mercoledì 26 marzo 2008

La ‘malattia’ letteraria di GRM

recensione di Paola Castagna
già pubblicata su gianruggeromanzoni.wordpress.com




Con “Il morbo” Gian Ruggero Manzoni ci presenta questa subdola malattia proponendoci una visione del tutto diversa e sconosciuta: la visione dell’altro che ci abita dentro, che quotidianamente ci alita sul collo, l’altro come morte, senza che l’uomo gli dedichi la dovuta attenzione. Malattia intesa non solo in senso fisico, ma morbo psicologico, spacciato per pura follia, un malessere collettivo, un disagio morale, una solitudine. Malattia come ultima cosa concessa in vita, visione della morte come un lusso per pochi, per i prescelti, per chi ha speso gli anni per un ideale più o meno discutibile, ma che attraverso le parole di Gian Ruggero Manzoni appare di un’audacia gloriosa. Un romanzo storico, una storia realmente accaduta, che sotto la mano attenta di Manzoni diviene altro, quell’altro che di rado si conosce nel frenetico dei nostri giorni. La storia (e da sempre Manzoni ha dimostrato a quanto sia attento a quest’ultima) è consapevole di come l’uomo è privo di memoria così che essa ci invita all’ascolto. Un dialogo a due, una voce narrante che invita il racconto per quella liberazione ultima, così da mantenere vivo quel credo che in vita ha accompagnato le imprese consumate. Motivazioni di una vita spesa alla ricerca di valori di uguaglianza, fratellanza e umana disponibilità. Poco importa se per ottenere tutto questo è la ‘bestia’ ad arrivare al compiuto, e non l’uomo. Già le prime pagine, cariche di tensione, proiettano il lettore nella dimensione di quei tempi, in modo che ti senti da subito al fianco del nostro eroe (mi piace chiamarlo così). E, per dirla grossa, non solo al fianco dell’ardito-spietato guerriero, uomo-soldato, ma nei suoi panni, spesso logori e consunti. Panni scomodi che restano addosso come una seconda pelle. Un viaggio a ritroso che è raccontato tra l’affanno e la falce della morte, già sollevata in aria, scritto da chi, con l’umiltà nello stomaco, riesce a comprendere tale gesto e, di rimando, prende tempo sulla vita. Si incontrano non poche difficoltà di comprensione tra chi racconta e chi ascolta-scrive, difficoltà dovute a un credo messo in discussione tra l’umano e il bestiale che ci abitano. L’epilogo di questa saga ci rende l’ennesima prova-testimonianza di ciò che siamo: comuni mortali con l’ambizione d’immortalità. Ma il gioco di ruoli è ben definito, la malattia racconta e il morbo ascolta “… il moribondo si acquietò e invitò il sacerdote ad avvicinarsi di nuovo: scusami e siediti, che il peggio è passato. Sopportami, come io, del resto, mi sono sopportato negli anni, e ho resistito anche contro il mio essere. Non esiste alcun uomo che possa rimanere sempre sulla breccia. Prima o poi ha un cedimento, che anche questo, degli uomini, io adoro…” (pag. 39).
Sfamare gli affamati, lavoro ai miserevoli, libertà agli schiavi, questo e altro nel testamento ultimo, che è scritto da un frate tra il sudore, il puzzo acre, gli escrementi e il vomito di una malattia ormai all’ultimo stadio. Una stanza, una donna, un religioso, un uomo in punto di morte. Un letto, uno scrittoio, uno sguardo d’intenti; prima un dialogo tra sordi, poi un capire oltre i limiti umani donati. Un rapporto autentico come pochi. La scenografia è fatta, le tinte offuscate da luci assenti e le parole, quelle vere, che restano addosso come fossero tatuate su di un corpo che si trascina senza motivazioni. Gian Ruggero Manzoni non si fa scrupoli, com’è solito fare, nell’indagare cosa si nasconde dietro al male, o dentro a esso. Non ha riguardi nel riconoscere l’importanza del femminile che lo accompagna come bene superiore, come non bada a spese nel denunciare figure che a quei tempi fecero più danni che altro. La capacità ardita di uno scrittore che attraverso la storia ci porta a conoscenza di personaggi realmente esistiti e come tali riconosciuti: “… scrivere di chi scrive, narrare di chi narra, vivere di chi vive, questi possono essere buoni esorcismi per la morte” (pag. 45). È inoltre molto interessante l’ambivalente aspetto del credo “… ad ogni eccesso la natura ti castiga, presentandoti il conto” (pag. 46) – “… due guerrieri testardi e coerenti, che solo Dio poteva far incontrare. Che solo la natura, e il caso che ci governa, poteva fare avvicinare” ( pag. 146).
La nudità dell’uomo è manifesta, la poetica di Manzoni svolazza nel corpo di un pappagallino, Felicità, che segue, come unico reale testimone, tutto lo svolgimento del dramma. Ma il racconto si intensifica proprio sul finale, nel momento in cui la morte è ormai prossima e non necessita più di rimando: “… avverto in te, frate, una ritrovata energia. Ciò mi rende in ultimo felice, perché sono riuscito a donare qualcosa ad un altro uomo, senza il bisogno di dover rubare od uccidere. Forse la mia vita aveva già concluso il suo ciclo, che la peste mi dà l’opportunità di fermarmi a pensare e a far luce, luce non sangue, su me stesso con il tuo aiuto. Ma ora scrivi, che più poco mi resta da campare” (pag. 166). Il tempo sembra improvvisamente non averne più di tempo, e gli ultimi capitoli sfuggono tra le mani, nell’inquietudine del voler svelare ciò che la morte ha riservato nel racconto. Uomini calati negli abissi, che con la loro vicinanza entrano in altri abissi, in un circolo vizioso dal quale volutamente non escono (e bravo, Manzoni, nella capacità di saper creare ulteriori interrogativi, oltre quelli già presenti). E proprio negli ultimi capitoli i conti sono fatti, il dado è tratto: dopo la vita, l’incontro, dopo la miseria, la ragione, dopo il male che contorce le viscere, il respiro. Quel respiro che concede al lettore di chiudere il libro, già pensando a quali pagine tornare a leggere.

IL MORBO di Gian Ruggero Manzoni, Ed. Diabasis 2002

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