martedì 18 maggio 2010

Benedetto XVI ovvero il coraggio della misura

di Bernardo F.M. Gianni
Prendendo a prestito il titolo di un saggio dedicato nel 1998 a Pietro di Montmoittier, celebre abate di Cluny , e cioè “Pietro il Venerabile il coraggio della misura”, per dare una riassuntiva etichetta alla valore e ai contenuti del discorso tenuto da Papa Benedetto al Collegio dei Bernardini, potremmo anche noi dire Benedetto XVI a Parigi ovvero il coraggio della misura, adoperando con “misura” una parola chiave che molto può essere utile per comprendere qualcosa della vita monastica e del perché in essa il Papa ha trovato più che una ispirazione in un discorso certamente non solo storico, non solo erudito, ma soprattutto –e non poteva essere diversamente- in un discorso autenticamente “pastorale”, di quel Pastore cioè che osa avventurarsi con umile e sapiente coraggio oltre i confini della Chiesa per camminare nelle strade delle nostre città dove Dio, dice il Papa, è ormai “diventato veramente il grande Sconosciuto e lì incontrare –novello Paolo all’areopago ateniese, - le moltitudini in cui, nonostante tutto, “resta presente la domanda circa il Dio ignoto”, e quindi la mite ma ferma convinzione con cui riposizionare come legittima e feconda “quella domanda circa Dio”, che se fosse liquidata da un settario neopositivismo come domanda capricciosa e irrazionale significherebbe, dice ancora il Papa “la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”. Questo il culmine allo stesso tempo polemico e pastorale del discorso Parigino, del settembre 2008 tenuto in un luogo che il papa definisce emblematico: esso era infatti un antico centro di formazione accademica dei monaci cisterciensi fondati nel 1098 in Francia, edificato quando anche questi monaci, come già i grandi ordini mendicanti, percepirono alla fine del Medioevo la città come ineludibile luogo di confronto e accrescimento culturale, il College in anni recentissimi per volontà del Cardinale Lustiger è divenuto –dice ancora il Papa-   “centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società”, un centro che ben a diritto potrebbe rientrare fra quegli auspicati “atrii dei gentili” di cui il papa avrebbe parlato poco più di un anno dopo Parigi, nel dicembre del 2009 quando rivolgendosi alla curia Romana egli scriveva “Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta la ricerca (di Dio); dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56, 7; Mc 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr At 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto”.
Ecco, potremmo forse dire che a monte di queste stimolante e lucida proposta culturale ed ecclesiale del papa, forse ancora oggi non colta in tutta la sua importanza, ci stia proprio il discorso di Parigi, l’urgenza cioè di ribadire alle culture del nostro tempo il fatto che totalmente inerenti alla dignità dell’uomo siano la sete di Dio e il bisogno di cercarlo, di ribadire come, a fronte di variegati settarismi culturali e di tecnologismi scientifici e a fronte di fanatismi e fondamentalismi di vario genere, del tutto legittima è la possibilità, suggerita dall’intelligenza della fede, che sia plausibile quell’aspettativa dell’uomo che fondandosi sull’universalità della sua ragione si apra ad un Dio che corrisponda in pienezza al desiderio di altrettanta universalità, un Dio cioè creatore di tutti e di tutto. Ma non tutto certo può esaurirsi qui: questo che potrebbe sembrare un generico  e indefinito quaerere Deum diventa autenticamente salvifico secondo il Papa per uno straordinario incontro che solo rende sensato e fruttuoso il quaerere stesso, quello stesso cammino di ricerca: “occorre –dice il papa- l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio!”. Qui il paradosso e forse qui proprio la credibilità del Vangelo: Se l’umiltà dell’uomo è la scoperta del nostro umanissimo bisogno di Dio, l’umiltà di Dio, per un padre della Chiesa orientale, Isacco il Siro, è Cristo stesso, l’umile condiscendenza di un Dio cioè che si fa inerme per noi nella carne di Gesù, Logos eterno, parola eterna, al fine di colmare di luce e di pienezza la nostra ricerca di senso e la nostra indigenza creaturale. A Parigi il papa diceva: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio. Ecco forse il perché papa Benedetto, nel suo vivo, orante e insonne desiderio di riforma spirituale della Chiesa e dell’interiorità e dei costumi dei suoi membri e altresì nel desiderio di una sua ritrovata consapevolezza culturale nell’agorà del nostro oggi dal centro complesso e caotico di Parigi, capitale del XIX secolo ma forse della intera modernità, guarda ai monasteri, non certo per banali nostalgie metastoriche, ma col realismo pratico proprio del cristianesimo. I monasteri: scuola di umanità, che attraverso la pedagogia dell’umiltà si scopre nella sua vera misura di fragilità e di dignità –e dunque altro scopo non ha il monaco se non quello di quaerere Deum ovvero cercare la matrice celeste di quella dignità; e i monasteri come scuola di amore –schola dilectionis, diceva Benrardo- dove cioè l’uomo impara ad amare quel Volto, il Volto di Cristo, che rivelandogli la sua più vera immagine e somiglianza gli dice –col dono della Parola contenuta nella Scrittura- Chi solo dovrà ascoltare se davvero desidera tornare al luogo che con il nostro peccato di disobbedienza, cioè di non ascolto, abbiamo a suo tempo perso: e dunque Nihil amori Christi praeponere RB 4,21, “niente anteporre all’amore di Cristo”. Tale movimento, tale dinamismo fra la nostra fragilità e la nostra dignità, fra il mistero di Dio e il Suo Rivelarsi nel Volto di Cristo è un cammino –dice il Papa a Parigi- non misurabile nella lunghezza”. Senza misura è infatti il cammino che connette cielo e terra, Creatore e creatura –suspensa expectatio diceva mirabilmente il padre cisterciense Guerrico d’Igny- ma tutto il resto acquisisce una misura in forza di questa umile, gloriosa consapevolezza che la fede in Cristo dona e di cui i monasteri, con la loro bellezza e la loro pace voglio evocare, come manifesto anche estetico di un ritrovato umanesimo. Misura nella relazione fra uomo e Dio, anzitutto, ma anche fra persona e comunità, fra voce e silenzio, fra ricerca e contemplazione, fra fedeltà alla Parola e Sua interpretazione e, infine, fra preghiera e lavoro. Le ultime due coppie di relazione-Parola e interpretazione e preghiera e lavoro, per la loro importanza, sono esplicitamente evocati dal papa: il primo richiama l’importanza di comprendere che il monaco nella lectio divina cerca la Parola nell’insieme della scrittura, che sottopone ad una ricerca insonne. “La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. …Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada” Da qui secondo il papa una preziosa consapevolezza circa la centralità della misura in ordine al rischio oggettivo di una dittatura dell’arbitrio, del soggettivismo, dell’irrazionalismo. Da questa passione oggettiva e oggettivata per la Parola, direi storicamente ancorata a Cristo, nasce, e il papa non lo trascura, questa cura tipicamente monastica per la filologia, per l’erudizione di cui i monaci medievali hanno fatto una disciplina che dice quanto la ragione sia essa stessa necessaria in ordine alla conoscenza ed esperienza di Dio. Prima teologia è dunque la filologia intesa come scienza razionale della parola.
E ancora, la relazione vitale e delicatissima fra il quaerere Deum e il lavoro, che tanto caratterizza il mondo monastico. In tempo come i nostri in cui il lavoro o è sciaguratamente assente o eccessivamente preponderante e in cui le capacità tecniche dell’uomo lo rendono capace di trasformazioni di portata planetaria la parola del Papa a Parigi appare lucida e ineludibile: Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Questa relazione fra l’uomo e Dio chiamata dal papa così mirabilmente “misura” recupera una secolare tradizione umanistica circa la dignità e l’eccellenza di Adamo creato –in debite e ben misurate proporzioni -a immagine e somiglianza di Dio. In questo nostro inquieto oggi, segnato da una così drammatica dismisura in tutto, che è un altro modo per dire la nostra disumanizzazione, che i monasteri, col loro ineludibile primato assegnato a Dio e alla ricerca del Suo Volto da amare sopra ogni cosa e con la centralità assegnata alla discretio come quotidiana e coraggiosa capacità di misurare ogni forza e ogni debolezza, che i nostri monasteri tornino ad essere, come un tempo, scuole di un ritrovato umanesimo e, dove possibile, atrii attraverso i quali riaccendere nel cuore dei più il desiderio di Dio  e l’amore per la Sua Parola.

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