chi ha paura sa che al cinema e al teatro i posti indietro sono i migliori.

Le tue interpretazioni in televisione e in radio risalgono ormai a molti anni fa: questa distanza è in relazione a una tua scelta deliberata?

No, perché non posso scegliere io. Lì son dei produttori che… Io ormai vengo considerato un mammut, come un’epoca del cartaceo, che non c’è più. E sicché lavoro meno, anzi, quasi nulla. Ma bene, perché è l’epoca in cui mi devo sedere sotto il portico a vedere le galline che razzolano.

Quale opera del passato o di oggi potrebbe meglio rappresentare secondo te l’Italia contemporanea?

Mah… È un periodo così basso che… non so… Sai, guardando Berlusconi mi vien da rimpiangere Mussolini, ed è per me uno strazio terribile.

Il film che non ti stanchi mai di rivedere e quello che più ti ha emozionato recentemente.

Ieri sono andato a rivedere restaurato il film “To be or not to be”. Bellissimo. Bianco e nero, del ’41. Emozionante. Lei è di una bellezza… è bravissima, Carole Lombard, con questi occhi luminosi…

Il film di Lubitsch?

Lubitsch, sì. Uno dei grandi del cinema di tutti i tempi. E mi ricordo, a Parigi vidi una commedia di Oscar Wilde, che è ritenuto il più grande nei dialoghi, nelle curiosità linguistiche. Il film invece era muto. Ma si capiva ogni cosa. Era “Il ventaglio di Lady Windermere” [Nota: altro film di Lubitsch, del 1925, tratto dalla commedia di Wilde].  Mi divertii moltissimo, e ho capito che quando uno è intelligente si fa capire in ogni modo, in ogni epoca.

Se dovessi paragonare la tua opera a quella d’un musicista e d’un pittore, quali nomi faresti?

Be’, Morandi, perché ha fatto bottiglie. Partiva da una cosa semplice come le bottiglie. E poi le bottiglie sembrano le torri di Bologna, sembrano i giganti di Monteriggioni che Dante descrive nell’ultimo cerchio dell’Inferno. In musica non so, sono molto ignorante di musica. Io sono figlio delle canzonette, hai capito, sicché quando mi avevano offerto di andare a Sanremo a pigliar per il culo Nilla Pizzi, ho detto no. Io mi ricordo ancora di prima della guerra, dicevano: “Ora ci connettiamo con Radio Bologna: l’ugola d’oro di Bologna, Petronilla Pizzi”. Era ancora prima della guerra, sicché la signora l’era intonatissima. E poi, siccome non si vedeva la persona, contava la bravura, contava l’intonazione; una specialità nella voce che si riconosceva subito chi era che cantava. E poi c’erano ancora… nonostante che la moglie di Gaber dica che “era l’epoca in cui amore rimava con cuore”. Non è vero, c’erano tante belle canzoni. Nella Belle Époque abbiamo avuto tanti musicisti. E da noi il cinema muto è durato più che in altri paesi, perché facevano lavorare l’orchestrina che commentava quello che si vedeva nello schermo. Io ho visto solo le ultime propaggini. Ho visto “La grande parata” [Nota: film muto del 1925 di King Vidor] con Renée Adorée, la primadonna. Ero bambino, avevo cinque anni, sicché stentavo a leggere i cartelli, e mi andavano via dopo che avevo letto il primo rigo. Però, quando lui torna dalla guerra, con le stampelle, con una gamba sola, e lei grida “Kim!”, allora io ho fatto un urlo, perché avevo finalmente capito i disastri della guerra. Che invece a scuola ci veniva reclamizzata come una cosa positiva, perché era l’epoca in cui Marinetti aveva detto: “La guerra, sola igiene del mondo”.

In un’intervista del 2009 per il quotidiano “La Stampa” così tu dicevi  a Giancarlo Dotti: “Da bambino stavo sempre allo specchio, perché le suore dicevano: ‘Non state troppo allo specchio, che  viene il diavolo’. E io allora lo fissavo questo  specchio, finché mi veniva un  lampo negli occhi e capivo  che il diavolo ero io.”
Com’è quel diavolo bambino oggi?

È molto addolcito, perché si è abituato a campare, nonostante tutto. Ma comunque, un po’ di perfidia ci vuole perché è difficile trovare l’intelligenza mescolata alla bontà. Il più delle volte la si trova nelle persone che appaiono insopportabili, ma perché c’hanno un lume di ragione.

Un oggetto e un profumo che tu riporteresti dal passato, qui e oggi.

4711, il profumo. Un oggetto… La sputacchiera, che non si vede più. Perché nell’autobus, no, nel tramway, c’era scritto: “La persona civile non bestemmia e non sputa per terra”. Perché tutti sputavano moltissimo. Sembra che ancora in Ungheria si sputi molto.

(risate)

Va bene… Grazie, grazie tante…

Va bene. Si finisce con lo sputo. Benissimo.

(risate e applausi da parte del pubblico improvvisato)



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