lunedì 12 gennaio 2009

Su Il primato della pietà di Nino Di Paolo


recensione di Barbara Rosenberg

Nino di Paolo, ne Il primato della pietà, edito da Fara, divide in due parti la narrazione ed esattamente una “Parte I: racconti (anche) autobiografici” e una “Parte II: altri racconti”. In questa struttura, solo apparentemente semplice, il narratore dedica sette storie alla propria esperienza, alla propria famiglia e alle proprie comunità di riferimento (Pero e Casalanguida): ne sono prova le scritte alla fine di ogni racconto rivolte ad amici e familiari. Gli altri sette racconti sono, invece, rivolti alla società in senso più ampio, di cui Nino di Paolo è appassionato lettore e critico (l’ingiustizia, la prigionia, il potere). Non a caso, anche in queste storie vi è la dedica a personaggi, che, tuttavia, non sempre sono legati al narratore, bensì alla società in cui egli vive (si pensi ai coniugi Welby, a Pinelli, alle vittime del pregiudizio).
Dopo aver molto pensato alla struttura di questo libro, intenso e appassionante, credo di poter azzardare un’ interpretazione.
Perché Nino di Paolo ricostruisce così minuziosamente le proprie radici, descrive la “sua” Pero, la “sua” Casalanguida, i “suoi” genitori? Perché parla di “sua” moglie e dei “suoi” figli, rendendoci parte di “segreti familiari” intimi come il dolore, la distanza, la nascita, l’amore, con dovizia di particolari?
È ossessionato dalle persone che lo circondano? Vuole fare un atto di generosità verso di esse rendendole note attraverso un libro? No. Non è questo.
E perché l’autore, in questa sua seconda opera, si firma “Nino” e non “Nicola”?
Ecco che la figura del Griot africano, il narratore del villaggio, si fa strada nella mia immaginazione. Il Griot è l’anziano, colui che conosce tutta la comunità e la storia di ognuno. Egli, prima di raccontare, deve osservare un rito, cioè deve farsi riconoscere, dichiarare le proprie origini, dimostrare di chi è figlio, le proprie radici, avere un nome riconoscibile. Deve rendere credibile la propria memoria. Soltanto dopo può ricostruire la vita degli altri, raccontare quello che è successo al villaggio in tempo di pace o di guerra, di gioia e di dolore. Può ricordare i matrimoni e le nascite, le morti ed i riti di passaggio. La sua narrazione rende la comunità unita. Le fa rivivere le proprie radici in modo che ogni elemento si senta parte di essa. Il griot è la coscienza sociale della comunità. Le sue parole portano insegnamenti, perché il dolore di uno è il dolore di tutti, la gioia di una famiglia è la stessa gioia delle altre.
Così Nino di Paolo, in questo libro, abbandona il proprio nome di battesimo, perché come “Nino” è conosciuto dalla sua “gente”, dichiara di essere figlio e nipote di migranti, rende noti i propri legami, parla del proprio lavoro. Si rende credibile affinché la sua storia si mescoli a quella degli altri.
Poi spogliandosi, ma mai completamente del suo ruolo di Griot, rivolge la sua attenzione ad una società più ampia e anche da essa trae spunto per dare insegnamenti. Non insegnamenti didattici, ma vissuti emotivamente, sperimentati su di sé. De Andrè direbbe “non al denaro, né all’amore, né al cielo”, Nino di Paolo dice “non al denaro, né al potere, né all’ingiustizia”. Il primato è quello della pietà, del riconoscere l’altro come specchio di sé. Il primato è quello della comunità di affetti e, non dimentichiamolo, soprattutto, quello della libertà.



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