martedì 5 aprile 2011

Vincitori e segnalati del Concorso Insanamente 2011

Concorso Insanamente 2011
Caterina Camporesi, Angelo Chiaretti, Ardea Montebelli, Guido Passini,
Claudio Roncarati e Anna Maria Tamburini per la sezione Poesia –
Sara Alighieri, Alex Celli, Laura Bonalumi, Francesco Gaggi,
Leonardo Innocenti e Leonardo Montecchi per la sezione Racconto –
in collaborazione con
sono lieti di premiare con la pubblicazione i seguenti autori
(qui sotto alcuni estratti delle loro opere)


Classifica sez. B – Racconto
per la Classifica sez. A – Poesia v. farapoesia

I. Memorie di un diversamente sano di Luca Astolfi (Civitavecchia, RM)

Luca Astolfi è nato a Civitavecchia nella provincia di Roma una primavera di vent'anni fa; qui tuttora risiede e lavora nell?attività commerciale della famiglia che gestisce insieme al padre e al fratello maggiore. Dopo una breve carriera scolastica, terminata con la licenza di terza media, inizia a coltivare la sua passione per la letteratura e la poesia. Il suo lavoro letterario e poetico è tutt'oggi in continuo accrescimento e aggiornamento. Finalista al premio nazionale di poesia cittê di Civitavecchia, e alcune sue poesie sono state pubblicate da associazioni culturali quali gli occhi di argo  e poesiaèrivoluzione

Giudizi

C'è in fondo a questo racconto un grande coraggio: «… il chirurgo, in sala operatoria, mi chiede: e tu chi sei? Rispondo: sono il protagonista!» Il coraggio di provare a raccontare la rabbia che nasce dal sapersi malato. Non c?è posto per la tristezza, per la disperazione, per il senso di smarrimento. La rabbia e la consapevolezza di essere vicino alla fine, vincono addirittura la paura. Forte irrompe la vena umoristica, che stempera, ammorbidisce l?angoscia di una verità che non vorremmo mai conoscere. (Laura Bonalumi)

L'ironia come risposta al dolore, capace di capovolgere tutto. La disperazione e la rabbia si possono comprimere, tenere sotto controllo e fare emergere in ogni istante quella benedetta voglia di vivere. (Leonardo Innocenti)

L'equivoco lessicale, l'ironia sui luoghi comuni e la confusione sistematica tra i piani del discorso sono tra i procedimenti di costruzione di questo racconto che presenta la storia della malattia quasi come una deriva metaforica della parola. Il ritmo è brillante. L'effetto di profondità e leggerezza. Il finale alla Cecco Angiolieri quasi una zoomata all'indietro sull'universale equivoco di salute e malattia. (Francesco Gaggi)

Disincantato e diretto, con lo sguardo che non collassa al presente ma occhieggia all'orizzonte, all'oltre. La solitudine è oltrepassata: ridere di sé, farsi e far ridere, con la sola certezza del dolore, che riconferisce dignità umana. (Sara Alighieri)


Memorie di un diversamente sano

Dopo il sangue nelle urine e le rispettive ecografie, ho scoperto d’essere incinto: aspetto una dozzina di bambini nel collo. E ora 18900 globuli bianchi combattono una guerra di secessione nel mio collo. Il primo dottore che mi visita lo fa in una stanza spoglia con una specializzanda al seguito e fa battute sulla nostra giovane età, dice che devo godermi i vent’anni; ma forse alludeva al fatto che non avevo certezze di arrivare ai ventuno. ‹‹Dentro di te c’è qualcosa che non va, tipo una guerra nucleare, e dobbiamo capire chi l’ha causata››; ‹‹l’America?›› Chiedo io.
Ho sempre pensato che sarei impazzito invece mi è impazzito il sangue ma fa lo stesso. Abbiamo il timore di un tumore. Non ci sono nuvole e il cielo fa una faccia strana la sera che mi dicono che ho un tumore. Il colore strano della strana faccia del cielo la sera che mi dicono che ho un tumore. Provo a piangere e invece mi viene un sorriso amaro che è come una smorfia; che un po’ me l’aspettavo.
‹‹Torna tra un mese che tanto non è niente di preoccupante››.
‹‹Facciamo un day hospital che non c’è tempo da perdere››.
Avere paura delle cure e non delle malattie.
‹‹Un giorno sconfiggeremo tutte le malattie adesso però vai a casa e prendi queste pasticche per cinque giorni due volte al giorno, anche se possono causare l’epatite››. Che forse sono provato da un conflitto interiore nel senso che la mia vita cerca di uccidermi. Quando stai male ti vogliono tutti bene e io potrei quasi essere santo. Santo subito. Torno subito.
I miei polmoni si allontanano l’uno dall’altro perché forse non si vogliono più bene. Faccio fatica a respirare ma non è colpa delle sigarette alla faccia di tutti i non fumatori incalliti.
‹‹Non ho più una lira››.
‹‹L’importante è la salute››.
‹‹La salute è il mio problema››.
‹‹I soldi usali per le medicine››.
‹‹è quello che ho intenzione di fare››.
Una zingara mi ha chiesto soldi in nome di Dio e quando glie li ho rifiutati mi ha lanciato tipo una maledizione e per adesso la teniamo nella lista delle possibili cause insieme all’inquinamento e allo stress che se le donne hanno le gravidanze isteriche è possibile che la mia sia qualcosa di simile.
‹‹Non aver paura, il prelievo del midollo è una sciocchezza; adesso sentirai un po’ tirare, preparati››.
Devo fare una biopsia e in sala d’attesa un vecchio mi dice ‹‹Cristo non c’è, se c’è non s’intromette e se s’intromette fa danno›› e io non capisco se si aspetta una risposta. Quando entro in sala operatoria il chirurgo prova subito a scherzare per mettermi a mio agio e mi chiede in un tono quasi di accusa ‹‹E tu chi sei?››, ‹‹Il protagonista›› rispondo io; poi mi sdraio nel lettino e mi ricoprono di teli di plastica per non farmi vedere e non farmi sporcare e io vorrei essere una comparsa. (…)


II. Un uovo al giorno toglie la depressione di torno di Ermanno Cottini (Torino)

Nato a Torino il 24 marzo 1955, dove vive e lavora, si è laureato in medicina & chirurgia e svolge attività di medico di famiglia dal 1984. Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie nel corso del 2006 col titolo Echi dal cuore di un geode edizioni Saviolo-Vercelli. Un quaderno di poesie dal titolo Scorto un profilo alato lo seguii per un breve tratto è stato pubblicato da Edizioni nuovi poeti. Alcune sue poesie e prose poetiche sono state incluse in antologie degli editori Aletti (Roma), Fara (Rimini), Cartman (Torino). Due opere sono state incluse nei volumi antologici Il volo di Pegaso a cura dell’Istituto Superiore di Sanità relativi alla 2° e 3° edizione dell’omonimo concorso ispirato alle malattie rare. Ha vinto il premio di poesia “Albano-Greggio-Oldenico” edizione 2008 della provincia di Vercelli. Ha vinto il primo premio per la sezione racconti brevi del 1° concorso letterario nazionale “Giù la testa – Foggia Sotterranea” con il patrocinio dell’Università degli studi di Foggia. Ha vinto il primo premio di narrativa dell’VIII edizione del concorso letterario in memoria di “Anna Vertua Gentile” del comune di Codogno (LO), e il terzo premio nel 2008 al concorso nazionale “Città di Castorano (AP) – Scrivere per la musica” e conseguito numerosi altri piazzamenti in concorsi letterari.

Giudizi

Percorso visionario fra le immagini di Magritte e Dalì che tratta la depressione con la “leggerezza” di Italo Calvino (Leonardo Montecchi)

Un viaggio meraviglioso attraverso l’arte e la letteratura. Una rinascita: un uovo (guscio, albume, tuorlo) disgustoso eppure occasione di aprirsi a una nuova vita in grado di “sentire” il valore delle cose. (Alex Celli)


Un uovo al giorno toglie la depressione di torno

Ogni mattina mi svegliavo di pessimo umore, più stanco di quando mi ero coricato e, fin qui, nulla di strano: lo sentivo dire svariate volte dalle persone più disparate incontrate sull’autobus, in coda alle casse dei supermercati, carpendo scampoli di dialoghi sulle panchine dei parchi. La mia era una stanchezza infinita, un’apatia, una noia che mi assaliva alle pendici del calvario di ogni nuovo giorno. Non ero ipocondriaco, non attribuivo affatto quel mio stato a una malattia fisica, a un tumore in agguato, a un’infezione sorniona dal lunghissimo periodo di incubazione. Ero perfettamente consapevole che si trattava del “male di vivere”, di una depressione che ciclicamente mi coglieva, impedendomi una visione appagante e serena della vita. Tutti mi dicevano: “Devi reagire, solo tu puoi invertire la rotta; pensa positivo! Non ti manca niente: non hai problemi economici, possiedi una casa, un lavoro, sei una bella persona. Se ti volgi indietro, vedrai una miriade di situazioni tragiche, disperate, senza via d’uscita, eppure, non per questo, tutti quei disgraziati si lasciano morire. Tu, nei loro confronti, sei un fortunato!” e dopo una breve pausa volta a recuperare il fiato, rincaravano la dose: “Devi uscire, coltivare interessi, frequentare persone! Solo tu puoi guarire, con la forza di volontà! Commiserarti e piangerti addosso non ti serviranno a nulla! I medici possono darti buoni consigli, ma poi tutti quei calmanti che prescrivono ti renderanno un drogato, schiavo delle medicine. Dobbiamo essere noi, per primi, i veri medici di noi stessi!”. E qualcuno, perfettamente calato nel ruolo materno, aggiungeva: “Mangia cibi più nutrienti: un ovetto fresco, magari sbattuto al marsala, ti farà meglio di tutte quelle dannate gocce!”. Non si rendevano conto che, a conclusione di ogni loro “sparata”, il mio stato d’animo ne usciva ancora più frustrato ed avvilito. Quelle raccomandazioni si presentavano come un ritornello la sera prima di addormentarmi e nei precoci risvegli nel cuore della notte. In particolare quell’immagine dell’uovo mi assillava. La fragilità del guscio lo rendeva affine al mio stato; la sua impermeabilità identificava il mio isolamento, l’incomunicabilità; la viscosità collosa dell’albume esprimeva l’inerzia dei miei movimenti; la facile deperibilità del tuorlo, la mia effimera resistenza alle aggressioni ambientali. Vedevo uova ovunque e, pian piano, il desiderio di una cova si faceva sempre più impellente, essenziale e salvifico. Iniziai a cercare uova nelle illustrazioni delle riviste, nelle pubblicità, su internet, nell’arte. Questa ricerca caparbia e ostinata, meglio definibile in linguaggio psichiatrico, ossessivo – compulsiva, divenne un giorno, terapeutica. Fu nel corso di quelle ricerche iconografiche che m’imbattei in un quadro di Renè Magritte capace di sovvertire tutte le mie precedenti teorie sull’uovo. Quel quadro rivelava tutta le potenzialità di un’entità solo apparentemente banale e di poco prezzo. Giaceva sul ripiano accanto al cavalletto del pittore nel ruolo di modello per una rappresentazione classificabile tradizionalmente come “natura morta” ma che, nella fattispecie, si traduceva sulla tela in “natura viva”, più che mai viva, colta nell’azione potenzialmente più vitale: il volo. Infatti, l’uccello adulto ritratto sulla tela non abbozzava passi incerti da pulcino, ma spiegava le ali come stesse volando, o meglio frustava l’aria come fosse sul punto di atterrare. Quel piccolo uovo racchiudeva un patrimonio di energie inespresse che, attraverso l’arte, riuscivano a superare il guscio e manifestarsi. Quanti esempi profetici esistono in tal senso, basti pensare a Van Gogh, a Munch, a Ligabue, per restare nel solo ambito della pittura.
In un altro dipinto di Magritte scorgevo in primo piano delle uova adagiate in un nido
apparentemente abbandonato ai piedi di una catena montuosa che incombeva minacciosa. Tuttavia, osservando più attentamente, quella maestosità sullo sfondo si rivelava il profilo di un uccello adulto con le ali spiegate: una siluette rassicurante, protettiva, materna. L’apparenza inganna!
Sembrava mancare la cova quando, in realtà, la terra stessa, i raggi del sole, la natura circostante, svolgevano la missione genitoriale nel migliore dei modi, in una sorta di abbraccio universale. In effetti, in una tela successiva, quello stesso nido appariva sorvolato da un uccello il cui corpo era talmente etereo da essere formato di nuvole bianche: forse le stesse abbracciate pocanzi, quand’era catena montuosa e si stagliava alto, in un cielo a pecorelle, rivestendo per quelle creature la missione di recinto, meglio di ovile. Mi sentivo bene, volevo fare tante cose: uscire, intraprendere nuove attività, chiacchierare, scrivere, conoscere gente, volare…


III. ex aequo Abisso e luce di Patrizia Della Marta (Perugia)

Patrizia Della Marta nasce e vive a Perugia, città alla quale è profondamente legata. Lavora all'Università degli Studi di Perugia come Assistente bibliotecario. Da sempre è dedita alla scrittura in tutte le sue forme, preferendo quella del racconto breve, genere per il quale coglie ispirazione dalla curiosità per tutto ciò che è diverso e non conforme e dalla grande passione per i viaggi. Con il racconto “Oltremare” ha vinto il concorso “Parole in Corsa” pubblicato nel 2011 nella raccolta Scrivere è vivere.

Giudizio

La drammaticità della storia lascia spazio alla delicatezza e al garbo con cui viene raccontata. Niente cede al patetico e al pietismo. Rimane indelebile la consapevolezza di come tutti noi siamo comunque sempre sospesi tra l’abisso e la luce. (Leonardo Innocenti)


Abisso e luce

Carlo e Anna erano al cinema per festeggiare la bella notizia, in programmazione c’era un vecchio film: “Via col Vento”. Non appena Anna vide Rossella O’Hara decise che il suo bambino, se fosse stata una femmina, si sarebbe chiamata così: Rossella. Anna stringeva la mano di suo marito e non riusciva a seguire la trama del film; il suo pensiero tornava continuamente al volto del medico mentre le diceva: “Complimenti signora, lei aspetta un bambino”. Seduta nel buio della sala Anna immaginava le cellule moltiplicarsi seguendo regole prestabilite: era eccitatissima all’idea che un fatto così straordinario stesse avvenendo dentro di lei. Otto mesi dopo partorì una bambina che, come programmato, chiamò Rossella. La neo mamma osservò il suo minuscolo capolavoro e si sentì incredibilmente felice. Dopo il matrimonio Anna era andata a lavorare nel negozio di tessuti del marito e ora portava con se Rossella; a volte i due genitori si fermavano ad osservarla e commentavano sorridendo la sua bellezza, così vicina a quella della protagonista del film che li aveva ispirati nella scelta del nome. Negli anni successivi avevano adattato il piano superiore del negozio a studio per Rossella che, diventata una ragazza, frequentava il liceo classico e aveva bisogno di un ambiente tranquillo dove studiare. La famigliola non si separava mai e i genitori seguivano la figlia con un’attenzione maniacale. Rossella, introversa e riservata sembrava non risentire del controllo che Carlo e Anna esercitavano su di lei e trascorreva i lunghi pomeriggi invernali chiusa in quel piccolo ambiente a studiare. L’ultimo anno di liceo, quello della maturità, Rossella lo passò reclusa nello studio sopra il negozio, in ansia e preoccupata di non riuscire a raggiungere il massimo dei voti, così come i genitori speravano. Era diventata una bella ragazza e capitava che qualche compagno passasse a negozio chiedendo di salutarla: Carlo e Anna rifiutavano quasi sempre il permesso e quando non potevano farlo salivano anche loro a controllare. Il giorno in cui Rossella sostenne l’ultima prova d’esame, quella orale, tornò a negozio frastornata e stanca. L’esame era andato benissimo e la madre le fece vedere una splendida seta: un tessuto azzurro con stampate piccole farfalle dai colori sgargianti con il quale Anna intendeva realizzare un vestito per sua figlia; Rossella l’avrebbe indossato il giorno della tradizionale festa di diploma che si teneva ogni anno a scuola. La ragazza osservò il tessuto per un istante, poi salì nel suo studio senza dire una parola. Le farfalle viste sul tessuto le sentiva volteggiare nella testa, enormi farfalle parlanti: sulle loro ali sventolanti erano impresse spirali colorate entro le quali sprofondava, in un vortice senza fine. Carlo e Anna la guardarono stupiti: “È sfinita”. Disse Anna. “Più tardi le porto qualcosa da mangiare”. Pensò. Invece poco dopo Rossella scese le scale, attraversò il negozio come ispirata da uno spirito guida e uscì per strada. Completamente nuda. Carlo che stava maneggiando uno scampolo di tessuto, dopo un attimo di esitazione, si precipitò all’ inseguimento di sua figlia. La strada brulicava di gente, il passaggio della ragazza zittì di colpo il brusio di voci che l’ accompagnava e aprì un varco fra la folla che la scansò come un’ appestata. Rossella, docile come sempre, ubbidiva alle voci che sentiva nella testa, che le ordinavano di fare ciò che stava facendo. Carlo le si gettò addosso e usò lo scampolo di tessuto per coprirla, lei remissiva si fece riaccompagnare al negozio. Erano le dodici e cinque del 7 luglio 1985, il tempo per Rossella si fermò quel giorno. (…)


III. ex aequo 15:45. Perché? di Roberto Parmeggiani (Sasso Marconi, BO)

Nato nel 1976, vive a Sasso Marconi. Tenta di coniugare il verbo educare, oltre che come pedagogista, anche come teatrante, per passione e come scrittore, per imperfezione. Scrive di disabilità, integrazione, educazione. Per la Coop. Accaparlante di Bologna si occupa di formazione sui temi della diversità e della disabilità e curo alcune rubriche per la rivista «HP-Accaparlante» ed. Erickson. Per le stesse Ed. Erickson ha scritto Omino Macchino e la sfida della tavoletta. Gestisce insieme a un dis-equilibrato gruppo di educatori, un dopo scuola e un centro estivo. Ha realizzato diversi spettacoli teatrali per e con i bambini e condotto per due anni un programma radiofonico su Kolbemission Web Radio. Realizza poesie e installazioni artistiche per il movimento artistico degli inUTILI (inutilibologna.blogspot.com). Collabora con la rivista Milizia Mariana, scrivendo di adolescenti.

Giudizio

Sembra di assistere ad un film. Le frasi brevi, concise e precise. Il susseguirsi delle azioni, dei movimenti, dei pensieri: immortalati e raccontati come da un cinepresa. È stato forse il ritmo a colpirmi e a coinvolgermi di più. Il ritmo di questa scrittura così vera, a volte crudele, che mi ha portato a conoscere chi, non aveva più voglia di vivere. Attraverso il percorso, l’ultimo tratto di strada del protagonista, ho imparato a conoscerlo, a capirne i gusti, le gioie e le paure. Una vita raccontata in poche righe ma descritta pienamente. (Laura Bonalumi)


15:45. Perché

15:47
Start.
Arresta il computer.
Chiudo il portatile.
Mi alzo dalla sedia, salgo le scale ed entro in camera.
Mi cambio le scarpe. Ho tanto insistito perché mi comprassero queste, prima dei saldi e mi dispiacerebbe rovinarle.
Mi metto quelle alte, quelle che hanno una storia, quelle che parlano di me, di chi sono.
Chi sono?
Un ragazzo, solo un ragazzo.
Ho molti amici su facebook, forse troppi rispetto a quelli che conosco davvero.
Forse troppo pochi rispetto a quelli di cui avrei bisogno.
Mi lavo la faccia, mi sento troppo addormentato.
Metto la felpa rossa con il cappuccio e la cintura bianca.
La camera è abbastanza in ordine, chiudo la porta, scendo le scale.
Ah! Ho dimenticato l’i-pod, senza musica non si può.
Risalgo le scale, è in camera, lo prendo, richiudo la porta, scendo.
Bevo un bicchier d’acqua in cucina, appoggio il bicchiere nel lavello, prendo la giacca che avevo lanciato sul divano in salotto, sono pronto, pronto per uscire.
16:20
Mi chiudo la porta di casa alle spalle e mi sembra di ritornare a respirare, come se per tutto il tempo in cui sono rimasto in casa fossi stato come in apnea.
Cammino sul marciapiede, come sempre lo sguardo a terra e un’espressione misteriosa in volto.
Ah! Non ho preso le chiavi di casa. Lo stesso, non importa.
Accendo l’i-pod, scelgo un artista, la musica del mio amico dj è quella giusta, diventerà un grande.
La musica mi circola nel corpo come il sangue nelle vene, trasporta l’ossigeno ad ogni organo, mi elettrizza, comunica, mi dà vita.
Ah! La vita!
Dove l’ho lasciata? Quando me ne sono dimenticato?
La vita, così grande, così immensa. Così sola!
16:38
Mi fermo al semaforo, aspetto il verde per i pedoni, attraverso.
Mi sento leggero, come l’aria che esce dalla mi bocca, fa così freddo che la posso vedere, esce, sale verso l’alto poi scompare.
Scomparire, anche a me piacerebbe scomparire, a volte. Trasformarmi in una cosa, stare fermo, guardare il mondo che passa e ascoltare, ascoltare e basta.
Mi piace ascoltare, mi piace non disturbare, mi piacciono gli occhi, le labbra che si muovono.
Mi piace ridere, fare casino, a modo mio, mi piacciono tante cose, che conosco solo io.
Mi fermo in edicola, sfoglio alcune riviste, così per curiosità, soprattutto musica.
Scendo le scalette, seguo il marciapiede che costeggia il parchetto, giro a sinistra dai giochi per i bambini e entro al bar del centro sociale.
Gli occhi dei giocatori di briscola sono tutti su di me, mi chino ancora di più, vado al bancone e chiedo una coca-cola. In lattina, la berrò mentre cammino.
16:52
Esco dal bar, torno sul marciapiede, passo vicino ai campi da bocce. (…)


IV. Ci sono viaggi di Laura Fabbri (Borghi, FC)

Laura Fabbri nasce a Cesena il 17 maggio 1994 e vive a Borghi (FC). Frequenta il terzo anno presso l’ITC Rino Molari di Santarcangelo di Romagna curando in particolare l’interesse per la letteratura, l’arte e la musica. Nel tempo libero scrive poesie e racconti, apprezzati dal pubblico e dalle giurie di vari concorsi locali e nazionali. Nei suoi versi emerge lo sguardo fresco e attento di chi si pone come mediatore tra l’enigmatico mondo dei giovani e quello incomprensibile degli adulti, toccandone sempre le note più nascoste.

Giudizio

Un racconto assolutamente blues (cfr. Robert Johnson): ad ogni crocicchio e bivio si rischia l’incontro con il diavolo o lo svelamento della meraviglia della vita per cui vale la pena di lottare senza arrendersi mai. (Alex Celli)


Ci sono Viaggi

Siamo sempre inondati di consigli su un’ipotetica destinazione verso la quale camminiamo, ma niente e nessuno, ci fa chiedere il come o il perché del nostro andare. Eppure esiste un’opera nella vita che noi chiamiamo viaggiare; eppure esistono Viaggi che noi chiamiamo Vita.
Le ginocchia al petto, la testa piena di pensieri, per questa meta che tarda ad arrivare. Fuori dal treno il paesaggio intrecciato mi abbandona, come a spiegarmi che un viaggio è più importante del luogo in cui mi porterà. Di fronte il mio bagaglio è pieno; che siano vestiti e un gruzzolo di soldi è comunque un sacco che ti metti in spalla e che ti segue fino alla fine dell’avventura…
Sì, perché in fondo è tutta un’avventura questa corsa verso l’ignoto che ogni tanto sentiamo l’esigenza di percorrere. Il problema è che il mio zaino pesa di dolori da risanare e risa da coltivare. Prima dell’arrivo spero che un po’ di orgoglio sia andato perso e che la rabbia abbia ceduto a quella canzone che parla di pace. Le mani stringeranno un po’ la paura, un po’ l’adrenalina. Gli occhi ripeteranno nuove parole e i sogni balzeranno ancora dentro me, ma aspetto il ritorno per vederli realizzati…
Nell’attesa coloro questo quaderno; forse un po’ inutile per provare a cambiare le proprie abitudini, ma lasciarlo a casa sarebbe stato come dimenticare una parte di me, e in viaggio bisogna portare tutti sé stessi.
La fotocamera ha già immortalato qualche immagine, ma non c’è niente che l’anima non sappia ricordare dopo essere stata trafitta dal nuovo. Una torcia è utile al posto dei fari spenti nella notte, per non farti confondere, ma non c’è direzione sbagliata: ovunque vai cammina verso una nuova luce. Cammina, corri finchè i piedi non cederanno, finchè hai la possibilità tu buttati! (…)


Autori segnalati 


Filippo Gianchecchi. Nato a Empoli (FI) l’08 ottobre 1975 e residente a Certaldo (FI) via potente 48. Dopo gli studi di base consegue la maturità scientifica nel 1995 al Liceo Scientifico “A.Volta” di Colle val d’Elsa e nel 2005 il diploma di Laurea in Architettura all’Università di Firenze. Lavora come libero professionista e disegnatore. Da sempre appassionato alla storia del proprio paese e alla scrittura, pubblica nel 2006 il volumetto Storie della Storia di Certaldo, Certaldo (FI), Federighi Editore, 2006. Da Aprile 2010 è Vicepresidente della Ass. Turistica PRO LOCO Certaldo. Nel poco tempo libero si diverte a scrivere racconti brevi e a lavorare a una storia più corposa che un giorno, forse, diventerà un romanzetto.

Giudizio

Sintetico, intenzionale, attuale, decentrato, non filtrato. Scaglia di assurdo ed irrisolto dei ritmi a cui ci siamo condannati. (Sara Alighieri)


Tappi

L’orologio digitale sul monitor del mio PC segna le 11,11. È presto… È dannatamente presto per la pausa pranzo e fin troppo tardi per la seconda colazione.
Primi due jolly: fulminati.
… Stamani mi sono svegliata con un mal di pancia tremendo, ma dopo un litro di tisana al finocchio stavo già meglio.
Mi serve una scappatoia. Dove posso rifugiarmi? Di un altro caffè neanche a parlarne: sarebbe il quarto da stamani: sono già fin troppo nervoso.
Terzo jolly: inutilizzabile.
Mi impongo di pensare ad altro. Con lo sguardo cerco di nuovo il display dell’orologio: che orario stupido le undici-e-undici: quattro numeri uguali, tutti in fila che a pronunciarli scivolano in bocca come fossero di burro fuso...
… il problema è che ora mi scappa la pipì tantissimo!!!
“Non importa sventolarlo ai quattro venti – avrei voluto dirle – è un problema che si risolve facilmente. Vai e Fai”
Umpf! Ci sono ricaduto. Neanche la morbida untuosità delle undici-e-undici è stata in grado di distrarmi.
Devo approfittarne adesso che è in bagno. Veloce! Pensa…dai pensa! Senti che bel silenzio. È il momento di sbrogliare un po’ di lavoro. Ordini, preventivi, appuntamenti…La porta del bagno mugola e si riapre.
… Guarda che roba! C’ho una scrivania che sembra mi c’abbiano bombardato!
Niente da fare.
Fuori scroscia il diluvio universale; anche i fogli sulla mia scrivania sono tanti, troppi.
Il problema è che non riesco a smaltirli. Se fossi in condizioni standard avrei già sistemato tutto da un bel po’ma così proprio non ce la faccio.
… Ma che bellino il frontespizio di GOOGLE stamani! Lo sapevi che è l’anniversario della nascita di Robert Louis Stevenson?
Un colossale “chissenefrega” mi si affaccia fra i denti ma lo rintuzzo abilmente con un salto mortale carpiato della laringe. Inghiotto l’imprecazione subito prima di un sorso d’acqua.
Devo finire queste faccende, devo trovare il modo di lavorare e lei non se ne rende conto. Ma come fa a non capirlo? Mi ha assunto per lavorare e non riesco a farlo. Chissà se si accorge che sto qui con le mani in mano a …
… Quel cretino del mi’figliolo… ieri sera l’ha fatta grossa…
No. Non se ne accorge.
La testa mi pulsa nello sforzo, provo comunque a concentrarmi ma è dura, maledettamente dura.
… Ha battuto ogni record! Quel deficiente ha fracassato il motorino nuovo appena due giorni dopo averlo preso!
Abbozzo un sorriso amaro con lo sguardo perso fra i cristalli liquidi. Non voglio darle soddisfazione. Il cursore lampeggia impaziente fra le linee ma io non riesco a far altro che muoverlo a destra e sinistra senza una meta.
… e quell’idiota del su’babbo è stato capace solo di dirgli che son cose che capitano...
L’unica strategia è provare a far finta di nulla, a non prestare attenzione, tanto per lei non fa alcuna differenza.
… UN MESE DI PUNIZIONE! ECCO QUELLO CHE CI VUOLE!
Argh! Se alza la voce non c’è tattica che tenga. O no? Forse una soluzione c’è:
Tappi.
Mi servono urgentemente dei tappi per le orecchie.
… e intanto stasera viene in ditta a far le pulizie, così impara a capire cosa significa SUDARSI IL LAVORO! (…)




Pietro Rava. Nato a Bergamasco (AL) il 7/12/1944 residente in Alessandria, scrive mini liriche HAIKU e racconti brevi con riconoscimenti letterari in alcuni concorsi: Caarteiv, Capoliveri, Giovanni Gronchi, Calicanthus, GDS, ecc.

Giudizio

Una bella storia, semplice e profonda come una favola di Esopo. (Leonardo Montecchi)


Il colombo Emilio

Questa è la storia vera del colombo Emilio il quale fu notato un giorno da un bambino buono e dall’anziana nonna mentre zampettando viveva sotto le auto in una strada di periferia..
Un’ala chissà come ferita non gli permetteva più di volare e quindi cercava il cibo e l’acqua come poteva con difficoltà tra i pericoli della strada.
Il bambino e la brava nonna provvidero allora quotidianamente a scendere i pochi gradini e fornirgli tutto il necessario per vivere ogni volta che Emilio sollevava la testolina verso la finestra del piano terra..
Un giorno Emilio scomparve e nonna e nipotino molto tristi pensarono che fosse morto attraversando la strada in seguito alla partenza delle varie automobili o peggio che fosse finito in padella.
Dopo alcuni giorni sentirono un ticchettio sui vetri della solita finestra: era Emilio tornato guarito che bussava a suo modo e per molti giorni tornò e si cibò sul davanzale dimostrando appetito e disponibilità per cibi vari opportunamente sminuzzati.
Un bel dì si presentò con una compagna, rumorosamente salutò tubando soddisfatto e via felice per sempre volò.
Una storia a lieto fine per uno dei tanti cari animali che hanno fiducia negli esseri umani. Ciao Emilio.



Francesco Maestri è nato a Cesena il 26 Novembre 1981, ma da sempre risiede a Viserba di Rimini. Ha studiato informatica e si è laureato in Scienze dell'Informazione a Cesena (sede distaccata dell'Università di Bologna). Ha lavorato in campi totalmente diversi (salvataggio, pizzaiolo, venditore, informatico, piadinaro…). Ora lavora in un negozio di PC a Viserbella.
Non è mai stato premiato in alcun concorso. Scrive tantissimi racconti brevi e il suo primo romanzo: Sulle spalle del canguro è stato edito dalla casa editrice Giraldi Editore di Bologna.


Giudizio

È bene utilizzata la struttura del racconto breve per evidenziare con flash di ricordi, corrispondenti a momenti temporali diversi, fino a raggiungere il presente nel finale, il carattere, la genesi e la cura della malattia di Ettore. Il linguaggio segue con delicatezza e precisione tale struttura, delineando i contorni di una vicenda credibile e ben rappresentata. Bella la trovata della voce di Mr I che guida Ettore sulla spiaggia diradando la nebbia della sua coscienza. Trovata che apre l'impianto realistico di fondo del racconto alla dimensione simbolica. (Francesco Gaggi)


Nebbione

Nebbia.
La nebbia e l’odore di salsedine avvolgono la scena.
In lontananza è udibile un suono, intermittente, baritonale, distante ma allo stesso tempo chiaro e perfettamente riconoscibile.
All’interno della scena Ettore, seduto sulla battigia. Gli occhi ancora chiusi, le gambe incrociate, le mani raccolte e la testa pesante, rivolta verso il basso.
Si può intravedere da dietro la sua sagoma, di spalle, anch’essa avvolta e intrisa di bruma.
E’ un paesaggio singolare, nebbia fittissima dove nulla risulta nitido, nulla mantiene le normali forme definite.
Una scena onirica, il paesaggio ricorda un sogno, eppure nell’aria aleggia una sensazione di realtà.

Ettore inspirò profondamente. Un solo respiro, deciso, risoluto, un sussulto.
«Lo senti il rumore del faro?».
Ettore aprì gli occhi, alzò la testa e guardò in lontananza.
Si sentì spiazzato. La nebbia aveva reso tutto opaco, non esisteva più un orizzonte definito.
Inspirò una seconda volta. Un respiro lungo, quasi teso a riacquistare forze, come per ricaricare le energie.
Vide solo grigio intorno a sé. Cercò di capire cosa stesse succedendo ma era ancora intorpidito e si sentì ancor più perso.
«Mi hai sentito?» ribadì la stessa voce di qualche secondo prima «Lo senti il rumore del faro?».
«Sì» rispose Ettore quasi automaticamente, senza controllare da dove venisse quella voce «sento un rumore, ma non è il rumore del faro, il faro emette solo la luce. Il suono lo produce il nautofono. Questo è il suono del nautofono».
Si guardò intorno per un tempo lungo, indefinito. Non riusciva proprio a capire dove fosse e intanto, anche solo per qualche secondo, il paesaggio era tornato silenzioso.
Fu attorniato da una sensazione di paura e sgomento, lo smarrimento che stava provando iniziò a preoccuparlo e impaurirlo.
Diversi pensieri gli riaffiorarono in testa e si rese conto di non ricordarsi minimamente com’era finito in quel posto. Lo smarrimento fu talmente grande da inondarlo di una sensazione di sconforto e pessimismo ancor più grande.
«Come ti senti ora?» riprese a parlare la strana voce.
«Non tanto bene... » rispose senza rendersi conto, poi: «Ma chi sei?» chiese spaventato Ettore.
«Come chi sono? Non mi riconosci?» rispose la strana voce accompagnando le parole con una lunga e divertita risata «sono sempre io, Mr I».
Ettore si sentì ancor più confuso, quel nome gli ricordava qualcosa.
Si guardò di nuovo intorno, la fitta nebbia non gli permetteva di distinguere nulla. Riusciva sì ad udire il suono del nautofono, ma non era in grado di riconoscere il paesaggio, una distesa di colore grigio, un pot-pourri di suoni e odori, una visione cieca dell’universo.
Lo avvolse una sensazione particolarmente inusuale, la nebbia sembrava aver offuscato anche i suoi pensieri. Come nel paesaggio esterno anche all’interno della sua mente non esistevano più punti di riferimento e ricordi nitidi.
Voleva fare qualcosa, voleva capire. Quindi si alzò.
Ma il solo sforzo di alzarsi lo fece sentire stanco, pesante, goffo.
Provò ad accennare qualche passo, ma senza punti di riferimento gli parve di camminare ad occhi chiusi, con il groppo nello stomaco tipico di quando si salta nel vuoto. Dovette fermarsi e sedersi di nuovo.
Gli venne da piangere.
Capì che voleva esprimere le sue sensazioni, che voleva parlarne con qualcuno per liberarsi da quella tristezza. Fu invaso da un’irrefrenabile voglia di scrivere per riversare su carta i pensieri negativi.
Cercò nelle tasche, trovando incredibilmente una penna e un taccuino. (…)




Gabriele Astolfi (Bologna) è laureato in giurisprudenza e lavora in banca. Ha frequentato corsi di filosofia, di teatro e di lettura espressiva, e recitato per nove anni in una compagnia di teatro dialettale, prima di cominciare a scrivere. Nel 2003 ha pubblicato con Ibiskos Editore, di Empoli, il primo romanzo, La pratica, premio della satira al concorso internazionale di narrativa Città di Salò 2004 e segnalato al concorso via Francigena dello stesso anno. Nel 2005 pubblica con Giraldi Editore di Bologna, il romanzo Una giornata normale. Nel 2007  pubblica, sempre con Giraldi Editore, la prima raccolta di racconti, Due zampe di troppo. Nel 2009 esce … andremo ancora a giocare, un’antologia del Riposo di Snoopy, il cimitero per animali d’affezione di Grizzana Morandi (BO), sempre per la Giraldi. Ed. Ha vinto diversi premi in concorsi letterari ed è presente in diverse antologie (fra cui Creare mondi di Fara, 2011).

Giudizio

“Quante volte per altri è vita quello che per noi è un minuto”. È l’adagio di una vecchia canzone. Il racconto scivola lieve e duro allo stesso tempo, a ricordarci che ogni nostro singolo gesto, ogni nostra singola azione possa segnare il destino e la vita di chi ci sta accanto. (Leonardo Innocenti)


Non è successo niente

Mi sono svegliata più stanca di quando mi sono addormentata, il sonno che andava e veniva, gli occhi che si aprivano e si chiudevano; a intermittenza, come le luci di un albero di Natale in agonia. Mi muovo come una tigre in gabbia, i movimenti lenti, intorpiditi, nella cattività in cui barcolla il mio fantasma e lo esaurisce. Vado alla finestra e guardo in strada; di nascosto, nel timore possano vedermi. Quasi a vergognarmi di guardare, io ferma, il mondo che va avanti. Stringo gli occhi e mostro i denti a ciò che vedo, gridando tutta la mia rabbia, la mia sofferenza. Benché dalla mia bocca non esca nulla. Solo un conato di vomito, sepolto dalla mia saliva.
Non ho più giorni, più notti; solo incubi. Poco importa che gli occhi siano aperti o chiusi, che la vita sia reale o immaginaria. L’incubo è la sola realtà all’orizzonte, l’unica certezza del futuro. È deserto e oasi insieme.
La mia sofferenza è così sparsa nei miei gangli, commista alle mie fibre, che è diventata parte di me. Sono io a vivere in lei, come un saprofita, e non lei in me. Sono un pezzo della mia sofferenza. Sono la Sofferenza stessa. Non sento più nulla, non mi accorgo più di nulla. Nemmeno che sono viva. Benché non sia nemmeno morta.
Mi trascino in cucina e apro il gas. Se mi addormentassi ora, sarebbe per sempre. Sarebbe l’ultimo viaggio, dopo quello cominciato quando ha avuto inizio la mia caduta libera. Un viaggio nel chiuso di casa, murata viva; una via crucis sotterranea, da topo di fogna, senza poter uscire, a pena di un’infamia peggiore di quella alla quale mi hanno crocifisso. E a cui io ho contribuito a fornire i chiodi.
Accendo il fornello, riempio una pentola d’acqua e la metto sul fuoco. Ho seguito i consigli di mia madre. “Metti su l’acqua e fatti da mangiare.” Per adesso ho messo su l’acqua. A fuoco basso, perché non bolla tanto presto. Per il resto si vedrà.
Sara mi guarda interessata; quando mi vede in cucina è sempre interessata. Scodinzola piano, interrogativa; che sia la volta di una pappa calda?, sembra chiedere il suo tartufo mobile, dopo settimane di croccantini. Dubbi mangerecci a parte, è tranquilla, ha già fatto i bisogni in terrazza. Più tardi pulirò. Forse. Sara non lo sa, ma è rimasta il mio unico aggancio alla vita, il mio salvagente nell’oceano. O lo sa? Da quando è iniziato tutto non dorme più nella sua cuccia ma sul mio letto, aggrappata a me. Una mattina mi sono svegliata con una sua zampa sul mio braccio, come a dire “Non preoccuparti, ci sono io con te. Tutto andrà a posto.” Lo sa, ne sono sicura. Sa tutto, il mio cane. (…)



Nadia De Stefano è nata a Reggio Calabria e  risiede in Carbonara Scrivia (AL). Diploma di maturità d’Arte anno 1987. Rilevatore dei beni culturali regione Calabria anno 1988. Impiegata presso l’INPS dal 1988 a tutt’oggi. Appassionata lettrice e scrittrice per diletto, ha pubblicato la prima antologia di poesie Amore Condiviso, con altri tre autori (editore Albatros gennaio 2011). È presente in varie Antologie.

Giudizio

Alla fine poi, l’amore trionfa. Non che questo racconto abbia una fine banale, anzi, la dolcezza che accompagna il lettore, fino alla fine appunto, alza la storia ad un livello umano notevole. “…lui non era un termine – autistico – lui era mio fratello…” come non sentire un brivido nel leggere queste parole? Delicato, prudente, nelle descrizioni, nelle emozioni che il protagonista tiene quasi nascoste. A volte le parole non servono: le azioni fanno molto di più. (Laura Bonalumi)



Quello che conta

Ho passato la vita ad osservarlo, mio fratello è il mistero chiuso nel silenzio.
Ho osservato ogni sua piccola mania cercando di capire il suo mondo, lo guardo oggi e non ci capisco ancora nulla.
“Autistico”.
Avevo quattro anni quando per la prima volta i miei genitori cercarono di spiegarmi il senso di questo termine.
Ma lui non era un termine, lui era mio fratello. Lui è mio fratello.
Ho capito dal primo momento che quel termine legato a lui era il dolore dipinto sui volti di mamma e papà. Ma tutto quello che loro hanno fatto nel corso degli anni è stato amarlo.
Lo guardo oggi in questa stanza quattro per quattro di una casa di riposo e penso che sono uno stronzo.
L’ho abbandonato qui per mesi dopo la morte di mamma, che ha seguito quella di papà giusto sei dopo.
Lui non mi guarda ma sa benissimo che sono in questa stanza, lo capisco dal tamburellare delle dita sulle gambe, lo fa’ sempre quando sono con lui.
Osservo il mistero celato nel suo mondo parallelo, in trentacinque anni non sono riuscito neppure a sfiorarlo.
Mi siedo sul letto, lui tamburella più forte le dita sulle gambe.
Questo è il suo modo di dirmi che sto violando la sua proprietà, sorrido al ricordo dei tanti momenti in cui la violazione volontaria da parte mia provocava la sua collera che si risolveva in urli disumani.
Mi alzo e mi avvicino a lui, so che non vuole essere toccato, e non lo faccio, appoggio le mani sulla sedia e lo osservo di spalle.
Ha smesso di tamburellare ed ha la testa reclinata da un lato e guarda nel nulla.
In quel nulla apparente per me, c’è invece tutto il suo mondo e come sempre vorrei riuscire ad entrarci e capire.
Ho lasciato mia moglie con le bambine in macchina nel parcheggio della casa di cura.
Non so’ cosa pensi lei della mia visita improvvisata. Fino a due minuti fa non lo sapevo neanche io. (…)




Simone Mazza  è nato a Parma nel 1969, si è laureato in Filosofia con una tesi sulle Fiabe popolari, che rappresentano ancora un suo privilegiato ambito di indagine e sulle quali ha scritto numerosi articoli per diverse riviste specializzate. Abita a Parma, dove svolge la professione di docente di Lettere nella Scuola Secondaria inferiore e ha avviato anche un'attività di servizi Internet. Ha pubblicato due raccolte di racconti (una con Fara) e altri suoi racconti sono stati selezionati in alcune antologie (fra cui Creare mondi di Fara, 2011).


Giudizio

Alla fine il vero protagonista del racconto è la genesi del racconto stesso. Ovvero il punto di forza del racconto sta nel suo carattere performativo: la narrazione della storia di Anna si scopre essere la storia che Anna sta scrivendo e il cui finale è quindi in bilico davanti agli occhi del suo stesso protagonista. Ben calibrato il linguaggio e il ritmo del discorso. (Francesco Gaggi)


Vita di Anna

Anna era una donna sola che non amava la solitudine. “Però ho molto tempo per me…” pensava, fingendo di consolarsi, mentre fissava la finestra, inondata di sole. Avesse piovuto, non avrebbe avuto nulla da rimpiangere, almeno quel giorno. Invece, anonimi, ma apparentemente felici vicini scendevano con i cani da passeggio lungo i viali alberati di quel meraviglioso autunno e il delicato rumore delle ruote delle biciclette la stuzzicavano, insinuandole desideri di comunione.
Giocherellando con il suo segnalibro d’argento, Anna provava a convincersi dell’ebbrezza singolare della sua libertà. Ma ora la stanza le pareva troppo immobile per non desiderare qualcos’altro.
Si decise a scendere, avendo cura che gli zoccoli rimbombassero sulla scala di legno.
Successe che le parve di udire anche uno strano, insolito scricchiolio.
Si fermò; e anche lo scricchiolio si fermò.
Tese l’orecchio, ma senza turbamento alcuno: pensava che avesse desiderato, più che temuto, quella lieve anomalia.
Avvertì così che non si trattava dello scricchiolare delle scale, ma di un noioso sgocciolamento del rubinetto del bagno. Provvide a girare meglio il rubinetto e si diresse alfine in cucina. Mentre il frullatore andava, pensò ancora una volta alla fortuna di abitare in un quartiere così… protetto. Così tranquillo.
Passando per il corridoio, sentì ancora il rubinetto perdere acqua.
“Lo dovrò fare aggiustare”, pensava e, per nulla contenta del forzato ruolo domestico a cui l’avevano spinta quelle piccole “imperfezioni”, andò decisa in bagno, con tanto di chiave inglese. Trasecolando, s’avvide che la perdita non era da attribuirsi al rubinetto del lavandino,
ma allo scrosciare dell’acqua della vasca, che ella doveva inavvertitamente avere provocato. Non ricordava nemmeno di aver deciso di fare il bagno.
In quel momento il pendolo segnò rumorosamente le cinque.
Ancora, il frullatore aveva ripreso a girare a vuoto.
Questo era troppo, almeno per quel pomeriggio. Smise di tranquillizzarsi e di aggiustare pezzi di casa difettosi: sapeva cosa stava succedendo, sapeva quale ombra stava per bussare alla porta, sapeva quale voce le stava sussurrando agli orecchi, quale fantasma stava venendole a fare visita. E lei doveva prepararsi. Prese il suo quaderno rosso e andò di fronte all’enorme specchio di camera sua, guardandosi a lungo, come a soppesare pazientemente, dettaglio per dettaglio, le presenze inquiete e impazienti della sua stanza deserta.
Ecco, tutto era pronto: lo specchio, la necessità di guardare ancora lo spettacolo delle sue paure vorticose. E lei, spettatrice e attrice di una visione contemplata e interpretata più volte, usata e “usante”, come un burattino che alterna il ruolo del burattinaio.
Anna socchiuse gli occhi, come per guardare meglio, ma pareva che, anziché scrutare un orizzonte ignoto, piuttosto sorvegliasse che il tutto seguisse una precisa e conosciuta sequenza di eventi, come chi si appresta a giocare ad un rito giocato cento volte prima.
Anna pareva insieme atterrita ed attratta da una voce acutissima e vibrante di collera e da scoppi di singhiozzi convulsi che provenivano dall’interno dello specchio, come se questo desse su una stanza vicina. (…)



Subhaga Gaetano Failla è nato a Scalea (CS) nel 1955. Laureato in Sociologia a Urbino, vive a Massa Marittima (GR). Svolge la professione di insegnante. Ha fatto parte di gruppi teatrali. Ha pubblicato saggistica sociologica in volume e su una rivista. Suoi racconti, poesie e altri scritti sono presenti in numerose riviste, in una trasmissione di RAI-Radio 3, sul quotidiano Il Messaggero, in e-book e siti e riviste online italiani ed esteri. Sue poesie in lingua inglese, poi tradotte in francese e tedesco, sono state pubblicate nelle antologie Zen poems (Londra, 2002) e Haiku for lovers (Londra, 2003). Libri di racconti: Logorare i sandali (Aletti, 2002); Il coltello e il pane (Aletti, 2003); La signora Irma e le nuvole (Fara, 2007); il racconto lungo Il seminario di Vinastra è nel volume 3x2 (Fara, 2006). Suoi testi sono presenti in diverse antologie di editori quali Fara, Perrone, Delos Books, Azimut, Aletti, Morrone. Ha collaborato con la rivista londinese Hazy Moon e con la rivista Orizzonti. Collabora con il litblog Letteratitudine.

Giudizio

Echi di Dino Campana e di Isodor Ducasse ricombinati con uno stile personale. (Leonardo Montecchi)


L’uovo della fenice

“... portando con sé i resti del corpo del padre imbalsamati in un uovo di mirra, per depositarlo sull’altare del dio del Sole e bruciarli.” (Erodoto)

Gesualdo si invischiava per giorni e settimane in pensieri che lo stancavano e spaventavano. L’incessante fluire eracliteo nell’impermanenza diveniva per lui un fiume di fango lentissimo, che s’immobilizzava, coagulandosi infine in un gigantesco serpente di terra per sempre fermo, senza occhi né denti, senza nemmeno una bocca che potesse divorarlo.
Aveva percorso quel sentiero mille e mille volte. Invano, perché compiva ripetutamente lo stesso errore. Appariva nella sua mente un qualsiasi pensiero spiacevole oppure una idea che lo turbava e, già preda dell’ansia, cercava in tutta fretta di liberarsi di quel pensiero, o s’aggirava affannosamente attorno a una idea in cerca d’una porta d’accesso, d’un significato – una soluzione insomma che rendesse l’idea inoffensiva.
Si comportava come certi automobilisti inesperti alle prese con il proprio veicolo impantanato: facendo girare a vuoto le ruote, nel tentativo di uscire dal fango, scavano una buca che li fa affondare ancor di più.
E Gesualdo, ormai al limite delle sue forze, cercò un aiuto, una fune che lo tirasse fuori dalle sabbie mobili.
Andò da uno psicologo suo amico.
In quel periodo si era invischiato nell’idea forse più carica di insidie rispetto a tutte le altre: l’immutabilità. Un concetto in grado di inibire, se utilizzato come alibi per deresponsabilizzarsi, qualsiasi impeto alla vita. L’idea giusta per rendersi schiavo.
L’amico psicologo aveva la finestra del suo studio spalancata, in pieno inverno. Fumava una sigaretta in gran tranquillità, fregandosene di tutte le teorie sulla suzione, il seno materno mancante ecc. Offrì una sigaretta all’amico e mentre la stanza si riempiva di fumo, nonostante la finestra aperta, Gesualdo raccontò il motivo della sua visita. Fu una esposizione abbastanza breve, intervallata da poche domande da parte dello psicologo, il quale infine disse:
“Fai come Zeno Cosini. Scrivi un diario. A lui non è servito a niente, nemmeno per smettere di fumare. E può darsi che non serva neanche a te. Però non fa di certo male.”
“E chi è Zeno Cosini?” chiese Gesualdo.
“Il protagonista della Coscienza di Zeno.”
“Ah, già. Non l’ho letto.”
Accesero un’altra sigaretta e parlarono di vecchi amici che non vedevano da anni e del progetto d’una prossima rimpatriata in pizzeria. Abbracci e baci e Gesualdo entrò in una tabaccheria e comprò un bel quaderno con la copertina verde.
Tornato a casa, come un bravo scolaretto scrisse sulla prima pagina del quaderno:
“Caro diario”.
Quella notte, prima di andare a letto, narrò a sé stesso la giornata appena trascorsa. E così fece anche nelle notti dei mesi successivi, fino alla primavera. (…)




Michela Lombardi è nata a Montecchio Maggiore (VI) nel 1974 e risiede ad Arzignano (Vi). Frequenta il centro Arcobaleno dal 2003 e dal 2007 ha intrapreso un percorso abitativo di coppia con il suo compagno. Nel frattempo ha frequentato un tirocinio lavorativo che l’ha condotta a un impiego part-time.

Giudizio

Anelito di un sogno concreto e terapeutico, sognato dopo. Si scorge qualcuno che da dietro fa il tifo per questa vita, fuori dal seminato di ogni progetto iniziale della stessa penna che la traccia, e che le da nerbo. (Sara Alighieri)


Il mondo di Michela

Io mi chiamo Michela Lombardi, ho 36 anni e frequento il Centro Arcobaleno da sette anni, dove faccio varie attività.
Lavoriamo in due, Michela e Maurizio.
Io lavoro tre volte la settimana, faccio pulizie a fondo in cucina.
Poi vado al centro alle 12:20 a mangiare e a fare le attività. Delle volte aiuto a preparare le tavole oppure aiuto a distribuire la mensa o a spreparare. Aiuto anche a riordinare.
Il martedì, giovedì e venerdì vado a casa a fare le pulizie a fondo con un operatore del centro.
La sera vengono sempre degli operatori a fare le lavatrici con me.
Il martedì pomeriggio io, le ragazze e un’operatrice andiamo a Montecchio Maggiore in palestra a danzare.
Frequento il centro appunto da sette anni e da lì è scoccato il colpo di fulmine tra Michela e Maurizio. Ci siamo frequentati un paio di mesi e poi è arrivato il momento della risposta, il giorno del compleanno di Maurizio che è il 9 febbraio. Lui ha compiuto gli anni, io gli ho dato il regalo e la risposta, che era “sì” a mettermi insieme.
E adesso Michela e Maurizio vivono in un appartamento, un monolocale, dove sotto c’è un centro anziani. Abitiamo nel condominio da 5 piani e in pratica Michela e Maurizio vivono felici, sereni, contenti, in pace e tranquilli. In regola si vive e funziona così: ci si aiuta l’uno con l’altra persona, cioè lavorando in due.
Io lavoro alla casa di riposo alla Pieve e lui, Maurizio, fa l’operatore ecologico. Si alza presto la mattina per andare a spazzare le strade, svuota le campane, cambia sacchetti e cestini in piazza.
Michela e Maurizio provano tanto amore, tanta attrazione, tanto sentimento ed emozione. A Michela piacerebbe tanto cambiare lavoro cioè fare la segretaria anche vicino ad Arzignano, dopo, fare pulizie nelle case. Ho mia zia Francesca che ha una ditta di pulizie civili e industriali. Per me sarebbe una grande occasione per poter lavorare tutti i giorni con lei, così potrei avere più soldi, autonomia e sarei contenta, felice e soddisfatta.
Dopo il lavoro si va al Centro Arcobaleno a mangiare e fare attività.
Il lunedì e il mercoledì c’è pallavolo. Io sono magazziniera di pallavolo, aiuto gli operatori a gestire le divise, i palloni, le ginocchiere, i pali con la rete e do una mano durante gli allenamenti. Finito tutto questo si torna al centro a portare la roba sporca e si prende la terapia, poi si va a casa a mangiare e a riposarsi dopo la doccia. (…)



Vincenzo Misuraca è “Ognologo” (termine da lui stesso creato per definire colui che ama fare ogni cosa… anche se non al meglio dice: “Ognologo? un qualcosa in più di Tuttologo)
n. il 24.02.1962 res. a Teramo. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Teramo. Alto, bella presenza, Iper-attivo (definisce il dormire una perdita di tempo). Direttore di Banca. Separato (2 figli - meravigliosi!). Segretario Regionale Mensa Abruzzo (Q.I. elevato). Presidente Teramo Rugby. Presidente Ass.ne Kiwi – per volare senza ali (sociale). Socio, consigliere, ecc., in diverse associazioni con diverse finalità. Persona seria ed affidabile, non prende mai nulla seriamente (controsenso o tattica?). Ama viaggiare, in particolare in moto, spesso e volentieri solo.

Giudizio

Misantropia, relativismo, nichilismo: questo racconto riassume in maniera perfetta i mostri della solitudine di coloro che immersi nell’effimero rischiano di perdere ogni speranza di possibile reazione al male metafisico. (Alex Celli)


SIAMO TANTI, SIAMO SOLI!

In questo preciso istante, proprio nel momento in cui io poggio la penna su questo foglio, siamo diventati 6.812.952.13, gli abitanti della terra.
Queste non sono cifre “sparate” a caso, ma un calcolo statistico, una previsione che arriva del Censis Bureau, l’organizzazione governativa americana che fornisce informazioni demografiche e si occupa del censimento e di analisi sulla popolazione.
Per l’esattezza è l’orologio che registra i nuovi nati e le dipartite, è il World Population Clock, che sta segnando il conto.
L’orologio, che opera costantemente, stima che ogni secondo nascano 4,1 persone, a fronte di 1,8 decessi. Le cifre sono necessariamente soggette a errori, vista la difficoltà di calcolare con esattezza le variazioni incessanti a livello mondiale. I dati, comunque, ci dicono che la popolazione sta aumentando, anche se il tasso di crescita è diminuito rispetto a quello dei decenni scorsi, ma la cosa non tranquillizza Frank.
Siamo quasi 7 miliardi di individui… soli. Lo so, sembra un controsenso, siamo tanti, aumentiamo ad ogni secondo che passa, se siamo svegli, se dormiamo, se lavoriamo o siamo al cinema, ma siamo comunque soli, soli ed egoisti, oppure soli perché egoisti.
Poche cose ci accomunano: la religione, la bevuta al pub, il lavoro in ufficio o in fabbrica, lo sport, ma soltanto per alcuni e brevi istanti, logicamente se non insorgono difficoltà di alcun genere: telefonata improvvisa, malessere fisico, ingorgo stradale, nel qual caso torniamo ad essere soli in men che non si dica.
Siamo: 6.814.453.189.
Siamo soli, egoisti, eppure tanti, la cosa preoccupa Frank.
Ci sarà cibo per tutti ? (Sono tante, troppe le bocche da sfamare), ed energia ? (gasolio per l’auto, gas per il riscaldamento), c’è spazio per tutti ? (ovunque ci voltiamo non troviamo più “spazi vuoti” si costruiscono case ovunque, si cementifica tutto). Anche se la risposta per ora è “Sì!”, Ma… fino a quando? Quanti anni devono passare ancora prima che il mondo non sia saturo, per l’una o l’altra cosa, ed imploda?
L‘unica cosa che tranquillizza Frank (ed una moltitudine di gente come lui) è che, ogni tanto il telegiornale lo conforta con notizie tipo: Terremoto in…. 68mila morti, Tsunami in …. 120mila morti, Epidemia di colera in… 250mila morti, attentato terroristico in … 30mila morti, guerra in… 70mila morti. (…)

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